
- 392 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Sugar Daddy
Informazioni su questo libro
Liberty Jones, quattordici anni, vive a Welcome, piccolo villaggio del Texas; il suo giovane e intraprendente cuore scalpita. Ai suoi occhi, solo l'amore per Hardy Cates dà gioia a quel luogo privo di attrattiva. Per Hardy, invece, la ragazza rappresenta un ostacolo sulla strada verso la realizzazione dei suoi progetti, che vanno ben oltre il ristretto orizzonte di Welcome. E quando Hardy se ne va, anche Liberty lascia Welcome per la grande città, decisa a conquistare un futuro migliore per sé e la sorellina a cui deve fare da madre. Gli anni passano e le cose cominciano ad andare per il verso giusto: Liberty conquista l'amore di un milionario, che sembra farle dimenticare quella disperata passione di gioventù. Ma un giorno Hardy ritorna¿ Da una delle più amate scrittrici di romanzi d'amore, un libro ricco di emozioni e ironia che ha ricevuto entusiastici consensi internazionali.
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Informazioni
Print ISBN
9788804572305eBook ISBN
97888520484941
Avevo quattro anni quando mio padre perse la vita in un incidente su una piattaforma di trivellazione. Non lavorava agli impianti. Era un supervisore della compagnia petrolifera e, in giacca e cravatta, andava a ispezionare le piattaforme. Un giorno, durante una di quelle ispezioni – l’allestimento dell’impianto non era ancora stato ultimato –, inciampò e cadde in una botola rimasta aperta. Precipitò per venti metri fino al piano sottostante e morì sul colpo, rompendosi l’osso del collo.
Impiegai parecchio tempo a capire che papà non sarebbe più tornato. Lo aspettai per mesi, seduta alla finestra della nostra casa a Katy, a ovest di Houston.
A volte mi appostavo all’imboccatura del vialetto e controllavo le macchine che passavano. Mamma continuava a dirmi di smetterla, ma io non volevo arrendermi. Forse pensavo che la forza della mia volontà sarebbe bastata a farlo ricomparire.
Di mio padre mi restano pochissimi ricordi, o forse dovrei dire impressioni. Un paio di volte deve avermi portato in spalla – ricordo la durezza del suo torace sotto i miei polpacci, la sensazione di fluttuare nell’aria, ancorata dalla ferma pressione delle sue dita che mi stringevano le caviglie. E le grosse ciocche dei suoi capelli tra le mie mani, capelli neri e lucidi con un taglio scalato. Mi sembra quasi di sentire la sua voce che cantava Arriba del cielo, una ninnananna messicana che immancabilmente mi regalava dolci sogni.
Sul cassettone tengo una sua foto incorniciata, l’unica che possiedo. In quella foto papà indossa una camicia da cowboy, i jeans con la piega e una cintura di cuoio intagliato con una fibbia color argento e turchese grossa come un piatto da dessert. Ha un sorriso appena accennato, e una fossetta interrompe la liscia regolarità della sua guancia scura. A quanto ho sentito, era un uomo intelligente, romantico, un gran lavoratore con enormi ambizioni. Credo che avrebbe fatto grandi cose se gli fosse stato concesso qualche anno in più. Non so praticamente nulla di mio padre, ma sono certa che mi volesse bene. Lo sento, anche solo da quelle minuscole schegge di memoria.
Mamma non ha mai trovato un uomo capace di sostituire papà. O forse dovrei dire che ne ha trovati tanti. Ma quasi nessuno di loro è rimasto a lungo. Lei era una donna bellissima, benché infelice, e non ha mai avuto problemi a sedurre gli uomini. Tenersene uno, però, era un altro discorso. Quando arrivai all’età di tredici anni, mia madre aveva già cambiato tanti amanti da far-mi perdere il conto. Fu un sollievo quando ne trovò uno con cui aveva intenzione di restare per un po’.
Decisero di andare a vivere insieme a Welcome, nel Texas orientale, non lontano dal luogo dove era cresciuto lui. Welcome, come poi si rivelò, era destinata a essere il luogo in cui avrei per-so tutto, e trovato tutto. A Welcome la mia vita cambiò binario, portandomi in territori che non avrei mai immaginato di visitare.
Nel mio primo giorno al campo roulotte, vagabondai per una strada senza uscita in mezzo a schiere di roulotte allineate come tasti di un pianoforte. Il campo era una griglia polverosa di vicoli ciechi, con una strada di raccordo appena costruita che delimitava il lato ovest. Le case erano appollaiate sulla loro base di cemento, circondate da una rete di alluminio o da una staccionata. Alcune roulotte disponevano di un appezzamento di terra che talvolta faceva mostra di qualche mirto avvizzito, i fiori secchi di un bruno pallido e la corteccia lacerata dall’arsura.
