Propositi matrimoniali
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Propositi matrimoniali

  1. 238 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Propositi matrimoniali

Informazioni su questo libro

«La Daswani maneggia in maniera effervescente
e perfetta una trama classica, regalandoci una storia
al profumo di cardamomo.»
Publishers Weekly Visto che alla veneranda età di ventuno anni non si è ancora sposata, Anju, nata e cresciuta a Bombay da una famiglia della buona borghesia indiana, è considerata la disgrazia dei suoi genitori. A nulla valgono gli innumerevoli tentativi di dare in moglie la troppo amata figlia: la madre l'accompagna da astrologhi, santoni, intermediari e guaritori, ma Anju non trova l'anima gemella. Decide così di lasciare Bombay alla volta di New York, per lavorare come pierre nel vivace, scintillante e amabilmente falso mondo della moda. Gli anni passano, ma Anju non riesce a liberarsi dal senso di incompletezza per la sua incapacità di trovare un marito. Divisa tra due culture diverse, scoprirà infine qualcosa di ben più prezioso: un amore con la A maiuscola. Narrato in prima persona, spiritoso, toccante e "vero", questo romanzo ci regala l'incanto di una voce autentica e fresca.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
Print ISBN
9788804623731
eBook ISBN
9788852030130

KAVITA DASWANI

PROPOSITI
MATRIMONIALI

Traduzione di Anna Luisa Zazo

Mondadori
Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni dell’autrice e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale.

