Il tempo ora è divino, ma un paio d’ore fa è scoppiato d’improvviso il temporale. Le gocce di pioggia erano grosse come margherite, e cadendo rimanevano appese come pesci d’argento ai rami degli alberi. Il cielo scintillava di una luce scheggiata, il sole era un’immensa chiazza d’oro brunito.
Adesso, finita la pioggia, tutto sembra espandersi, crescere. I boccioli delle rose profumano in modo tanto squisito che mi sento mancare, le fresie sono fiorite, i mandarini stanno maturando... Quando il tempo era così, da bambini, io e Zoe tendevamo l’orecchio alla musica dei grilli, cercavamo le piccole rane sul sentiero, osservavamo per ore le lucertole...
Qui le lucertole abbondano. Ce n’è una enorme, un vero coccodrillo in miniatura, che sta sempre in agguato sotto le foglie che s’arrampicano su per la parete in un angolo del terrazzo. Prima è sbucata fuori all’improvviso e s’è mangiata una formica. Ho osservato le sue piccole mascelle, il guizzo della lingua, e gli occhi, soprattutto gli occhi. Immobile, ascoltava con gli occhi. E quando ha intercettato il mio sguardo, ha strizzato le palpebre. Possibile che mi abbia fatto l’occhiolino? Sì, mi è sembrato proprio di sì.
Stasera sarà il nostro ultimo incontro, tra me e Zoe intendo. Almeno per ora. Domani parte, e le ho promesso che stasera arriverò alla conclusione della sventurata vita di KM. Ho scoperto però che raccontando questa storia ad alta voce, mi è passata la voglia di scriverla. Accade così: se si racconta una storia a voce, dopo uno non ce la fa più a scriverla. I racconti si sentono traditi.
Zoe arriva vestita a lutto, s’è acconciata per una cerimonia funebre. Lo strano abito, simile a un ventaglio di carta nera, nasconde il suo corpo esile.
«È divino, quando il tempo è così, è divino qui, non c’è un posto al mondo più bello di questo» sussurra con gli occhi socchiusi, come in trance.
«Però te ne vai.»
«Tornerò in autunno, è la stagione che mi piace di più.»
Settembre è il mese più bello, secondo Zoe: c’è più vita nell’aria, non un sapore di fiori, ma un sapore di bacche e nella terra si avverte lo strano mutamento chimico che produce i funghi, mentre in cielo s’accende una tale leggerezza, uno scintillio... Però si preoccupa perché cadono le foglie, e io le dico, «cadere è il loro destino!» Ma la cosa non la consola.
«Anche ora è bello, Zoe, e sarebbe ancora più bello se tu rimanessi. Dove hai mai visto l’azzurro fiordaliso di questi giorni? Un’aria così pulita? Guarda, ogni margherita nel prato qui sotto sfoggia il bianco dei suoi petali quasi fossero una gala inamidata. Persino il guano degli uccelli abbaglia!»
«Mi farò un vestito del colore di questo cielo” scherza. “Un vestino turchino, e ci metterò un colletto giallo come il cuore delle margherite. Ti ricordi da bambini? Stavamo sdraiati sull’erba per ore...»
«Tu stavi distesa come un’ape ubriaca e nelle giornate perfette come questa ti raccontavo le mie storie...»
«Come adesso. Su, dài, racconta...»
«Sai cosa c è rimasto da raccontare... la morte.»
«Non vorrei che fosse morta così giovane, sono stufa di persone promettenti che muoiono.»
Alla mia caparbia sorellina piace protestare, però alla fine è coraggiosa e quel che c’è da affrontare l’affronta, e ora si siede di fronte a me buona buona.
«È proprio quello che dice KM: “Non ho nessuna voglia di unirmi a quella compagnia”. E aggiunge: “È un guaio tremendo amare la vita come l’amo io”.»
«Più passa il tempo e più sento anch’io di amare la vita, non diventa un’abitudine... Per te è lo stesso, Frannie?»
«Io spero di vivere abbastanza a lungo da scrivere qualcosa di buono.»
«Non ti basta raccontare?»
«La voce muore...»
«E quel che è scritto rimane? È questa la consolazione? Ma se tu non ci sei più, a che serve?»
«Non anticipiamo, Zoe. Vedi, questi sono i temi della vita di KM, e anche la ragione per cui la sua esistenza mi riguarda. Riprendiamo da dove eravamo rimasti. Anzi, ti risparmio alcuni passaggi e arriviamo all’agosto del 1922, quando incontra suo padre, che è di passaggio in Inghilterra. Decide di regalargli il suo ultimo libro appena uscito, The Garden Party, e fantastica di tornare la bambina che era quando gli saltava in braccio, e gli diceva: “Amami, se mi ami tu, mi ama Dio”.