Il sole del tardo pomeriggio era bianco e rotondo come un piatto di carta incollato al cielo. Il calore sembrava arrivare tanto dall’alto quanto dal basso ed evaporava in onde visibili dal terreno pieno di crepe. A Welcome il tempo sembrava non passare mai, e la gente pensava che se una cosa doveva essere sbrigata in fretta allora non meritava attenzione. Cani e gatti passavano buona parte del giorno a sonnecchiare nell’ombra afosa, risvegliandosi solo per leccare qualche tiepida goccia dai serbatoi d’acqua. Persino le zanzare volavano lente.
Nella tasca dei miei calzoncini avevo una busta accartocciata con dentro un assegno. Mamma mi aveva chiesto di portarlo al padrone del Bluebonnet Ranch, il signor Louis Sadlek, che viveva nella villetta di mattoni rossi all’ingresso del campo.
Sentivo i piedi cuocersi nelle scarpe mentre mi trascinavo lungo i margini della strada dall’asfalto malridotto. Vidi una coppia di ragazzi più grandi di me in compagnia di una adolescente. Erano in una posa rilassata, con braccia e gambe abbandonate. La ragazza aveva una lunga coda di cavallo bionda con un ciuffo laccato sulla fronte. La sua intensa abbronzatura era evidenziata dai calzoncini cortissimi e dallo striminzito reggiseno viola del bikini, il che spiegava perché i ragazzi fossero tanto assorbiti dalla conversazione con lei.
Uno dei ragazzi portava bermuda e canottiera mentre l’altro, con i capelli scuri, indossava un paio di Wrangler sbiaditi e sudici stivali Roper. Stava in piedi, con il peso sbilanciato su una gamba, il pollice agganciato alla tasca dei jeans, e mentre parlava gesticolava con la mano libera. C’era qualcosa che colpiva nella sua figura snella e ossuta, nel contorno definito del suo profilo. La sua vitalità strideva quasi con l’ambiente intorpidito dall’afa.
I texani di ogni età sono socievoli di natura e non esitano un istante a rivolgere la parola agli sconosciuti, ciononostante ero convinta che nessuno di quei tre avrebbe notato il mio passaggio. La cosa non mi preoccupava.
Ma mentre attraversavo in silenzio la strada, un’esplosione di rumore e movimento mi investì. Voltandomi, vidi quella che sembrava una coppia di pitbull inferociti, pronti ad attaccarmi. Abbaiavano, ringhiavano e arricciavano le labbra scoprendo le zanne giallastre e frastagliate. Non avevo mai avuto paura dei cani, ma senza dubbio quei due cercavano una preda.
Guidata dall’istinto, mi voltai e scappai. Le suole consumate delle mie vecchie scarpe da ginnastica slittarono sulla ghiaia e finii gambe all’aria, sbattendo mani e ginocchia sul selciato. Urlai e mi coprii la testa con le braccia, aspettandomi di essere fatta a pezzi. Ma il suono di una voce arrabbiata sovrastò il pulsare del sangue nelle mie orecchie e invece che da zanne pronte a serrarsi sulla mia carne, mi sentii afferrare da un paio di mani forti.
Strillai, trovandomi di fronte il volto del ragazzo dai capelli scuri. Lui mi lanciò un rapido sguardo di controllo e si girò per gridare ancora verso i pitbull. I cani si erano allontanati di qualche metro e i loro latrati si erano affievoliti trasformandosi in guaiti stizzosi.
«Sparite, dannazione!» urlò il ragazzo. «Riportate le chiappe a casa e piantatela di spaventare la gente, brutti pezzi di m…» Si trattenne e mi lanciò una veloce occhiata.
I pitbull si calmarono e filarono via cambiando sorprendentemente umore, le lingue rosa penzolanti come nastri malamente arricciati di pacchetti regalo.
Il mio salvatore li guardò disgustato e si rivolse al ragazzo in canottiera. «Pete, riporta i cani dalla signorina Marva.»
«Ci vanno da soli» protestò quello, riluttante a separarsi dalla bionda in top viola.
«È meglio se li accompagni» fu la risposta che non ammetteva repliche «e di’ alla signorina Marva di non lasciare sempre aperto quel maledetto cancello.»
Durante quello scambio di battute io mi guardai le ginocchia: erano insanguinate e sporche di terriccio. La mia discesa nell’abisso di un disperato imbarazzo era ormai completa, e ora che lo spavento era passato scoppiai a piangere. Più tentavo di scacciare quel nodo in gola, peggio era. Le lacrime sgorgavano sotto i miei spessi occhiali dalla montatura di plastica.
«Cristo santo…» sentii mormorare il ragazzo in canottiera. Con un sospiro, si avvicinò ai cani e li prese per il collare. «Venite, piantagrane.» Lo seguirono di buon grado, trotterellando allegramente ai suoi lati come se stessero facendo un’audizione per una sfilata di cani.
