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Appena fuori, sul marciapiede, con le orecchie rintronate dagli addii delle telefoniste, Sentry si accorse di avere ancora nella mano sinistra una carta appallottolata. La destra aveva stretto cordialmente per due ore le mani di tutti gli impiegati della ditta Ballard & Sergeant, tre quarti dei quali erano per lui degli illustri sconosciuti. La pioggia sferzò il foglio di carta, appena lo ebbe spiegato. “Ufficio di Andrew Sentry” diceva l’intestazione. Qualcuno, probabilmente lui, vi aveva disegnato un ragno con sei zampe calzate di sandali. Sentry gettò il disegno nel rigagnolo, augurandosi che i suoi futuri padroni non ve lo ripescassero, e cominciò a passeggiare per Worth Street.
Fu in quel momento che dei fattori imponderabili si accumularono. Prima di tutto, il suo umore, la nostalgia che prova un uomo nel lasciare un posto che ha occupato per quattro anni, senza averne un altro in vista. Poi, il fatto che Cy Stevenson lo avrebbe raggiunto da Tim Costello alle sei, e non erano ancora neanche le cinque... E infine quella pioggia che cadeva sempre più fitta. Dopo aver camminato per alcuni minuti in direzione di Broadway, Sentry pensò che un bicchiere di bourbon gli avrebbe sollevato il morale.
Entrò in un bar piccolo, oscuro, che aveva tutta l’aria di aspettare l’ora della massima affluenza. Per il momento era quasi deserto. A giudicare dalle apparenze, non era il posto dove il destino, messo in moto da fattori imponderabili, avrebbe potuto trasformare in tragedia la vita di qualcuno.
Più tardi, Sentry ricordò tutti i dettagli di quel bar con una precisione esasperante... Nessuno di essi era interessante, mentre il semplice fatterello intravvisto per un quarto di secondo che era destinato ad avere così grande importanza non si era fissato nella sua mente.
Ricordò che il barista si stava slacciando la cintura del grembiule per andarsene, e che l’arrivo di un nuovo cliente non lo aveva certo rallegrato. Rimase impresso nella sua memoria un cappello da donna, un aggeggio grottesco di satin simile a una cuffietta per neonato. Di fronte alla proprietaria del cappello, un tizio abbronzato dai denti d’oro descriveva le otto teste di cervo che aveva impagliate con “la bocca aperta e pronta a mordere”. Cervi pronti a mordere? “Che frase ridicola!” pensò Sentry.
Poi ci fu un intervallo interminabile privo di ricordi precisi e contrassegnato soltanto dal cigolio della porta che si apriva di tanto in tanto, dal mormorio delle voci, dallo scroscio della pioggia, dalle vaghe sagome che passavano dietro i vetri. Infine risuonò una voce allegra.
— Un altro, signor Sentry?
Sentry sobbalzò e alzò la testa.
— Mac! Spuntate fuori dalla bottiglia di whisky, o avete piantato in asso Mooney.
— Già da un mese — rispose il barista, e strizzando l’occhio aggiunse: — Più money e meno Mooney. Che ne dite, signor Sentry? Buona questa non è vero? Ci ho messo un sacco di tempo a escogitarla.
Sentry gli rispose che era effettivamente un bel gioco di parole e gli consigliò di scriverselo, per non dimenticarlo. Dopo di che dichiarò che avrebbe bevuto un altro bourbon. Mac aveva appena posato sul banco il bicchiere che un’altra voce, al suo fianco, lo interrogò timidamente.
— Scusate la mia indiscrezione... ha detto proprio Sentry, non è vero?
Il giovanotto si voltò e annuì. Il tizio che era appollaiato sullo sgabello e che stava posando il bicchiere vuoto sul banco era seduto in fondo alla sala quando Sentry era entrato. Un albino dalla carnagione rossa, frutto di settimane alle prese col sole e di ore alle prese col whisky, due occhietti verdi sotto folte sopracciglia quasi bianche, una bocca molle, un mento con la fossetta. In testa, un feltro grigio spinto indietro sulla nuca.
— Perdonatemi se mi permetto di interpellarvi in questo modo — disse squadrando Sentry dalla testa ai piedi. — Non ho potuto fare a meno di udire... Sentry è un nome poco comune, che non si sente spesso.
Sentry approvò cortesemente e tacque per dare il tempo all’altro di presentarsi, ma lo sconosciuto aveva, probabilmente, bevuto troppo per preoccuparsi dell’etichetta. Sentry guardò di nascosto l’orologio. Quasi le cinque. Appena finito di bere se ne sarebbe andato. Ci voleva una mezz’ora per arrivare da Tim Costello, dove Cy Stevenson gli aveva dato appuntamento. Alzò il bicchiere.
— A suo tempo, ho conosciuto un certo Sentry — riprese il suo vicino con voce gentile. — Sono passati degli anni ma non l’ho dimenticato. Avete fatto la guerra in Corea?
Sentry posò il bicchiere con un botto sordo.
