Smith e Conway avevano quasi finito di pranzare quando, chissà perché, cominciarono a parlare di male e di innocenza.
«Sei mai stato colpito da un fulmine?» domandò Smith.
«No» rispose Conway.
«Conosci qualcuno che è stato colpito da un fulmine?» chiese Smith.
«No» rispose Conway.
«Eppure ce ne sono. Centomila persone vengono colpite ogni anno. Un migliaio circa muoiono, con il denaro che gli si fonde nelle tasche. Pensano tutti che non verranno mai colpiti da un fulmine. Tutti credono di essere dei veri cristiani, pieni di virtù.»
«Cosa c’entra questo con quello che stavamo dicendo?» chiese Conway.
«Questo.» Smith si accese una sigaretta e guardò la fiamma. «Ti rifiuti di vedere la supremazia del male nel mondo, allora io uso la similitudine del fulmine per dimostrarti il contrario.»
«A che serve che riconosca il male se tu non ammetti il bene?»
«L’ammetto. Ma...» cominciò Smith. «Finché gli uomini conosceranno solo due cose, il mondo continuerà ad andare allegramente in malora. Innanzitutto, dobbiamo capire che in ogni uomo si cela un’immagine capovolta del male. Allo stesso modo, in ogni peccatore c’è un principio di bene. Rinchiudere le persone in una o nell’altra categoria significa anarchia. Pensare che un individuo sia solo buono, vuol dire mettere in dubbio la sua duplicità. Pensare che sia malvagio, vuol dire negare il paradiso. Per la maggior parte sono dei santi-peccatori. Schweitzer era un quasi-santo che aveva incatenato il proprio demone o che, se non altro, lo teneva al guinzaglio. Hitler era Lucifero, ma da qualche parte dentro di lui non si nascondeva forse un bimbo desideroso di scappare? Peccato che quel bimbo dentro Hitler sia morto e sepolto. Allora, appiccichiamogli una bella etichetta e seppelliamo le sue ossa.»
«Ti sei spinto lontano» disse Conway. «Taglia corto.»
«Va bene.» Smith ridacchiò. «Prendiamo te. La tua facciata è tutta una rigida e bianca torta nuziale. La neve cade tutto l’anno tra le tue orecchie. Eppure, sotto questo candore batte un cuore oscuro, e dei peli neri si arricciano come molle di orologio. È lì che vive la Bestia. E, anche se ora riesci a domarla, un giorno si scatenerà.»
Conway scoppiò a ridere. «Fantastico!» gridò. «Oh, mio Dio! È buffo!»
«No, è triste.»
«Scusami,» ansimò Conway «se ti ho offeso, ma...»
«Tu offendi te stesso» disse Smith. « E disconosci le tue possibilità per una vita migliore, in futuro.»
«Per piacere!» disse Conway ridendo. «Basta così!»
Smith si alzò, rosso in viso.
«Ora ti ho fatto arrabbiare» disse Conway, riprendendosi. «Non andare via.»
«Non sono arrabbiato.»
«Parli in modo così, be’, sorpassato» disse Conway.
«Le novità sembrano spesso datate» disse Smith. «Nuotiamo sulla superficie e crediamo che sia il fondo.»
«Per piacere» disse Conway. «Le tue teorie...»
«Scoperte!» disse Smith. «Vedo che non hai imparato niente.»
«Deformazione professionale.»
«E la messa domenicale? Tenuta da un prete che ti vuole preparare a puntino per il paradiso? Posso farti un favore? Sono proprio curioso. Apri gli occhi. Telefona al PL8-9775.»
«Perché?»
«Tu chiama e ascolta. Questa sera, domani, dopodomani. Ci rivediamo qua venerdì.»
«Venerdì...?»
«Chiama quel numero.»
«Chi risponderà?»
Smith sorrise. «Le Bestie.»
Poi scomparve.
Conway rise, pagò il conto, e s’incamminò a grandi passi in quella bella giornata.
«PL8-9775?» ridacchiò tra sé. «Li chiamo e che gli dico? Salve, Bestie?»
Mentre cenava con sua moglie, Norma, si dimenticò di quella conversazione, del telefono e del numero. Le diede la buonanotte e restò su fino a tardi a leggere dei thriller. A mezzanotte squillò il telefono.
Rispose e disse: «Questo devi essere tu.»
«Dannazione,» disse Smith «hai indovinato.»
«Vuoi sapere sei ho chiamato il PL8-9775?»
«Lo capisco già dalla tua voce, nessun colpo di fulmine. Componi il numero. Avanti, chiama!»
Chiama, pensò. E che diamine, no. Non chiamerò!
