Bugie e verità
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Bugie e verità

La ragione dei popoli

  1. 296 pagine
  2. Italian
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Bugie e verità

La ragione dei popoli

Informazioni su questo libro

"È stato come se cinque grossi camion, pur partiti in tempi diversi, fossero alla fine tutti insieme venuti a passare su di uno stesso ponte, già per suo conto pericolante: la «democrazia del deficit», origine, a partire dagli anni Settanta, del terzo debito pubblico del mondo, la nostra maledizione nazionale; la decostruzione-privatizzazione dello Stato, con la creazione a fianco dello Stato di uno «Stato parallelo» ancora più grande, costoso e paralizzante; il folle cumulo del decentramento amministrativo e del federalismo costituzionale; la forzatura sui tempi e sui modi dell¿ingresso dell¿Italia nell¿euro; infine la globalizzazione. Nell¿agosto-novembre 2011, mossa da enormi interessi esteri, una «quinta colonna» ha infine minato il pilone portante di quello stesso ponte. Al suo posto, invece di un voto che fosse espressione della volontà popolare, è stato messo come «podestà forestiero» un governo tecnico che ha fatto salire il debito pubblico e fatto scendere il prodotto interno lordo. Un esperimento totalmente fallimentare: nel dopoguerra non c¿erano i soldi, ma c¿era la vita. Oggi in Italia è l¿opposto: non si compra, non si assume, non si investe. Una volta, a fianco dei costi c¿erano anche i ricavi, oggi ci sono solo i costi. Una volta si falliva per i debiti, oggi si fallisce anche per i crediti, perché il denaro, fatto per circolare, per difficoltà oggettive o per paure soggettive non circola. I consumi scendono, ma le bollette e le tariffe salgono. Se due anni fa quello dello spread finanziario è stato un falso creato ad arte, lo spread sociale e il deficit di futuro che ne sono derivati sono invece veri. In queste pagine si formulano molte proposte concrete, come per esempio il «rimpatrio» del debito pubblico, libera impresa in libero Stato, una fiscalità avveniristica nella sua semplicità. Ma tutto ciò potrà realizzarsi solo se il Paese saprà riappropriarsi della sua sovranità nazionale, eleggendo un governo che sia espressione di una vasta maggioranza popolare e perciò abbastanza forte da compiere, senza avventurismi e senza traumi, i passi necessari per ridare ai cittadini fiducia nel presente e speranza nel futuro." Giulio Tremonti

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Parte prima

CALPESTI E DERISI?

I

«Calpesti e derisi!»

