Sofia si svegliò di soprassalto. Una sensazione di terrore la prese alla gola non appena aprì gli occhi.
“Un incubo. Devo aver fatto un altro incubo.”
Si tirò su piano, scrutò il buio. Era nella sua stanza, al sicuro, in una notte come le altre. Ma un senso di inquietudine le stringeva il petto.
Forse aveva sognato un’altra volta il frutto, non riusciva a ricordare. Nelle ultime settimane era stata tormentata dalle visioni. Ogni volta che sembrava delinearsi un luogo preciso, un’altra immagine ne mostrava uno diverso, confondendola. Se continuava così, rischiava di impazzire.
Appena appoggiò i piedi nudi a terra avvertì un fremito, come un lungo brivido che saliva dal pavimento.
“Forse quelle visioni mi stanno dando alla testa” si disse. Andò alla finestra, aprì i vetri e le imposte. Un’aria gelida invase la stanza. Sofia alzò gli occhi e trasalì: il cielo era di un nero compatto, innaturale. Non era semplicemente nuvoloso: era come se qualcuno avesse steso una pennellata di vernice sulle stelle e sulla luna. Non era buio: semplicemente la luce non esisteva più. Eppure il bosco intorno al lago di Albano era illuminato da un bagliore spettrale. Sembrava di essere in un film horror di serie B.
“È successo qualcosa… qualcosa di orribile” pensò.
Scattò verso la porta, ma non fece in tempo a raggiungerla, perché quella si aprì di colpo e sulla soglia comparve il professor Schlafen.
«Prof, cos’è successo?» chiese d’un fiato Sofia, indicando la finestra spalancata. C’era un freddo che ghiacciava le ossa.
Lui non rispose. Per qualche istante rimase immobile davanti alla porta, il capo chino e le braccia abbandonate lungo i fianchi.
«Prof… va tutto bene?»
Il professore alzò lentamente la testa. Era pallido come un cencio, gli occhi chiusi. Quando li aprì, Sofia sentì braccia e gambe pietrificarsi dalla paura. Erano rossi, e scintillavano come braci nel buio della stanza.
Schlafen aprì la bocca in un ringhio sibilante, e sulle spalle gli esplosero due enormi ali metalliche, nere come la pece e lucenti come lame.
Sofia non credeva ai propri occhi. Quei segni portavano un solo, inconfondibile marchio: Nidhoggr. Ma non aveva tempo per porsi domande. Il neo sulla sua fronte brillò fulgido e le mani si trasformarono negli artigli di Thuban. Sulle spalle comparvero due maestose ali di drago, e il suo corpo fu pronto alla battaglia.
Ma prima che Sofia potesse reagire, il professore si avventò su di lei. Il metallo delle ali ora aveva ricoperto anche le braccia, formando due guanti dotati di rostri affilatissimi. Sofia li scansò per un pelo.
«Prof, svegliati!» urlò, ma era come parlare al vento. Il professor Schlafen si gettò ancora su di lei, e i rostri si allungarono fino a sfiorarle la carne della spalla.
Sofia percepì l’agghiacciante sensazione del metallo che graffiava la pelle.
«Professore!» urlò ancora, ritratta in un angolo, ma lui insisteva ad attaccarla, il volto deformato in una smorfia di furore cieco. Sofia si limitava a schivare i colpi, senza tuttavia osare aggredirlo. Era il prof, non poteva fargli del male!
Un istante, e un artiglio sciabolò a un nulla dal suo viso, recidendole una ciocca di capelli. Sofia si acquattò a terra, rotolò di lato e si precipitò giù per le scale. Dietro di sé, sentiva il sibilo delle lame che fendevano l’aria, sempre più vicine. Quando giunse all’ultimo gradino, si voltò e vide che i rostri avevano scavato lunghi solchi bianchi nel tronco del grande albero che troneggiava al centro della villa, nella casa che ormai da quasi due anni condivideva con il professore e Lidja.
“Lui non farebbe mai del male alla quercia della villa” si disse, ma la creatura che incombeva su di lei non aveva più nulla di Georg Schlafen.
