«Le Sorelle desiderano vedervi nelle loro stanze, signorina Gray.»
Tessa posò il libro che stava leggendo sul comodino e si voltò.
Sulla soglia della sua stanzetta c’era Miranda, che vi compariva ogni giorno alla stessa ora per trasmettere, ogni giorno, lo stesso messaggio. Dopo un istante, Tessa le avrebbe chiesto di attendere in corridoio, e Miranda avrebbe lasciato la stanza. Dieci minuti più tardi sarebbe tornata e avrebbe ripetuto il medesimo messaggio. Se dopo alcuni di questi tentativi Tessa non l’avesse seguita obbediente, Miranda l’avrebbe afferrata e trascinata scalciante e urlante giù per le scale, nella stanza calda e puzzolente dove l’attendevano le Sorelle Oscure.
Era accaduto ogni giorno della prima settimana trascorsa da Tessa alla Casa Oscura, come aveva finito per chiamare il luogo in cui la tenevano prigioniera; poi si era resa conto che urla e calci non servivano a granché ed erano solo uno spreco di energia. Energia che probabilmente era meglio risparmiare per altri scopi.
«Un momento, Miranda» disse Tessa.
La domestica fece un goffo inchino e uscì dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle.
Tessa si alzò e si guardò intorno nella stanzetta che le faceva da cella ormai da sei settimane. Era piccola, rivestita di carta da parati a fiori e con pochi mobili: un semplice tavolo di abete con una tovaglia di pizzo bianca su cui consumava i pasti, lo stretto letto di ottone dove dormiva, il portacatino rotto e la brocca di porcellana per lavarsi, il davanzale dove aveva ammucchiato i suoi libri. E la piccola sedia dove ogni notte si sedeva a scrivere lettere al fratello, lettere che sapeva non avrebbe mai potuto mandare, lettere che conservava sotto il materasso, dove le Sorelle Oscure non le avrebbero trovate. Era la sua maniera di tenere un diario e rassicurarsi in qualche modo che un giorno avrebbe rivisto Nate e avrebbe potuto dargliele.
Tessa andò allo specchio appeso alla parete opposta della stanza e si lisciò i capelli. Le Sorelle Oscure, come in effetti desideravano essere chiamate, preferivano che non fosse in disordine, anche se a parte quello non sembravano tenere più di tanto al suo aspetto… per fortuna, perché il suo riflesso la faceva sussultare. Vedeva il pallido ovale del volto dominato dai grigi occhi infossati, un viso pieno di ombre, senza colore sulle guance o speranza nell’espressione. Indossava l’abito nero severo e sgraziato che le avevano dato all’arrivo; nonostante le promesse delle due sorelle, il suo baule non l’aveva mai seguita, e ormai quello era l’unico capo di vestiario che possedeva. Distolse svelta lo sguardo.
Non sempre si era ritratta nel vedere il proprio riflesso. In famiglia erano tutti d’accordo nel ritenere che fosse stato Nate a ereditare la bellezza della madre, ma Tessa era sempre stata pienamente soddisfatta dei suoi lisci capelli castani e dei miti occhi grigi. Jane Eyre aveva i capelli castani, come molte altre eroine. E non era neanche così male essere alta… superava quasi tutti i ragazzi della sua età , è vero, ma zia Harriet sosteneva che una donna alta con un bel portamento avrebbe sempre avuto un aspetto regale.
In quel momento, però, non sembrava affatto regale. Era tesa e sciupata, e nel complesso assomigliava a uno spaventapasseri spaurito. Si chiese se Nate l’avrebbe riconosciuta vedendola così.
A quel pensiero si sentì stringere il cuore. Nate. Era per lui che stava facendo tutto ciò, ma a volte le mancava talmente tanto che le sembrava di avere ingoiato dei frantumi di vetro. Senza di lui era completamente sola al mondo. Non aveva nessun altro, nessuno a cui importasse se fosse viva o morta. A volte l’orrore di quel pensiero minacciava di sopraffarla e sprofondarla in un’oscurità senza fondo e senza ritorno.
Se in tutto il mondo non c’è nessuno a cui importa di te, esisti davvero?
Lo scatto della serratura troncò bruscamente quei pensieri. La porta si aprì.