Propositi matrimoniali

PARTE PRIMA

1

Il normale matrimonio religioso veniva, e viene tuttora, combinato dai genitori della coppia dopo lunghe consultazioni, dopo avere analizzato i presagi favorevoli e sfavorevoli, gli oroscopi e le caratteristiche fisiche di buon auspicio… se lo sposo dovrebbe avere almeno vent’anni, una ragazza dovrebbe venir data in moglie immediatamente prima della pubertà.
A.L. BASHAM, The Wonder That Was India
Mia nonna è stata data in sposa due giorni prima di compiere dieci anni. Mia madre ha trovato marito a venti. Io avevo calcolato che, se ogni generazione aumenta di dieci anni l’età da matrimonio, sarei diventata una moglie a trenta.
Ma a trentatré anni, non ero neppure prossima al matrimonio. Circostanza che, alle nozze di Nina, una cugina ventiduenne, era causa di grande costernazione per tutti e avvelenava la gioia e spingeva a politiche familiari da tempo soppresse.
Si trattava di un matrimonio di famiglia a Bombay, la città dove sono nata e dove ho trascorso quasi tutta la vita. I miei genitori e due fratelli abitavano ancora là, nella stessa casa in cui avevo vissuto da bambina, una casa comodamente situata a pochi minuti di distanza dai templi e dagli alberghi più importanti. Ottima cosa se si pensa a tutto il tempo che loro trascorrono in luoghi simili, per partecipare a matrimoni proprio come questo. Naturalmente si è sempre trattato del matrimonio di qualcun altro, mai del mio.
Nina mi “era passata avanti”, dicevano tutti. Era molto più giovane e si sposava prima di me. Ma d’altronde, come sottolineava la madre di Nina, non si poteva poi aspettare più che tanto.
Mi costringevo a sorridere e ad assumere un’aria felice. Non che fossi infelice. Ma in quella soffocante sera di maggio, avevo caldo e mi sentivo in imbarazzo, pensando ai semicerchi grigi e umidi che il sudore formava sotto le ascelle della blusa del sari. Dovevo tenere le braccia ben strette contro il corpo perché non si vedessero sul tessuto chiaro. Il sari e la blusa erano di un rosa delicato, come l’interno madreperlaceo di una conchiglia, o come i nastri tra i capelli delle bambine. Avevo sei metri di tessuto avvolti, sistemati e fermati attorno al corpo, e sembravo, a mio parere, un panino imbottito soffuso di rossore. Era quello che dicevo a quanti si complimentavano con me.
Tutta la sera non avevo fatto che giocherellare con i fiori tra i capelli. Erano fiori finti, comprati a una bancarella all’angolo di una strada di Bombay, fiori di carta grandi come un’unghia, una dozzina circa appuntati tra i capelli raccolti. Non era quella che io chiamerei un’eleganza discreta. Ma il parrucchiere aveva insistito: «Sua cugina si sposa! Dovrà pure mettersi qualche ornamento!».
Fortunatamente, l’eleganza discreta non era la parola d’ordine quel giorno al Tempio Jhule Lal. Nina si preparava a sposarsi davanti a trecento persone, che, nella stragrande maggioranza, non aveva mai visto prima. Io mi sentivo timida e imbarazzata a starmene là tra le quinte, la cugina più grande, nubile, sapendo che la gente mi guardava – per vedere come ero vestita, certo, ma soprattutto per cogliere la minima traccia di dolore o di gelosia sul mio viso al pensiero che un’altra cugina più giovane si sposava. Chiusi per un secondo gli occhi, trovai il baricentro del mio essere, come mi insegnavano al corso di Hatha yoga del mercoledì. Poi risistemai il sorriso e me lo fissai sul volto.
«La prossima volta tocca a te» mi disse zia Mona, seconda cugina di mia madre, che mi era vicina. Sorrise, scoprendo uno spazio tra i due denti davanti largo quanto Timor Est. Era considerato un segno di fortuna. Qualsiasi indiano interprete delle caratteristiche del volto, che sia degno del suo pranzo a base di chapatti, sa che più largo è lo spazio maggiore è la fortuna. «Non preoccuparti, beti, verrà presto il tuo turno» mi consolò zia Mona, battendomi sulla schiena. «Dio ascolterà le tue preghiere. È tutta questione di karma. Su, su.»
Mi lasciai confortare, come avevo imparato a fare da molti anni, e osservai che era un vero miracolo se la mia autostima non era ormai completamente distrutta. Da quando ero arrivata a Bombay una settimana prima, ero stata oggetto di molte cose: consigli, comprensione, ansia, ma soprattutto commiserazione e conforto. Ora, quando venivano da zia Mona, quei sentimenti erano espressi con la solennità di chi diagnostica una grave malattia. I miei parenti non pensavano mai a farmi domande sulla vita interessante e indipendente che conducevo a New York, a chiedermi come vivevo, chi erano i miei amici, o se ero riuscita a procurarmi un biglietto per vedere The Producers quando nel cast c’erano ancora Matthew Broderick e Nathan Lane. No, la domanda incessante era: “Perché non sei ancora sposata?”.