All’una di notte squillò il telefono. Chi può essere? si chiese. Il telefono squillava. Così tardi? pensò. Il telefono squillava. Chi può chiamare a quest’ora? Il telefono squillava. Cristo! Il telefono squillava. Allungò una mano. Il telefono squillava. L’afferrò. Suona! Lo tenne stretto. Suona! Ora era sveglio! Suona! Non suonare! Suona! L’alzò, ma non se lo portò all’orecchio. Perché? Restò a guardarlo come se fosse un gigantesco insetto ronzante. Un sospiro. Più chiaro. Un sospiro. Chiarissimo. Un sospiro. Click! Lo sbatté giù con forza. Cristo! Non aveva sentito niente! O, forse, qualcosa. Un sospiro.
Lanciò il telefono sul tappeto. Cristo! pensò. Perché l’aveva toccato? Perché?
Lo lasciò là sul pavimento e tornò a letto.
Ma continuò a sentirlo ronzare in segno di protesta. Alla fine si alzò e sbatté la cornetta al suo posto.
Ecco. Non era niente. No, forse qualcuno. Smith? Spense la luce. Perché gli era sembrato di sentire diverse voci? Che stupido. No!
Guardò di nuovo in salotto.
Il telefono era zitto.
Bene! pensò.
Eppure aveva sentito qualcosa.
Qualcosa che l’aveva fatto sudare freddo?
No!
Rimase là sdraiato e sveglio finché...
Le tre di quel lungo e buio mattino. La mezzanotte dell’anima. Quando i morti liberano i loro fantasmi...
Dannazione!
Uscì dal letto e avanzò finché non fu sopra a quel dannato oggetto animato da Smith.
L’orologio sul caminetto batté le tre e un quarto. Alzò il telefono e lo sentì ronzare. Si sedette con l’apparecchio in grembo e, lentamente, compose il numero.
Credeva che avrebbe sentito una voce di donna, la complice di Smith. Già, una donna. Ma erano solo sospiri.
Poi, una confusione di voci, come se più telefonate si fossero fuse in un’unica nube elettrostatica. Riattaccò.
Poi ricompose furtivamente il numero. Gli stessi suoni. Un’onda elettrica, voci che non erano né maschili né femminili, che si rincorrevano, protestavano, chiedevano qualcosa, imploravano, altre ancora che...
Respiravano.
Respiravano? Coprì il telefono. Respiravano? Inspirazione, espirazione. Dentro, fuori. I telefoni, pensò, non inspirano, espirano.
Smith, pensò, sei tu, bastardo.
Perché?
Per quello strano modo di respirare.
Strano?
Si riportò lentamente il telefono all’orecchio.
Le voci andavano e venivano, e tutte...
Respiravano pesantemente, come dopo una lunga corsa. Una corsa sul posto. Sul posto? Come potevano quelle voci maschili, femminili, vecchie, giovani, balzare, precipitarsi, correre sul posto, stare ferme eppure alzarsi, abbassarsi, andare su e giù?
Poi cominciarono tutte a urlare, a strillare, ansimare, inspirare, espirare violentemente.
Le guance gli bruciavano. Il sudore gli colava dal mento. Cristo! Cristo santissimo!
Il telefono cadde per terra.
La porta della stanza da letto sbatté.
Alle quattro e mezzo del mattino, Norma Conway gli lasciò cadere un braccio vicino al viso. Gli toccò il mento e la fronte.
«Mio Dio» disse. «Sei malato.»
Lui guardò il soffitto. «Sto bene» rispose. «Torna a dormire.»
«Ma...»
«Sto bene» ripeté. «Ma...»
«Ma?»
«Posso venire dalla tua parte?»
«Con quella febbre?»
«No, immagino di no.»
«Ti vado a prendere qualcosa?»
«Niente. Qualcosa.»
Si girò. Il suo alito pareva una fornace.
Tutto, pensò, ma non disse nulla.
Fece una colazione abbondante. Norma gli toccò la fronte e sospirò. «Grazie al cielo t’è passata.»
«Passata?» Si servì le uova con la pancetta.
«La febbre. Riuscivo a sentirla dall’altra parte del letto. Ora hai una fame da lupo. Com’è possibile?»
Lui guardò il suo piatto vuoto.
«Dannazione, è vero» disse. «Mi dispiace per questa notte.»
«Oh, quello.» Norma rise dolcemente. «Non volevo che ci rimanessi male. Meglio che ci muoviamo. Sono le nove. Dov’è finito il telefono?»
Lui stava per uscire, ma si fermò.
«Il telefono?»
«La presa nel muro sembra rotta. Chiamo la compagnia telefonica?»
Fissò il telefono sul pavimento.
«No» rispose.
In ufficio, a mezzogiorno, tirò fuori di tasca il foglietto spiegazzato.
«Stupido» disse.
E compose il numero.
Il telefono suonò due volte, poi rispose una voce. «Il numero che ha chiamato è fuori servizio.»
«Fuori servizio!»
Nello stesso momento, una riga di caratteri comparve fuori dal fax.
PL4-4559.
Nessuna firma, nessun indirizzo.
Chiamò Smith.
«Smith, brutto bastardo, che stai combinando?»
«Inutile» disse S...