Miranda comparve sulla soglia. «Ora è tempo che veniate con me. La signora Black e la signora Dark vi stanno aspettando.»
Tessa la guardò con ripugnanza. Non riusciva a indovinare quanti anni avesse. Diciannove? Venticinque? Nel suo viso liscio e tondo c’era qualcosa che non aveva età . I capelli, tirati dietro le orecchie in una pettinatura severa, avevano il colore dell’acqua stagnante. Miranda aveva gli stessi occhi da rana del cocchiere delle Sorelle Oscure, occhi che le conferivano un’aria perennemente stupita. Tessa pensava che fossero parenti.
Mentre scendevano di sotto – Miranda con la sua sgraziata andatura a scatti – Tessa alzò la mano per toccare la catenina che portava al collo, a cui era appeso l’angelo meccanico. Era un’abitudine… un gesto che faceva ogni volta che era costretta a vedere le Sorelle Oscure. In qualche modo, la sensazione del ciondolo sul petto la rassicurava. Lo stringeva mentre superavano un ballatoio dietro l’altro. C’erano vari livelli di corridoi nella Casa Oscura, ma oltre alla sua camera Tessa aveva visto soltanto le stanze delle Sorelle Oscure, i passaggi e le scale.
Finalmente raggiunsero la cantina invasa dalle ombre. Laggiù le pareti erano fastidiosamente umide e viscose, ma le sorelle non sembravano curarsene. Il loro ufficio era più avanti, vi si giungeva attraverso una serie di larghe porte a due battenti. Uno stretto corridoio conduceva in un’altra direzione, sparendo nelle tenebre; Tessa non aveva idea di cosa si trovasse in fondo, ma bastava la fitta ombra in cui sprofondava il cunicolo a renderla felice di non averlo mai scoperto.
La porta dell’ufficio delle sorelle era aperta. Senza esitare, Miranda la varcò con passo pesante, seguita con gran riluttanza da Tessa, che odiava quella stanza più di ogni altro luogo sulla terra.
Tanto per cominciare, al suo interno c’era sempre un’aria calda e umida, come in una palude, anche quando fuori il cielo era grigio e piovoso. Le pareti sembravano trasudare umidità , i rivestimenti delle sedie e dei divani erano costantemente coperti di muffa. C’era anche uno strano odore, come sulle rive dell’Hudson in una giornata calda: un odore di acqua stagnante, spazzatura e limo.
Come sempre, le sorelle erano già lì, sedute dietro la loro enorme scrivania collocata su una predella. Indossavano come al solito abiti sgargianti: quello della signora Black era di un rosa salmone brillante, quello della signora Dark di un blu pavone. Sopra il satin dai colori vivaci, i loro visi sembravano grossi palloni sgonfi. Nonostante l’alta temperatura della stanza, portavano entrambe i guanti.
«Ora lasciaci, Miranda» disse la signora Black, che faceva girare il pesante mappamondo di ottone sulla scrivania con un dito grassoccio nel guanto bianco.
Tessa aveva provato molte volte a esaminare meglio il mappamondo – qualcosa nella disposizione dei continenti non le era mai parso del tutto corretto, in particolare lo spazio al centro dell’Europa – ma le sorelle gliel’avevano sempre impedito.
«E chiudi la porta.»
Senza alcuna espressione sul volto, Miranda fece come le era stato chiesto. Tessa cercò di non sussultare quando la porta si richiuse alle sue spalle, tagliando fuori la poca aria che circolava nel locale non ventilato.
La signora Dark inclinò la testa di lato. «Venite qui, Theresa.» Era la più gentile delle due, più propensa a blandire e a persuadere della sorella, a cui piaceva convincere a suon di ceffoni e minacce sibilate tra i denti. «E prendete questo.» Le porse qualcosa: un logoro pezzo di stoffa rosa legato in un fiocco, di quelli usati come nastri per capelli dalle fanciulle.
Ormai Tessa era abituata a vedersi porgere oggetti dalle Sorelle Oscure. Oggetti che un tempo erano appartenuti a chissà chi: spille da cravatta e orologi, gioielli da lutto e giocattoli di bambini. Una volta i lacci di uno scarpone, un’altra un orecchino spaiato macchiato di sangue.