Come è nelle parole del nostro Inno, c’è stato un tempo in cui gli italiani sono stati «calpesti e derisi». Un tempo molto lungo. Un tempo che non è molto lontano.
Calpesti e derisi: un tempo simile è tornato o sta tornando.
Ma quello d’essere calpesti e derisi non è il nostro fatale destino. Dopo il Risorgimento e dopo l’unità, il Novecento è infatti iniziato con l’«Italietta» divenuta la sesta potenza economica mondiale e, per quei tempi, una moderna democrazia liberale.
E poi il Piave, il miracolo economico del dopoguerra, l’Italia fondatrice rispettata dell’Europa e protagonista in Europa, e infine, ancora pochi anni fa, l’Italia tornata a essere la sesta potenza economica mondiale.
Oggi, di nuovo calpesti e derisi, possiamo ancora vincere la non dichiarata guerra che da fuori ci è stata portata in casa, ma che pure noi ci siamo chiamati in casa, tanto per la crescente causata debolezza del nostro sistema, quanto per l’astuzia di troppi nostri ciarlatani apprendisti stregoni di (in)successo, di troppi nostri «generali dell’armata morta».
Oggi, di nuovo come al tempo di Machiavelli, quando in Italia si usava chiamare «in aiuto» lo straniero, per ricadere alla fine, e perlopiù senza ordine e dignità e speranza, nel «Franza o Spagna purché se magna».
E tutto questo perché, oggi come allora, i nostri valori spirituali hanno cominciato a cedere, prima e più ancora dei valori economici: «I freni morali tradizionali scomparvero … l’anarchia e la slealtà, che inevitabilmente risultarono dalla decadenza della morale, resero gli italiani collettivamente impotenti, ed essi caddero come i greci, sotto il dominio di nazioni meno civili, ma non così prive di coesione sociale».1
La maggior potenza degli stranieri veniva allora dalla forza dominante e unificante della «polvere da sparo», veniva dagli investimenti militari, origine con le tasse delle prime organizzazioni statali nazionali, veniva dalla «ricchezza del nuovo mondo».2 Oggi, invece, viene dal «mercato», dalla sua dominante ideologia e dai suoi smisurati mezzi di informazione e di pressione. E, di riflesso, viene dai cartelli degli interessi economici e finanziari, da cui all’estero sono tenuti tanto uniti quanto noi oggi in Italia siamo divisi.
«Gli stranieri, dimentichi del beneficio, volentieri considerarono quegli italiani come sonettisti, avventurieri, ciarlatani e buffoni. E i connazionali pudicamente li tennero poi per vergogna, perché non furono, come i tempi richiedevano, eroi della patria.» Dice niente questa frase, scritta da un vecchio filosofo,3 o dice tutto?
Tra passato e presente, tra ieri e oggi, non c’è un’attuale impressionante analogia? Non è che di nuovo stiamo tornando indietro, che di nuovo stiamo tornando al «secentismo» e alla «commedia dell’arte»?
Il «secentismo»: la «schiavitù della nazione che non tenta di affrancarsi dal giogo, anzi pare che se ne compiaccia», il «passaggio dell’Italia alla Spagna» e di qui all’«Austria», da cui derivò un «tenore generale di vita normalmente mediocre, spesso assai misero, in certi momenti disastroso».4
E poi la «commedia dell’arte», il tentativo di «sostituire lo spettacolo al dramma» affidandosi a compagnie di comici e, dunque, l’apparizione delle maschere: Pantalone, Pasquino, Arlecchino, Rosaura, Colombina. Ancora la «decadenza spirituale delle classi sociali alte» e infine il «presagio di una società già dannata al crollo».
Dove sono e chi sono oggi in Italia i «sonettisti», gli «avventurieri», i «ciarlatani», i «buffoni»? E perché invece mancano gli «eroi»?
Si dice che è felice il Paese che non ha bisogno di eroi. È vero. Ma è felice anche il Paese che non ha bisogno di «sonettisti, avventurieri, ciarlatani, buffoni»!
Questo libro è scritto proprio nella speranza di sottrarci alla nostra non felice storia e alla triste memoria del nostro passato, per evitare che il futuro precipiti di nuovo proprio in quel passato. Come invece pare stia sventuratamente capitando, perché ora come allora stiamo cedendo sul fronte interno e con questo stiamo perdendo la nostra sovranità.
Non dimentichiamo, del resto, che per l’Italia la curva all’indietro è iniziata, ora come allora, proprio con quella «chiamata» dello straniero che – profetico o, forse meglio, persona informata dei fatti – lo stesso professor Monti ebbe modo di definire come la «chiamata del podestà forestiero».5
Caduti insieme con l’Europa e con la globalizzazione i confini nazionali, confini che ci facevano più uniti al nostro interno, in Italia aveva in realtà già cominciato a cedere l’idea di essere un popolo, l’idea del demos.
E poi il ritorno in forma nuova dell’antica maledizione divisiva, come tra Guelfi e Ghibellini: per gli ultimi venti anni quasi solo «pro» o «contro» Berlusconi.
Infine, non ultimo, il ruolo negativo delle nostre classi dirigenti, delle nostre cosiddette élite, le uniche in Europa a essere insieme eversive e antipatriottiche: qualsiasi cosa, pur di non sembrare «italiani», pur di avere una citazione positiva sulla stampa estera, pur di farsi assegnare un posto, pur di concludere un affare con l’estero.