Lo chiama “Father darling”, si intenerisce, lo sogna... Notte dopo notte è con lui in Nuova Zelanda, ha il cuore pieno della sua presenza. Non gli scriveva più da tempo, e il silenzio le è costato, ma era così offesa – è il denaro che li ha separati, il vincolo del denaro ha sempre pesato su di loro, lui l’ha strangolata col denaro. “La tisi è una malattia costosa, molto costosa” gli spiega, “ma se a te costa del denaro, a me costa la vita, e come fa una figlia a sopportare l’idea che mentre muore, il padre si preoccupa dei conti? Io morivo, e come facevo a pensare che non volevi curarmi, che pensavi ai soldi? Una figlia a chi si deve rivolgere, se non al padre? Io non ne avevo il diritto? Ti sparano nell’ala, e tu pensi che a casa tua ti conforteranno, ti coccoleranno...” E invece per lei non è stato così. Ecco perché non gli ha più scritto – era impietrita dal dolore. Ma ora rompe il silenzio – anche se è troppo tardi e lui non ha più voglia di ascoltare, vuole che il padre sappia che neppure per un istante, folle com’era, spaventata com’era, ha smesso di amarlo. Taceva, ma soffriva, lui non immagina quanto, di non parlargli, di non sentirlo vicino. E ora lo prega: “Non mi abbandonare, padre, padre mio diletto; riprendimi nel tuo cuore, credimi se dico che sono la tua bambina devota e sofferente”.»
«È straziante.»
«Sì, lo penso anch’io. Il padre però non capisce, continua a non capire e non cambia. A cambiare è lei, che lo perdona. Glielo dice semplicemente dichiarando che ringrazia Dio di essere nata in Nuova Zelanda, perché la vera eredità è dove si nasce e lei la Nuova Zelanda ce l’ha nelle ossa. Vorrebbe tornarci, ha nostalgia della sua isola.
È il momento del congedo, e la nostalgia è il sentimento dominante, in questi ultimi mesi. Ormai il suo pensiero ossessivo, segreto, è come prendere congedo dalla vita, come accomiatarsi dagli amici. Mischiata a tutte le sofferenze che ha patito, c’è sempre stata l’angoscia della disperazione perché era malata. Da tempo si sente postuma. Ma della crisi spirituale che attraversa non parla con nessuno, se non con se stessa. Sembra ormai convinta...»
«O finge?» prova a interrompermi Zoe.
Ma io proseguo imperterrito:
«Sembra convinta che se riuscirà ad afferrare certe verità spirituali e psichiche, vincerà i bacilli della tubercolosi. Si persuade...»
«O finge?» di nuovo Zoe prova a insinuare il dubbio.
Ma io non mi arrendo:
«Si persuade che la vita deve cambiare. È giunta alla conclusione che l’anima e la mente devono congiungersi, perché la vita sia vera. La mente senza l’anima è uno strumento complicato e oscuro, senza la sua luce non è niente. Il corpo è una prigione, che altro? Ma lo spirito è più forte della carne e può vincere quella prigione, ecco il punto. Deve essere così – questo pensiero combacia con la sua estetica: non è certo affare dell’artista arrotare una scure e tentare di imporre la propria visione al mondo che esiste. L’artista, per come la pensa lei, che anche in questo è una seguace di Keats, non si propone di conciliare la realtà con la propria visione, semmai prova a creare il suo mondo nel mondo, ben sapendo che tra la realtà e l’ideale e il sogno c’è differenza. È proprio questa dissomiglianza, che l’artista si dà come tema. E lei – che è in tutto e per tutto un’artista – si convince che pensare ed esistere non stanno per forza su piani diversi: la realtà può diventare l’ideale, il sogno la realtà.»
«Intendi dire che alla fine vince il lato romantico del suo carattere? Il lato mistico che si era già rivelato alla morte del fratello?»
«Credo proprio di sì. A Londra segue le lezioni di un certo Piötr Ouspensky. Ad ascoltarlo ci vanno intellettuali, artisti – quelli falliti e quelli di successo. Tra loro c’è il suo amico Orage, fondatore e direttore di “The New Age”, una rivista letteraria e politica importante, dove KM ha pubblicato i primi racconti. Bene, Orage abbandona tutto e segue Gurdjieff, e come lui fanno altri del suo stesso calibro. Sono gli anni della Terra desolata, che esce proprio nel 1922, ed è davvero un’età dell’ansia, questa. Vedi Zoe, in ogni generazione, c’è chi assorbe lo choc e continua a vivere come prima senza farsi domande, e chi invece utilizza lo choc per svegliarsi a un’altra vita. Qualcuno in quegli anni dubita che il pensiero occidentale possa offrire strade di salvezza... Anzi, sono in parecchi a sentire che l’Occidente è perduto, la sua decadenza irreversibile, e dopo aver visto il mondo andare verso l’autodistruzione, in parecchi a sperare in un risveglio spirituale, a illudersi che tale risveglio si darà se la saggezza dell’Oriente e l’energia dell’Occidente si incontreranno... Almeno, questa è l’idea. Non a caso fanno la loro comparsa in Occidente insegnamenti antichi, arrivano guru hindu come Vivekananda e Paramahansa Yogananda o il sufi Hazrat Inayat Khan e i monaci buddisti e i maestri dell’Himalaya.»