«Lidja!» gridò a squarciagola. «Dove sei finita?»
Non ricevette risposta. L’unico rumore che sentiva era lo stridio degli artigli ormai vicini.
Si distrasse un istante, sufficiente a far sì che il professore le balzasse addosso, stringendole il collo in una presa ferrea e inchiodandola a terra. I suoi occhi fiammeggianti incrociarono lo sguardo sperduto di Sofia per lunghi secondi. In fondo a quelle pupille non si scorgeva che rabbia e follia.
Alzò un pugno e glielo portò davanti agli occhi, pronto a sferrare il colpo mortale. Sofia strinse i denti e si risolse a fare l’unica cosa possibile. Abbracciò il professore con tutte le forze che aveva, e dalle mani le eruppero lunghe liane di un verde acceso che lo avvolsero completamente, bloccandone i movimenti. Si concentrò, quindi mosse le liane in modo da esplorare la zona del collo, dove in genere si annidava l’impianto che permetteva l’assoggettamento. Doveva capire in che modo Nidhoggr fosse riuscito a ridurlo in quello stato, ma non trovò nulla. Di nuovo rimase incerta per una frazione di secondo, e di nuovo il professore ne approfittò. Spezzò le liane con uno strattone, si sciolse dall’abbraccio e spalancò le ali, riguadagnando distanza. Sofia si trovò chiusa all’angolo, ansimante.
Scosse la testa e cercò di riportare la mente alla realtà: ora il professore era un nemico, e se voleva salvarlo doveva combatterlo esattamente come avrebbe fatto con qualsiasi creatura di Nidhoggr. Si fece forza e gli lanciò contro un secondo fascio di liane, ma lui si muoveva da un lato all’altro della stanza rapido come una freccia, tranciandole di netto. Sofia tese allora l’altro braccio e scagliò contro le sue ali nere un viluppo di liane. Finalmente il professore cadde a terra, dibattendosi come un pazzo, ringhiando e graffiando il pavimento. Lei lo strinse ancora più forte e volò intorno all’albero. Una decina di giri, e Schlafen venne ridotto all’immobilità. Sofia si concentrò un’ultima volta e trasformò le liane in saldi rami di legno.
Non fece in tempo a tirare un sospiro di sollievo che un urlo giunse dal piano di sopra. Lidja. Sofia spiegò le ali di Thuban e volò in direzione del rumore, gettandosi nella stanza dell’amica. La scena che le si presentò aveva dell’incredibile: Lidja, le ali di Rastaban spiegate, tendeva gli artigli verso un uomo, all’altro capo della stanza, mezzo sepolto da una catasta di mobili.
Era Thomas, eppure non era lui. Urlava, il volto deformato, gli occhi rosso sangue. Sulla sua schiena erano esplose ali metalliche identiche a quelle del professore, come identici erano gli artigli che puntava contro Lidja.
«Sof, non ce la faccio, dammi una mano!»
Sofia si riscosse all’istante. «Fai volare il lenzuolo!» gridò.
Lidja non se lo fece ripetere, e con i suoi poteri telecinetici gonfiò la stoffa fino a farla veleggiare sopra la testa di Thomas. Sofia la intercettò con una liana, quindi la strinse più forte che poteva intorno al corpo del maggiordomo. Poi, come aveva fatto con il professore, trasformò la liana in legno.
Si piegò in due, esausta, le mani sulle ginocchia, il fiato corto.
«Stai bene?» chiese Lidja appoggiandole una mano sulla schiena.
Sofia annuì, rossa in viso. «Il prof… anche lui… è stato assoggettato» riuscì a dire tra gli ansiti.
Lidja la guardò incredula e rimase in silenzio qualche istante.
«Non è possibile… Sof… cosa sta succedendo?»
«Non lo so, Lidja. Non lo so.»
Trascinarono Thomas giù per le scale e assicurarono anche lui al tronco dell’albero. Lidja corse nello studio a prendere la pozione che il professore aveva usato per addormentare Effi, la madre adottiva di Karl, a Monaco, quando le avevano estratto dal corpo l’embrione di viverna che l’aveva posseduta.