Mi voltai a guardare Nina, che era davvero un amore, bella come un sogno nel sari nuziale. Anche quello era rosa, ma di un rosa trionfale: più intenso, più ricco, ornato da pesanti disegni d’oro, in omaggio alla sua condizione di sposa. Sui lucenti capelli neri, spartiti al centro, poggiava lo stesso tessuto, e la liscia fronte bianca era disseminata di piccole pennellate rosse che tracciavano un disegno a arco, diviso nel mezzo da un bindi d’oro e diamanti. Le mani, tinte di henné, si sollevarono per spingere indietro una piccola ciocca di capelli scivolata negli occhi socchiusi. Nina pregava, e arrossiva, e sveniva dal caldo. Lei e lo sposo erano seduti davanti a un piccolo fuoco di un vivo color arancione, affiancati dai rispettivi genitori, immersi nei loro pensieri mentre il prete della nostra famiglia, Maharaj Girdhar, pronunciava migliaia di parole in sanscrito che era il solo a capire.
La cerimonia era quasi finita e adesso veniva la parte che preferivo – quando lo sposo immergeva il dito in un vasetto di sindoor e lo passava sulla scriminatura dei capelli della sposa. Quel gesto sembrava dire: “Adesso sei mia. Apparteniamo l’uno all’altra”. La guardò con un’espressione che era insieme di orgoglio e di riverenza. Forse non era ancora amore, ma la felicità appariva autentica, nata dalla gratitudine. E sembrava sollevato. Ce l’aveva fatta: aveva trovato una sposa perfetta. Adesso sarebbe cominciato il divertimento. Più tardi avrebbero trascorso la prima notte insieme e si sarebbero baciati per la prima volta.
Lo sposo aveva conquistato il cuore di Nina senza neppure cercare di farlo. A lei erano subito piaciuti il suo viso, la sua statura (un metro e ottanta abbondante), i suoi modi spontanei, cordiali. Era un matrimonio combinato. Si erano incontrati due volte, e poi si erano fidanzati. Era accaduto cinque settimane prima.
La coppia si alzò, per inghirlandarsi a vicenda e scambiarsi gli anelli. Nina chinò il capo davanti al suo nuovo marito che la guardava con grande emozione, come un archeologo che ha appena trovato per caso un raro reperto e non vede l’ora di esaminarlo. Nel giro di pochi secondi vennero circondati da ondate di parenti beneauguranti che abbracciavano, baciavano, stringevano la mano e si sporgevano per vedere da vicino quanto era grande la collana che i genitori di Nina le avevano regalato. Tutti volevano sapere l’esatta caratura del diamante marquise che lo sposo le aveva infilato all’esile anulare della mano sinistra.
Era venuto il momento di farmi strada tra la folla per raggiungere la coppia. Presi tutti insieme, odoravano di sudore, curcuma, foglie di paan e balsamo per capelli. Qui e là riuscivo a sentire un soffio di profumo Charlie, rimasto, come sapevo bene, per quindici anni in un armadio di metallo. Sussultai per un secondo, ma quando li raggiunsi, chiamai a raccolta tutta la mia cordialità e benevolenza e li abbracciai.
«Sei splendida, tesoro, sono così felice per te. Dio ti benedica» dissi baciando la guancia liscia, calda di Nina.
«Didi Anju» sussurrò prendendomi la mano; mi piaceva che mi chiamasse sempre didi – sorella maggiore – «ho detto una preghiera per te mentre camminavo attorno al fuoco pronunciando i miei voti. Adesso toccherà a te. L’ho chiesto a Dio, e Dio ascolta sempre le preghiere delle spose.»
Per la dolcezza di quel gesto mi sarei messa a piangere, ma le mie lacrime sarebbero state erroneamente interpretate come segno di desiderio e di tristezza, così le ricacciai indietro. Mi volsi verso lo sposo e lo guardai. «Congratulazioni, caro» dissi, alzandomi sulle punte per abbracciarlo. «Abbi cura di lei.»
Ero diventata, come richiedeva la parola didi, la sorella maggiore, sicura, generosa, nubile.
Compiuto il mio dovere, mi voltai e mi feci strada tra i gruppi di gente che chiacchierava muovendosi verso una grande sala da pranzo al piano di sotto. Vidi i miei genitori in un angolo e mi diressi, ancora a piedi nudi, da loro. Poi sarebbe venuto il momento terribile di cercare le mie scarpe nella pila fuori dal salone. I matrimoni a Bombay erano famigerati per i furti di scarpe, e io cominciai a chiedermi, un po’ troppo tardi, se fosse stata una buona idea indossare proprio oggi le scarpine di Dolce & Gabbana.
«Okay, scendiamo giù a mangiare» disse mia madre mentre, automaticamente, mi sistemava il sari nel punto in cui si stava aprendo.
Mio padre si asciugava il sudore dalla fronte con un fazzoletto.
«Troppo caldo» disse. «Scendiamo. Forse sarà più fresco.»
I grandi condizionatori ronzavano, soffiando aria gelida sulle lunghe file di gente che si formavano alla tavola dei rinfreschi. Mio padre mise in tasca il fazzoletto e prese un piatto.
«Okay» disse mia madre volgendosi verso di me. «Hai visto qualcuno qui che ti piace? Qualche ragazzo simpatico?»
«Mamma, non ho fatto attenzione. Volevo seguire bene la cerimonia nuziale.»