Tutto, dunque, ora come allora: «Perché non siam popolo, perché siam divisi».
Che lo si voglia o no vedere, che lo si voglia o no capire, siamo dunque di nuovo in guerra. Certo, è una strana guerra. Una guerra non violenta e «civile», di tipo postmoderno, come si dice oggi.
Una guerra davvero molto diversa da quelle del passato. Soprattutto economica, ma pur sempre una guerra: «Non più come nel 1914-1918 o nel 1939-1945, ma si può fare la guerra usando la leva dell’economia».6
Un tempo si diceva che la guerra era «la prosecuzione della politica con altri mezzi». Oggi, nella nuova geopolitica del mondo, la politica prosegue invece con l’economia. Le guerre tra Stati e su vasta scala sono quasi del tutto scomparse dal teatro della storia, perché sostituite dalla competizione e dalla concorrenza. Competizione e concorrenza, non solo tra Stati, ma anche tra «sistemi», tra blocchi e cartelli economici e finanziari, tra conglomerati di imprese, tra singole imprese.
Un tempo, un tempo lungo che va da Tucidide fino a Hitler, la teoria e la prassi della guerra erano teoria e prassi della guerra come esercizio della forza per conquistare fisicamente il territorio degli altri. Oggi, il territorio degli altri basta dominarlo economicamente. E la forza prende forme e ha applicazioni molto diverse, meno violente seppure ugualmente efficaci, rispetto a quelle del passato. E comunque la nuova forma della conquista, il dominio economico sul territorio degli altri, è resa enormemente più facile se gli altri sono deboli, se gli altri si rendono deboli, se gli altri vogliono essere ancora più deboli.
Come le altre, anche le guerre di questo nuovo tipo si possono vincere o si possono perdere.
Possiamo perderla, questa guerra, se per paura accettiamo di farci colonizzare, se ci autocolonizziamo, se diamo il continuo consenso al nostro suicidio assistito.
In particolare, perdiamo da quando – da fuori e da dentro, senza essere eletti dal popolo, ma tra di loro cooptati e illuminati, in buona o in malafede – politici sprovveduti o opportunisti, finanzieri, tecnici, ventriloqui, lobbisti, «quinte colonne», tutti questi insieme hanno deciso di «salvarci»: prima imponendoci i loro diktat e poi sottomettendoci a cure che loro stessi amano definire di «distruzione creatrice».
È in specie così che a partire dall’agosto-novembre 2011, da fuori e dall’alto, è stato per l’Italia prima inventato e fabbricato, e poi sull’Italia calato, un governo «tecnico». Prima prova europea di dominio postdemocratico.7
Un governo fatto nascere con la tecnica della paura, della paura tanto come ideologia quanto come strategia di dominio, un governo fatto nascere agendo sulla psicologia di massa con lo spettro della catastrofe. Un governo che è poi rimasto intrappolato proprio nel cerchio di quella paura, trovandosi a esserne, alla fine, l’artefice e la vittima.
Se non lo si è capito, qui si parla del governo Monti.
Fare un governo di questo tipo è stato come fabbricarsi in patria, in forma volontaria e domestica, in una parola in forma autarchica, un intervento simile a quelli tipici del Fondo monetario internazionale (Fmi).
L’intervento l’Italia formalmente non lo ha chiesto, perché ha garantito che avrebbe provveduto da sola, con effetti equivalenti. E così senza neppure ricevere in contropartita quei fondi che l’Fmi normalmente stanzia, a beneficio dei Paesi in cui interviene per «salvataggio»!
In nome dello «stato di eccezione finanziaria» e della cosiddetta «ragion di Stato», andando ben oltre il criterio tradizionale del «vincolo esterno», nell’agosto-novembre 2011 in Italia è stato così operato un «dolce» colpo di Stato.8
Un colpo che all’estero e in Italia è stato prima preparato in vitro, nei laboratori più «illuminati» e nei migliori salotti di Berlino e di Parigi, di Milano e di Roma. Un colpo fatto separando l’economia dalla politica, separando il «capitalismo» dalla «democrazia», come se queste fossero variabili tra loro indipendenti e perciò appunto separabili.
Se il governo Berlusconi non andava bene, si doveva e si poteva andare a votare: dare la parola al popolo, come è stato e come è dappertutto in Europa. Le «consultazioni» (sic!), invece di farle con gli emissari dei banchieri stranieri, si dovevano fare con i rappresentanti dei cittadini italiani. E invece, mentre delle prime c’è ampia e ammessa traccia, delle seconde manca ogni forma di pubblica evidenza.
In questi termini è stata dunque grande anche la responsabilità politica e civile dell’opposizione di sinistra che, tanto era attiva contro il governo Berlusconi finché il governo Berlusconi c’è stato, quanto poi si è fatta muta e passiva quando si è trattato di chiedere le elezioni per dare la parola al popolo e per porre la propria candidatura al governo del Paese. Come appunto è regola di base e dovere primo, per un’opposizione, in tutte le democrazie! Non è che il voto è un rischio e che, per evitarlo, si deve sospendere il popolo, magari per scioglierlo… in attesa di eleggerne un altro!