«Prendete questo» ripeté la signora Dark, con una sfumatura di impazienza nella voce. «E trasformatevi.»
Tessa prese il fiocco. Giaceva nella sua mano leggero come un’ala di falena mentre le Sorelle Oscure la fissavano impassibili. Si ricordò dei libri che aveva letto, romanzi i cui personaggi subivano processi e stavano tutti tremanti nel banco degli imputati all’Old Bailey, pregando per un verdetto di non colpevolezza. In quella stanza le sembrava di essere anche lei sotto processo, senza sapere di quale crimine fosse accusata.
Si rigirò il fiocco in mano, ripensando alla prima volta che le Sorelle Oscure le avevano porto un oggetto: un guanto da donna con bottoni di perla all’altezza del polso. Le avevano gridato di trasformarsi, l’avevano schiaffeggiata e scrollata mentre ripeteva loro con isteria crescente che non sapeva proprio di cosa stessero parlando, cosa le stessero chiedendo di fare.
Non aveva pianto, anche se ne avrebbe avuto voglia. Tessa odiava piangere, soprattutto di fronte a persone di cui non si fidava. E delle due persone al mondo di cui si fidava, una era morta e l’altra era imprigionata. Gliel’avevano detto loro, le Sorelle Oscure; le avevano rivelato che Nate era nelle loro mani, e che sarebbe morto se lei non avesse fatto quanto le ordinavano. Le avevano mostrato il suo anello, quello che era stato di suo padre – ora macchiato di sangue – per dimostrarglielo. Non gliel’avevano lasciato tenere né toccare, l’avevano tirato via mentre lei allungava la mano per prenderlo, ma l’aveva riconosciuto ugualmente. Era di Nate.
Poi aveva fatto tutto ciò che le veniva chiesto. Aveva bevuto le pozioni che le avevano dato, aveva fatto ore di esercizi tormentosi, si era costretta a pensare come volevano che facesse. Le avevano detto di immaginarsi come argilla amorfa e mutevole modellata e plasmata sulla ruota del vasaio. Le avevano detto di immedesimarsi negli oggetti che le porgevano, di considerarli cose vive e di estrarne lo spirito che li animava.
Ci erano volute settimane, e la prima volta che si era trasformata era stato così incredibilmente doloroso che aveva vomitato ed era svenuta. Quando si era svegliata, era stesa su una delle chaise-longue malridotte nelle stanze delle Sorelle Oscure, e qualcuno le passava un asciugamano bagnato sul viso. La signora Black era curva su di lei, l’alito aspro come aceto, gli occhi accesi. «Siete stata brava oggi, Theresa» aveva detto. «Molto brava.»
Quella sera, quando Tessa era salita nella sua stanza, aveva trovato dei regali: due nuovi libri sul comodino. Le Sorelle Oscure dovevano essersi rese conto che la lettura e i romanzi erano la sua passione. C’erano una copia di Grandi speranze e, sorprendentemente, una di Piccole donne. Tessa aveva stretto a sé i volumi e, sola e non osservata nella sua stanza, si era abbandonata al pianto.
Da allora le trasformazioni erano diventate più facili. Tessa non capiva ancora cosa avvenisse dentro di lei per renderle possibili, ma aveva memorizzato la serie di passaggi che le avevano insegnato le Sorelle Oscure, così come un cieco potrebbe memorizzare il numero di passi che dividono il letto dalla porta della stanza. Non sapeva che cosa la circondava nello strano luogo nero in cui le chiedevano di recarsi, ma sapeva come attraversarlo.
Mentre serrava la presa sul logoro pezzo di stoffa rosa che teneva in mano, attingeva a quei ricordi. Aprì la mente e lasciò che vi scendesse l’oscurità ; lasciò che il legame che la univa al nastro per capelli e allo spirito al suo interno – l’eco spettrale della persona che un tempo l’aveva posseduto – si snodasse come un filo dorato che conduceva attraverso le ombre. La stanza in cui si trovava, il caldo opprimente, il respiro forte delle Sorelle Oscure… tutto svanì mentre seguiva il filo, mentre la luce diventava più intensa e lei vi si avvolgeva come in una coperta.
La sua pelle cominciò a formicolare e a bruciare, sollecitata da ...