Mia madre sospirò e si guardò attorno. Invitati carichi di piatti traboccanti di melanzane piccanti e biryani di verdure cominciavano a riempire le file di sedie di plastica che erano state sistemate.
E fu allora che lo vide.
«Chi è quello?» chiese, indicando uno sconosciuto in nero all’altro capo della sala. «Il ragazzo che parla con Maharaj Girdhar.»
«Mamma, non indicare! E come posso saperlo io?» Cominciavo a indispettirmi. A un matrimonio di famiglia, era inevitabile questa caccia agli uomini disponibili. Ma io avevo caldo e ero stanca, mi sembrava che il sari cominciasse a svolgersi, e, mancando appena un giorno al ciclo mensile, non ero proprio dell’umore giusto. Il mio analista, se fosse stato presente, avrebbe detto che provavo una blanda forma di rancore per la nuova condizione matrimoniale di Nina, e che questa aveva ridestato le mie peggiori paure per il futuro. Dal momento che in passato aveva avuto ragione quando aveva parlato di reazioni simili, decisi immediatamente che da allora in poi avrei risparmiato per acquistare scarpe la somma che spendevo per lui.
Ma la Grande Caccia al Marito, come la chiamavo, era in pieno svolgimento. Ero arrivata da alcuni giorni e si era parlato di questo o quel ragazzo. Questa sera, mia madre aveva individuato una prospettiva in carne e ossa.
Mi voltai per guardarlo e rimasi colpita dalla lucentezza dei capelli: sembrava ci avesse versato sopra una bottiglia intera di olio Vitalis. E poi aveva un solo sopracciglio. Be’, no, non proprio uno solo, ma le due sopracciglia si univano al centro. Lottai contro l’impulso di correre a casa a prendere le pinzette. Indossava una camicia nera a piccole righe lucide, una maglietta bianca a maniche corte e pantaloni neri. E calzini bianchi. Al collo aveva una catena con un grosso pendente d’oro, e portava un orologio a braccialetto incastonato di diamanti. Guardandolo, mi sembrava di essere tornata negli anni Ottanta.
«Aspetta un momento» mi disse mia madre, e si allontanò per consultarsi con la suocera di Nina. Capii che doveva essersi detta che se l’uomo non apparteneva alla nostra famiglia, apparteneva di sicuro all’altra.
In quel preciso istante, il tipo con un sopracciglio solo si voltò a guardarmi. Con una strana sensazione alla bocca dello stomaco, lo vidi chinarsi per dire qualcosa a Maharaj Girdhar, che si allontanò subito per intercettare mia madre. Parlarono piano qualche minuto, mentre io me ne stavo sola, nella mia rosea lucentezza, guardandomi goffamente attorno. Sapevo che avrei dovuto muovermi, festeggiare, dire sciocchezze parlando con familiari scelti a caso, ma non riuscivo proprio a prendere l’iniziativa.
Vidi i miei due fratelli più giovani, circondati da un gruppo di ragazzine tutte luminose e scintillanti nei loro sari a ricami, con gli orecchini lunghi e i cerchietti colorati ai polsi. I miei fratelli erano i due indiscussi principi William e Harry della nostra comunità, sebbene un po’ più grandi dei due regali fratelli inglesi. Anil aveva ventinove anni e Anand ventisette, e erano i due partiti migliori e più in voga della zona. Nel vestito di seta all’indiana, tutti e due perfettamente rasati, con i capelli ben ravviati, i denti impeccabili rivelati dal sorriso e un atteggiamento che viene spesso descritto da noi “spensierato, alla mordi-e-fuggi”, sembravano appena usciti da un set pubblicitario. Altre ragazze, più giovani, in piena Grande Caccia al Marito, erano ipnotizzate da loro, non meno delle loro madri sempre pronte a farsi avanti. Naturalmente, il fatto che i ragazzi avrebbero ereditato un giorno una ditta di oreficeria e antichità non nuoceva al loro fascino. Pensai di raggiungerli lasciando che le ragazze mi riempissero di garbata adulazione. È sempre un punto in più avere ottimi partiti come fratelli.
Ma vidi prima mio padre che usciva da solo, e lo seguii.
Guardava il mare, oltre i cancelli di metallo che circondavano il tempio. Sembrava in preda a una malinconica nostalgia: forse ricordava tutti i matrimoni di famiglia a cui aveva preso parte, proprio in questo tempio – tre soltanto nell’anno passato – e come avesse pregato a ogni matrimonio perché la volta successiva toccasse a lui dare in sposa la figlia.
Chiuse gli occhi, trasse un lungo respiro. Quando li riaprì, mi vide mentre mi avvicinavo, camminando a fatica su scarpe dai tacchi ridicolmente alti per le quali sapeva che avevo speso troppo.
«Un po’ d’aria fresca» disse, godendosi un raro momento di calma in quella che era stata una folle settimana matrimoniale. «Ogni cosa va come deve andare. Dio è grande» sospirò, calmo e pensoso.
Tacqui un istante, poi dissi: «C’è cattivo odore qui, papà. Questa non è certo aria fresca. Ti sarebbe più facile trovarla all’angolo tra la Madison Avenue e la Cinquantasettesima. Li vedo i ...

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