La democrazia non è e non può mai essere una variabile nel suo stesso essere indipendente dall’economia. Non ci sono «dittatori benevoli» o «governi dei migliori», perché in democrazia di migliore c’è solo il popolo. La democrazia non è perfetta, ma l’economia senza la democrazia è peggio! E in Italia, da allora, lo abbiamo visto e sperimentato. E oggi ancora lo vediamo e lo sperimentiamo nella disastrosa progressiva caduta di tutte le istituzioni democratiche. Perché gli apprendisti stregoni hanno liberato forze che anche per loro sono ormai sempre più difficili da controllare!
E una maggioranza parlamentare, assemblata artificialmente, dentro un Parlamento diversamente eletto, non poteva essere allora se non quello che poi si è appunto rivelata: una maggioranza che, con la propria artificiosa ampiezza, cercava di compensare la sostanziale vuotezza. Trasformando così il Parlamento italiano in una pura camera di registrazione e peggioramento di diktat che venivano imposti da sopra e da fuori.
Tra l’altro, al governo dell’Italia non c’è neppure stato l’arrivo di una vera «tecnocrazia», ma perlopiù, sventura nella sventura, l’arrivo di tecnici di cartone. La storia, con le sue responsabilità, è certo fatta da ciò che è stato, ma anche da ciò che non è stato (le elezioni). E non solo: dei fatti fanno parte anche le conseguenze. Eppure, al principio, lo spirito e il messaggio erano proprio messianici, vissuti e celebrati con una liturgia composta e alimentata da forme mediatiche ispirate dalla grazia: «Salva Italia» fu appunto la formula scelta dal governo «tecnico» per presentarsi al Paese. Invece, nella realtà, quello «tecnico» è stato per l’Italia un governo niente affatto salvifico. E per una ragione molto semplice: perché i governi sono forti quando sono governi della speranza, e non quando sono governi della paura.
Come vedremo, per tutti questi motivi le cose in Italia non sono andate meglio, ma molto peggio di prima. Peggio dal lato dell’economia privata, peggio dal lato del pubblico bilancio, peggio soprattutto dal lato della vita civile.
E non solo per l’effetto diretto e proprio dei tanti provvedimenti sbagliati o scriteriati, ma anche – si direbbe quasi soprattutto – per effetto del clima di sfiducia e paura, e poi di rabbia e incertezza, creato da allora nel Paese. Un clima carico di ansia innaturale in cui il Paese è stato fatto ad arte precipitare, prima per giustificare e poi per tentare di legittimare il governo Monti.
Un caso esemplare, questo, in cui si può notare quanto la psicologia, individuale o collettiva, il sentimento delle persone o delle masse, sia componente essenziale nella vita di un Paese. Congegnato fin dal principio come forma di «pensiero negativo», l’esperimento ha funzionato e non poteva funzionare diversamente, se non, appunto, in negativo. Insistendo ad arte sul falso pericolo di un deficit di bilancio, si è creato nel Paese un deficit vero e più grave: un deficit di futuro!
E la cosa più grave è che l’effetto paura così creato – e appositamente creato, con un’enorme responsabilità non solo politica, ma civile e morale – è stato fin dal principio tanto intenso, tanto forte, tanto pervasivo che ancora dura, e da eccezione strumentale è divenuto regola, deprimente, permanente, strutturale ed esistenziale componente del nostro quotidiano.
Questo toglie ai giovani speranza nel futuro. Negli anziani, ancora più carica l’angoscia per il presente. Quasi come una dimensione nuova, collettiva e negativa del nostro stesso spirito nazionale.
È così in specie che è iniziato in Italia l’inverno dello scontento. E poi della rabbia. È così che sono state minate le fondamenta della nostra fiducia nell’economia e poi nella democrazia e, infine, nell’idea stessa di essere comunque un grande Paese. E di tutto questo la responsabilità non è e non è stata solo dei cosiddetti «tecnici», ma anche di chi li ha prima inventati e poi chiamati e sostenuti.
Nella Repubblica di Platone la politica è detta «he téchne politiké». Per fare politica, è scritto, devi conoscere la nave, l’equipaggio, le correnti, i fondali, i venti, le stelle. Non chiami al governo di un grande Paese chi in vita sua non ha mai governato e il governo o il Parlamento li ha visti solo dal buco della serratura. Chi, commissariando e manipolando la democrazia, ha inventato il governo Monti non ha evitato, ma ha anzi creato, un drammatico effetto di vuoto. Un effetto che è insieme psicologico, economico e politico. E oggi le conseguenze di quell’esperimento le stiamo pagando, e con gli interessi.
Oggi, è una realtà sotto gli occhi di tutti, non si compra, non si assume, non s...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Bugie e verità
  4. Premessa
  5. Parte prima. Calpesti e derisi?
  6. Parte seconda. Exit strategy?
  7. Parte terza. Avanti!
  8. Appendici
  9. Note
  10. Copyright