Per mia madre era tutta colpa della guerra se era finita in Sicilia.
Diceva “la Guerra” come fosse stata una persona. Tanto che io avevo finito per immaginarmela, la Guerra, come una matrigna grassa e cattiva.
Una vera e propria magàra.
Una sibilla piena di foruncoli e rabbiosa, specialmente con le ragazze belle come mia madre. Che avevano un futuro luminoso davanti, che erano serie e mai sfacciate, ma ugualmente sempre piene di corteggiatori.
Mia madre diceva: «Tutta colpa della Guerra». E io mi immaginavo quella donna invidiosa e perversa, che passava tutto il tempo a gettare bombe sulla sua casa, sul suo ufficio e persino per strada, dove lei camminava.
E che non contenta, un giorno, per distruggerla definitivamente la presenta all’ufficiale siciliano che è mio padre.
Mia madre in effetti ancora non sa che quello sarebbe diventato mio padre, ma certamente per un attimo deve avere avuto un brivido di spavento.
Un vero e proprio tuffo al cuore.
Perché mia madre, la povera ingenua, che porta il nome di un’attrice ai suoi tempi famosissima, persino più della Ferida; mia madre, che non ha mai conosciuto siciliani se non qualche attore comico al cinema, come Angelo Musco, o al massimo il vicino, che però era napoletano; mia madre ci casca.
Insomma, lei ha il futuro davanti, il suo dannato futuro, e che fa?
Si gingilla con un ufficiale siciliano, che poco dopo manderanno in guerra a farsi sparare.
E al quale, non potendolo ammazzare del tutto, con una granata faranno saltare la mano destra.
Proprio a El Alamein, mentre infuria la battaglia.
E non lo lasciano nemmeno lì, nossignore, a crepare sul campo. Perché mio padre è un ufficiale interprete, ha un compito speciale, molto vicino ai gradi alti. Quindi lo caricano in barella e lo portano all’ospedale da campo, dopo di che lo operano – ossia lo mutilano ancor di più – e lo lasciano lì a pensare.
E quando pensa mio padre fa le cose in grande.
Per esempio decide di scrivere alla gentile e bella signorina continentale che dal momento del loro incontro non si è mai levato dagli occhi.
La insegue lettera dopo lettera per tutto il 1943 e il ’44. La ossessiona e la assale come fosse una fortezza nemica da conquistare, fino a quando quella cede.
«Tuo padre era un diavolo e perciò sono finita all’inferno», era puntualmente la sigla conclusiva di tutta la storia, che di solito mia madre raccontava almeno una volta a settimana.
«Io nemmeno immaginavo che il Sud esistesse, capisci? E nemmeno che fosse a quel modo. Non credevo che facesse parte della stessa nazione.»
In effetti è così. Non facciamo neanche parte della stessa penisola. Ci dividono il mare e le lunghe soste prima di prendere il traghetto per Villa San Giovanni.
Ci dividono malesseri diversi, velocità diverse e persino sogni diversi.
In Sicilia abbiamo ancora alle spalle la strage di Portella della Ginestra e il separatismo, e un giorno sì e uno no le lotte comuniste per la divisione dei feudi.
Abbiamo i ragazzini che vanno scalzi e i padri che vestono con le divise lasciate dagli Alleati.
Abbiamo la miseria e la disperazione.
La stessa che mia madre, la continentale, vide appena scesa dal treno alla stazione di Catania. Quando si guardò attorno e osservò la città e tutto quel disastro.
Per esempio, i quartieri distrutti dai bombardamenti, la gente con ancora gli occhi pieni dei morti, vedove grasse che trascinavano vecchie valigie, ragazzini sporchi che chiedevano l’obolo contro la fame. Uniche donne eleganti, quelle di malaffare.
«Del resto non potevamo restare al Nord, capisci? Tuo padre non resisteva al freddo del Nord, a causa della sindrome dell’arto fantasma.»
Io non so cosa sia questa sindrome così malefica, ma capisco subito che il Sud non era per lei il sogno sperato.
Il sole c’era, è vero, ma duro e spietato come il sesso di un uomo.
C’era poi la famiglia di mio padre, i terreni della famiglia, la casa, e anche lui, che le aveva promesso che mai e poi mai sarebbero venuti in Sicilia.
«Dovevo tornarmene allora, prendere le valigie e sparire, ecco quello che dovevo fare. Ma c’eri tu e ormai non potevo lasciarti sola tra quelli.»
Io naturalmente a quelle parole ogni volta mi smarrisco. Ma, con quella ingenuità un po’ marpiona che hanno i bambini quando cercano di far contenti gli adulti, dico anche: «Non dovevi preoccuparti, mamma. Casomai restavo con papà».
«Cos’hai detto?!» urla a quel punto.
Cos’hai detto?!
«Basta, basta per carità» piango e strepito io. «Scusami, come ho potuto, non solo dirlo ma addirittura pensarlo?»
«Perdono in ginocchio mi devi chiedere. Perdono per non averti lasciata sola con quelle bestie.»
Le bestie sono naturalmente mio padre, mio nonno e mia nonna, che l’hanno accolta come una principessa. Che le hanno dato l’appartamento migliore, le stanze migliori. Che la portano in giro per il paese come la Vergine Maria, mentre mio padre torna a studiare per prendersi la laurea.