«Lo so bene. Nei circoli di espatriati della Rive Gauche a Parigi si parlava molto di Gurdjieff, intorno al suo nome aleggiava lo scandalo e un’aria di leggenda.»
«Sì, perché l’informazione era scarsa, in più il suo è un insegnamento senza libri. In realtà, Gurdjieff prova a scrivere un manuale per iniziati, ma anche se è già finito nel 1933 non autorizza la sua pubblicazione che qualche giorno prima di morire, nel 1949. La sua non è né una filosofia né una religione, non ci sono dogmi, né credenze... Viene evocata una tradizione, ma ai discepoli non si chiede di ritirarsi dal mondo, di vivere in un ashram.»
«Ma Le Prieuré non era una specie di monastero?»
«No, a quanto ho capito io. Ma tu ne sai più di me di cose esoteriche. Io so soltanto che arrivavano in molti a Le Prieuré, non necessariamente per restare. Venivano a vedere. Tra i residenti c’erano ambasciatori, ricchi signori, rifugiati politici, gente sradicata, e senzatetto, e barboni che Gurdjieff raccattava nei boulevard. Una volta all’Istituto, le differenze sociali si azzeravano, ricchi e poveri, colti e analfabeti erano uguali. Contava il comune interesse nelle idee.
Per KM però è diverso, lei cerca un luogo in cui morire. È in fuga dalle corsie di ospedali per malati terminali, come dal cul de sac degli alberghi. Una volta, a sentirla tossire, l’hanno cacciata dall’albergo dove stava. E se n’è dovuta andare vergognandosi.»
«Che cosa incresciosa essere cacciati da un albergo.»
«Ma anche morire in un albergo, tra estranei, non ti pare?»
«A Londra Ouspensky parlava dell’Istituto di Fointainebleau-en-Avon come di un luogo dove si coltivava l’armonia tra il centro fisico, mentale ed emotivo – che sono i tre centri attivi di ognuno di noi: noi siamo esseri “tri-cerebri” – spiegava, e tendiamo all’armonia; solo grazie all’armonia la vita è autentica. Ecco, a Le Prieuré des Basses-Loges, a sessanta chilometri da Parigi, si educava la gente a una forma di esistenza olistica.
KM ci pensa e ripensa e immagina: che bello sarebbe conquistare l’armonia interiore, che meraviglia sentirsi un tutt’uno con la natura e con la realtà che è fatta di quelle cose lì, il cielo, che a lei piace tanto guardare, e la terra e gli alberi. A sentire Ouspensky, ci si poteva arrivare grazie a una disciplina semplice, quasi ingenua. Così, alla fine di una lezione lo avvicinò e glielo chiese. Per tutta risposta, lui le domandò: “Now Katherine, che cos’è per te la salute? Se non pensi che sia soltanto una condizione fisica, vai a Le Prieuré, ti farà bene”.»
«Parli sempre di Ouspensky, il matematico, il teosofo...»
«Sì, proprio lui le dette l’indirizzo di certi amici a Parigi, con i quali avrebbe potuto continuare a discutere delle teorie che lui ora esponeva a Londra. Lei lo ringraziò con fervore. Ouspensky rimase colpito da KM, si vedeva lontano un miglio che stava morendo, e deve aver pensato tra sé e sé che volesse usare al meglio i suoi ultimi giorni. Lei glielo confermò dicendo: “Cerco la verità, sento la presenza della verità, ma non riesco a toccarla”.
Il 2 ottobre 1922 parte per l’ultima tappa del suo viaggio. Scende al Select Hotel in Place de la Sorbonne. C’era già stata durante la guerra, dal 21 marzo all’11 aprile del 1918, sotto i bombardamenti. Le danno la stessa stanza al sesto piano, che affaccia sui tetti; le piace tremendamente quella vista. E ama ascoltare la musica che nel tardo pomeriggio viene da una finestra aperta della casa di fronte: è la Sonata per pianoforte n. 29, opera 106 di Beethoven, che adora. Legge Dostoevskij. Poi, una notte succede una cosa strana: mette sul comodino un thermos pieno di tè bollente e d’un tratto nel cuore del sonno la sveglia il rumore d’uno scoppio, ma è uno scoppio interno alla bottiglia. Sì, le cose possono scoppiare anche dentro, non solo esplodere, ma implodere. Capisce così quello che le sta accadendo: sta morendo dentro.
A questo punto deve decidere: esce e va al Jardin du Luxembourg. Ama quel giardino, la fontana, le statue, le aiuole. Conta le dalie boccio per boccio, contempla estasiata i ciuffi di aucuba japonica, si incanta davanti alle peonie, i fiori che più ama. Le piacciono i fiori; prova per i fiori quello che una madre prova per un figlio. È bella la natura, indimenticabile. Ma si sente “un chat malade”. Sedu...