— In aviazione. Appena pochi mesi. Sono stato ferito, e il resto del tempo l’ho passato negli Stati Uniti, negli uffici.
— Allora non siete voi — fece l’altro. — Ma siete il suo ritratto parlante. Un tipo in gamba, sì, proprio un tipo in gambissima! È la vita, immagino, e queste maledette guerre non la rendono certo più facile.
Bevve e si cacciò in tasca le sigarette.
— Aspettate un attimo — esclamò Sentry. — Accettereste ancora un bicchierino?
Fece un segno al barista. Lo sconosciuto ordinò whisky e acqua. In lotta con un crescente nervosismo, Sentry non apriva bocca. Erano diffusissimi nell’esercito i casi di omonimia, perciò l’emozione che gli serrava la gola era illogica e ingiustificata. L’aveva già provata tante altre volte, tuttavia non riusciva a dominarla.
L’albino, che all’improvviso aveva accaparrato tutta la sua attenzione, alzò il bicchiere. — Alla vostra — disse in tono solenne e bevve.
Sentry gli offrì una sigaretta e aspettò che l’avesse accesa.
— Dove avete conosciuto quest’altro Sentry? — domandò con voce indifferente, tenendo gli occhi fissi sulla cuffietta di satin che si intravvedeva nello specchio sopra il banco.
Lo sconosciuto lo sbirciò un attimo e guardò subito da un’altra parte.
— Alla battaglia di Inchon. E più tardi nel campo di prigionia numero sei a Chosan.
“Questa volta ci siamo” pensò Sentry stringendo il bicchiere. Le probabilità di un errore diminuivano, erano quasi ridotte a zero.
Cercò per alcuni secondi di vedere le cose sotto un’altra visuale. Erano passati quasi sei anni ormai, sei anni durante i quali lui aveva perduto metà della sua ragione di vivere. La ferita non si sarebbe mai cicatrizzata, se lui continuava a girarci e rigirarci dentro il coltello a ogni minima occasione. “Se fossi stato io al posto di Nick?” si chiedeva incessantemente. “Se Nick avesse ricevuto l’avviso del Ministero della Guerra...” Queste ipotesi non servivano a nulla. Non era un’infelicità legittima o una rassegnazione ragionevole. Anche la sua ansia era ridicola; non conosceva forse tutti gli elementi essenziali della tragedia? Ma avrebbe voluto conoscere i particolari, esaminarli, e infine dimenticarli per sempre... E invece, con molta probabilità, quei particolari li avrebbe ignorati per sempre. A quel pensiero, Sentry ebbe una sensazione strana, un’intuizione che neanche dieci bicchieri di bourbon avrebbero potuto procurargli. Del resto, si sentiva lucido come se non avesse bevuto neanche una goccia d’alcool.
— Come si chiamava di nome quel Sentry? — chiese.
Il suo vicino fece tintinnare il ghiaccio nel bicchiere, aggrottò le sopracciglia e alzò la testa.
— Nick — rispose. — Sì, proprio così, Nick Sentry, capitano d’artiglieria. È il diminutivo di Nicholas, immagino.
Sì, era il diminutivo di Nicholas, pensò Sentry. Un incontro fortuito in un bar di terz’ordine, una domanda rivolta a caso, poche parole pronunciate da uno sconosciuto con aria filosofica, a guisa di orazione funebre... Nick non apparteneva più al mondo dei vivi e, pur essendo trascorsi sei anni, il dolore conservava ancora tutta la sua amarezza.
Lo sconosciuto guardava ora Andrew Sentry con curiosità. Andrew ordinò al barista di riempire di nuovo i bicchieri, scorse nello specchio il proprio viso, troppo serio, e si sforzò di sorridere. Se avesse fatto delle domande troppo precise e incalzanti, l’altro si sarebbe rinchiuso in se stesso come un’ostrica, preoccupato e a disagio, e la fine di Nick sarebbe rimasta avvolta nel mistero. Il volto dello sconosciuto stava già manifestando un profondo stupore. Sentry cercò di barcamenarsi alla meglio.
— Strana coincidenza — disse. — L’altro giorno ho incontrato un tale che è stato a Chosan.
— Ma no! Come si chiamava?
— Jorgesen — rispose Sentry, senza batter ciglio.
— Jorgesen. Jorgesen... Un idraulico?
— No — rispose Sentry. — Elettricista. In una fabbrica...
— Allora, non l’ho conosciuto.
Jorgesen sparve nel nulla da cui era emerso. Ma lo stratagemma aveva ottenuto l’effetto voluto: l’albino assunse un’aria trasognata, come per riunire i ricordi. Tre whisky, oltre a tutti quelli che aveva bevuto prima. Era il momento buono, pensò Sentry: l’alcool aveva sciolto la lingua dello sconosciuto senza annebbiargli completamente il cervello.