Ma ugualmente mia madre non demorde.
«Ah, se non fosse stato per quella guerra disgraziata!»
Eppure sapevo che si era anche divertita durante la guerra. Sapevo per esempio che nella sua città c’erano il buio e il coprifuoco, e che lei e le amiche dovevano stare attente a dove mettevano i piedi – ogni tanto qualcuna per il buio si storpiava persino la caviglia –, ma poi ridevano a crepapelle.
Sapevo che finivano nei rifugi e anche lì ridevano e aspettavano quel disgraziato di aereo americano che chiamavano Pippo.
Anche mio padre lo chiamavano Pippo, tanto che per anni i due li ho persino confusi.
Del resto anche mio padre era un disgraziato.
Quello lì, il Pippo – diceva mia madre –, sparava su tutto, persino sulla chiesa di Sant’Antonio.
E lei questo proprio non glielo perdonava. Lei non poteva perdonare una cosa del genere. Perché lei era una fervente fedele di sant’Antonio e sapeva tutte le filastrocche sul santo di Lisbona che i padovani avevano fatto loro e che cominciavano sempre così:
Perché era durante le prediche che il “Santo”, come lo chiamava lei, faceva i miracoli.
Rimproverava i cattivi. Puniva i bestemmiatori. E faceva persino inginocchiare gli asini davanti al Santissimo.
Senza scordare che durante le prediche aveva anche la bilocazione.
Ossia si sdoppiava.
Andava di qua e di là.
Fu durante una di quelle bilocazioni che il Santo mentre predicava volò a Lisbona, dove il padre in quel momento era accusato di assassinio. O almeno così raccontava la leggenda.
In pratica il Santo per salvare il padre ricorse addirittura al morto, al quale ordinò di indicare col dito il vero assassino.
Il morto, è ovvio, gli obbedì – come si può non obbedire a un santo del genere? Si sollevò dal suo giaciglio di defunto e col dito indice segnò il tristo a lato suo.
Poi ricadde sul letto di morte.
Ogni volta che mia madre mi raccontava – o meglio recitava – la filastrocca, io mi chiedevo come potesse essere un assassino così stupido. Che ci faceva accanto al cadavere della vittima? Perché stava ancora lì invece di scappare? Naturalmente non sapevo che l’assassino torna sempre sul luogo del delitto, ma, in ogni caso, non era previsto che potessi dubitare di sant’Antonio.
Il Santo era la verità rivelata. Quando parlava era Dio che parlava per bocca sua. Tanto che nel dubbio i padovani gli avevano conservato a futura memoria parte della mandibola in una teca tutta oro e brillanti – su cui mia madre, in una sorta di rito propiziatorio, aveva un giorno fatto mettere la mia mano neonata.
«Giura» mi diceva poi nei momenti solenni, «giura su sant’Antonio. E se hai mentito, sai il Santo cosa ti fa?»
Non volevo saperlo. Ma immaginavo che, come Dio faceva con i peccatori, mi avrebbe sicuramente arso in pentoloni pieni fino all’orlo di acqua bollente.
La guerra infine le aveva portato anche l’esperienza più eccitante della sua vita, la più mirabolante e avventurosa.
Quella di essere scambiata per una spia degli Alleati.
La so a memoria quella storia, ma ogni volta, io bambina, devo sorbirmela a occhi spalancati, altrimenti mia madre si arrabbia.
Direbbe che non l’ascolto e che se non l’ascolto sono una figlia ingrata.
Sarebbe come se lei fosse stata lì lì per morire e io fossi rimasta indifferente. Sarebbe come se fosse stata prossima al precipizio e io non avessi fatto nulla per trattenerla.
Dunque, e ancora una volta.
Stresa. Seconda guerra mondiale.
In un grande albergo sul lago, dove mio padre è stato mandato per riprendersi dalla mutilazione, ma che è anche luogo di spie che fanno il doppio e triplo gioco, un giorno arrivano gli agenti della Gestapo.
Sono uomini alti e biondi che portano una sigla terribile sul bavero. Sono uomini che quando avanzano ti guardano con quegli occhi azzurri slavati che fanno impressione – devo vederli proprio così, in azione, altrimenti non ha senso.
Devo vederli in una bella giornata di sole, con il lago che luccica sullo sfondo, in questo albergo bellissimo con i camerieri che camminano fluttuanti e sussurrano nomi di artiste e di aristocratici.
Nel lusso insomma, come viveva lei prima della discesa agli Inferi della Sicilia.
Devo vederli mentre arrivano come degli avvoltoi sulla preda.
Eccoli. Cercano una nota spia al soldo degli inglesi. E chissà perché pensano che quella spia sia proprio lei, mia madre.
Per questo motivo adesso vogliono sapere tutto di lei. Dove è stata negli ultimi giorni. Cosa ha fatto. Dove sono finiti i suoi documenti.
Mia madre stranamente ha smarrito la carta di identità, forse rubatale dalla vera spia.
Che, guarda caso, è molto simile a lei.
Bionda come lei, bella come lei – una spia deve essere per forza bella e quindi assomigliarle.
Quello che succede dopo è una corsa contro il ...