L’attenzione del ragazzo dai capelli scuri tornò a concentrarsi su di me e la sua voce si addolcì. «Dai… adesso è tutto a posto. Non c’è bisogno di piangere, dolcezza.» Tirò fuori dalla tasca dei jeans un fazzoletto rosso e si mise ad asciugarmi il viso. Mi strofinò con disinvoltura gli occhi e il naso, dicendomi di soffiare. Sentii tutto l’aroma del sudore maschile. All’epoca gli uomini di tutte le età portavano sempre un fazzoletto rosso nella tasca dei jeans. Avevo visto fazzoletti usati come setaccio, come filtro per il caffè, come mascherina contro la polvere, e una volta persino come pannolino d’emergenza.
«Non devi mai scappare da cani come quelli.» Il ragazzo si ripose in tasca il fazzoletto. «Neanche se sei spaventata a morte. Devi solo distogliere lo sguardo e camminare molto lentamente, capito? E gridare “No” con voce convinta.»
Tirai su con il naso e annuii, fissando il suo volto in controluce. Sulla sua bocca carnosa aleggiava la piega di un sorriso che mi inviò un brivido fino alla bocca dello stomaco e mi fece rattrappire le dita dei piedi nelle scarpe.
La vera bellezza lo aveva schivato solo di qualche millimetro. I suoi lineamenti erano troppo squadrati e il suo naso aveva una gobba, da quando glielo avevano rotto. Ma aveva un sorriso che ti consumava a fuoco lento, occhi di un azzurro intenso che sembravano ancora più luminosi contro il colorito abbronzato della sua pelle, e una matassa di capelli scuri, lucidi come la pelliccia di un visone.
«Non hai niente da temere da questi cani» mi disse. «Sono fastidiosi, ma che io sappia non hanno mai morso nessuno. Su, dammi la mano.»
Mentre mi tirava verso di sé per aiutarmi a rimettermi in piedi, mi sentii bruciare le ginocchia. Quasi non feci caso al dolore, tanto ero distratta dal mio cuore che batteva all’impazzata. La stretta della sua mano era decisa, le sue dita calde e asciutte.
«Dove vivi?» mi chiese. «Ti trasferisci nella nuova roulotte sul raccordo?»
«Sss… sì…» balbettai, asciugandomi dal mento una lacrima vagante.
«Hardy…» La voce della biondina lo chiamò allettante. «Sta bene adesso. Perché non mi accompagni a casa? Ho qualcosa da farti vedere nella mia stanza.»
Hardy. Era quello il suo nome. Restò girato verso di me, abbassando lo sguardo vivace. Per fortuna la ragazza non poteva vedere il sorrisetto ironico che gli piegò gli angoli della bocca. Lui sembrava avere un’idea piuttosto precisa di cosa voleva fargli vedere quella tizia.
«Non posso» disse allegramente. «Devo occuparmi di questa piccolina.»
Il disappunto che provai sentendolo riferirsi a me come a una marmocchia fu subito rimpiazzato dal senso di trionfo per essere stata preferita alla biondina. Anche se non riuscivo proprio a immaginare perché non avesse colto al volo l’occasione di andare via con lei.
Io non ero proprio brutta, ma neanche una di quelle bambine per cui la gente va in visibilio. Dal mio papà messicano avevo ereditato i capelli scuri, le sopracciglia folte e una bocca che mi sembrava il doppio rispetto alla dimensione giusta. Dalla mamma avevo preso la costituzione pelle e ossa e gli occhi luminosi, che però non erano di un limpido verde mare come i suoi. Spesso rimpiangevo di non avere la sua pelle di alabastro e i suoi capelli biondi, ma i tratti scuri di mio padre avevano avuto la meglio.
Il fatto di essere timida e portare gli occhiali non migliorava la situazione. Non ero mai stata una persona che spicca tra le altre. Mi piaceva tenermi in disparte. Ed ero al colmo della felicità quando potevo stare per conto mio, immersa in un libro. Questa inclinazione e i bei voti che prendevo a scuola avevano dissipato ogni speranza di risultare simpatica ai miei coetanei. Dovevo per forza concludere che i tipi come Hardy non si sarebbero mai interessati a me.
«Vieni» mi invitò lui, facendo strada verso una roulotte arrugginita con gradini di cemento sul retro. L’andatura di Hardy era animata da una traccia di spavalderia, che gli dava la baldanza di un cane randagio.
Lo seguii titubante, chiedendomi cosa avrebbe detto la mamma se avesse scoperto che me ne andavo in giro con un estraneo. «È casa tua?» chiesi, mentre sotto i piedi sentivo scricchiolare l’erba secca che circondava la roulotte.
«V...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Sugar Daddy
- Capitolo 1
- Capitolo 2
- Capitolo 3
- Capitolo 4
- Capitolo 5
- Capitolo 6
- Capitolo 7
- Capitolo 8
- Capitolo 9
- Capitolo 10
- Capitolo 11
- Capitolo 12
- Capitolo 13
- Capitolo 14
- Capitolo 15
- Capitolo 16
- Capitolo 17
- Capitolo 18
- Capitolo 19
- Capitolo 20
- Capitolo 21
- Capitolo 22
- Capitolo 23
- Capitolo 24
- Capitolo 25
- Epilogo
- Copyright