— Quel campo al di là del quarantaduesimo parallelo... — borbottò, e le sopracciglia quasi bianche si congiunsero. — Se ne vedeva arrivare e sparire di gente! Un giorno, la branda accanto alla vostra era occupata e l’indomani era vuota. Sono parecchi, quelli che avrei voluto rivedere... — Fece alcuni nomi. — L’ultima volta, li ho visti nel gennaio 1951. Ora che ci penso, circa un mese dopo l’evasione del povero vecchio Sentry. Vi ricordate? Il tizio di cui vi stavo parlando...
La donna con la cuffia rovesciò la testa all’indietro e scoppiò in una sonora risata. Un grammofono, bruscamente ridestato da un lungo sonno, gareggiò con la donna nel fare baccano. Sentry si sforzò di assumere un’aria indifferente e di non mostrare né impazienza né irritazione.
— La sua evasione? — ripeté.
Lo sconosciuto annuì.
— Ancora alcune settimane, e se ne sarebbe andato in bellezza. Ma voi conoscevate Sentry... No, voi non lo conoscevate, scusatemi. Non si era mai rassegnato alla prigionia. Ma era furbo; sapeva che se lo avessero ripreso, tutti noi ne avremmo fatto le spese. Alla fine, ha combinato un piano, un piano fantastico, da quello che ho saputo più tardi.
“Un piano fantastico” pensò Sentry, soffocando un sospiro “che però gli è costato la vita.”
— La cosa più difficile non era evadere dal campo — riprese la voce, a pochi centimetri dal suo orecchio — era orientarsi in quel fetente paese. Un nordcoreano, che scavava un pozzo nei campi, aveva accettato di aiutare Sentry. Doveva fargli da guida e trovargli un nascondiglio sicuro. Il rischio non sembrava eccessivo. Ma, per disgrazia, una sentinella si trovò in un punto dove non avrebbe dovuto essere. Sentry aveva contato di sgusciare attraverso una breccia nel recinto, ma, quella notte, la breccia era sorvegliata.
Ora era completamente ubriaco. Ma la luce torbida che brillava nei suoi occhi non dipendeva dall’alcool.
— E l’hanno fucilato — concluse.
— Lo so — disse Sentry.
Gli occhi dello sconosciuto lo sbirciarono.
— È quello che avviene sempre in questi casi, pare — si affrettò a soggiungere Sentry.
— Sì, certo. Ma io so come sono andate le cose — disse la voce, aggressiva. — Potete chiederlo a Twining, a Pavick oppure... Aspettate un attimo.
Cavò di tasca un piccolo taccuino nero e lo sfogliò con dita tremanti.
— Ecco.
Sui fogli quadrettati erano scritti nomi e indirizzi. Sentry vi diede un’unica occhiata. Il suo compagno leggeva i nomi ad alta voce, staccando ogni sillaba e incespicando un tantino sulle consonanti. La mente di Sentry era così attenta e tesa che quei nomi vi si fissavano come se fossero stati incisi con acido nitrico su una piastra metallica. L’altro richiuse il taccuino e, scuotendo la testa, se lo ricacciò in tasca.
“Non c’è altro” pensò Sentry, in preda a un improvviso scoramento. Il bourbon era troppo forte, e lo sconosciuto troppo espansivo. Andrew aveva ora un unico desiderio: uscire dal bar e farsi sferzare il viso dalla pioggia. Comunque, ne sapeva molto più di prima, era in possesso di fatti negativi, ma confortanti: Nick era stato fucilato in seguito a un tentativo di evasione, e non per un futile motivo. Quel tentativo, studiato e preparato accuratamente, non era stato un gesto disperato determinato da intollerabili sofferenze. Che cosa poteva desiderare di più suo fratello? Che cosa poteva apprendere di più?
Lo sconosciuto riprese a parlare, ma non era più uno sconosciuto dal momento che era stato uno degli ultimi a vedere Nick e a parlargli.
— Era un tipo in gamba, quel Sentry di cui vi sto parlando. Eravamo Twining, Pavich, Lyons e io, e molti altri naturalmente, e anche un furbacchione che era arrivato una settimana prima e che diceva di chiamarsi Sands. Ma non rispondeva a quel nome, non si voltava abbastanza in fretta quando qualcuno gridava “Ehi, laggiù, Sands!”. Che cosa si doveva pensare di lui? Avevamo un sacco di tempo per pensare, e niente che ci distraesse.
— Voi credete che, in realtà, si chiamasse Smith, Miller o Archambault? — concluse Sentry.
Poi, vuotò il bicchiere e cavò di tasca il portafoglio. Aveva strappato di bocca a quell’uomo tutto il possibile, e i suoi nervi tesi fino a spezzarsi si stavano rilassando. Per reazione avvertiva, ora, solo una pesante noia.
— Esatto — disse il suo vicino con gli occhi fissi sul fondo del bicchiere, come se invece di ghiaccio vi galleggiassero le immagini del passato. Sembrava non si fosse accorto che l’atteggiamento di Sentry era mutato. — Vi ho detto, non è vero, che c’era una sentinella...