Costringerli a berla fu un’impresa. Pur avendo gambe e braccia immobilizzate, muovevano la testa come furie e mordevano l’aria, tentando di affondare i denti nelle mani di Lidja e Sofia. Ma bastò far scivolare loro una sorsata tra le labbra, ed entrambi persero subito conoscenza.
Sofia rimase immobile a osservarli, incapace di credere a ciò che aveva appena fatto. Volse lo sguardo alla casa. Per tanto tempo era stata un rifugio, un luogo sicuro in cui proteggersi da Nidhoggr. Ma adesso era stata violata e portava i segni di una terribile battaglia. Profondi tagli avevano messo a nudo il legno chiaro sul tronco dell’albero intorno al quale si sviluppavano i muri. Alcuni gradini della scala che conduceva al piano di sopra erano sfondati, e la carta da parati che rivestiva le pareti era lacerata in più punti. Parte della mobilia era andata distrutta, e una credenza antica cui il professore era molto affezionato giaceva a terra, con le ante sventrate.
«Non capisco» disse Lidja riportando Sofia alla realtà. «Non hanno l’innesto degli Assoggettati.»
«Lo so, l’ho già cercato. Sembra che abbiano creato un nuovo sistema di assoggettamento.»
Ispezionarono i corpi con più attenzione, ma non trovarono alcuna traccia del ragno metallico tipico degli Assoggettati, che affondava le zampe nel collo per insinuarsi dentro la colonna vertebrale. Le ali, cui erano connessi gli artigli, si innestavano sulle scapole e il metallo penetrava direttamente nella carne.
«Forse l’innesto ha cambiato forma» disse Sofia.
«Tu pensi che gli abbiano messo le ali così, sulle spalle? E come abbiamo fatto a non accorgercene prima?» obiettò Lidja, poco convinta.
«Questo varrebbe anche nel caso dell’innesto a forma di ragno. Ieri sera il prof e Thomas erano tranquilli, non avevano nessun segno di assoggettamento. È successo stanotte.»
«Impossibile. Siamo protetti dalla barriera della Gemma.»
«Forse la sua efficacia è diminuita. Ti ricordi? È già successo in passato, quando Karl era morto.»
Lidja la guardò intensamente. «Io sono stata nel dungeon ieri sera, ed era tutto a posto. E comunque non avrebbe senso. Se le viverne sono entrate qui dentro, perché hanno perso tempo ad assoggettare il professore e Thomas? Avrebbero potuto ucciderci nel sonno.»
Sofia si morse il labbro, nervosa. Lidja aveva ragione. Che diavolo stava succedendo? Quella terribile sensazione di paura continuava a stringerle le tempie, inesorabile. Quanto avrebbe voluto che Fabio fosse lì con lei. Scacciò subito con rabbia quel pensiero. Fabio era l’unica cosa a cui non doveva pensare in quel momento. Da quando si erano lasciati, a Edimburgo, il loro rapporto era diventato ancora più difficile, e ogni volta che lo vedeva le mancava la terra sotto i piedi. Senza contare che scompariva per giorni e rispuntava solo quando ne aveva voglia. Almeno, da quando lei aveva iniziato ad avere quelle strane visioni, si era degnato di farsi vivo e ora si trovava con Karl a Isola Farnese, un piccolo borgo nei dintorni di Roma, alla ricerca del frutto.
Ewan e Chloe invece erano rimasti a casa loro. Avevano trovato un piccolo appartamento a Castel Gandolfo, e si erano stabiliti lì con Gillian.
«Karl si è portato via tutta l’attrezzatura, stasera?» chiese Sofia.
«Non lo so… È uscito con un bel po’ di roba» rispose Lidja. «D’altra parte era il minimo che potesse fare, visto che non saresti andata con loro a cercare il frutto.»
Negli ultimi giorni Sofia aveva spremuto tutte le energie nel tentativo di sintonizzarsi con il frutto di Thuban, l’ultimo e il più importante dei cinque frutti che avrebbero fatto risplend...