Nella gabbia di ferro, appesa all’incrocio tra due strade, due cadaveri si decomponevano sotto il sole dell’estate.
Egg si fermò a dare un’occhiata. «Chi pensi che fossero, ser?» Maestro, il suo mulo, grato della sosta, si mise a brucare l’erba del diavolo rinsecchita che spuntava lungo il fossato, ignorando le due gigantesche botti di vino sul dorso.
«Predoni.» Dunk, in sella a Tuono, si trovava più vicino ai due cadaveri. «Stupratori. Assassini.»
Sotto le ascelle, chiazze scure segnavano la sua vecchia tunica verde. Il cielo era azzurro, il sole fiammeggiava rovente. Era da quando avevano tolto l’accampamento, quel mattino, che Dunk grondava sudore a galloni interi.
Egg si tolse il floscio cappello di paglia a tesa larga. La sua testa era rasata e lucente. Fece ondeggiare il cappello per allontanare le mosche. Alcune turbinavano attorno ai cadaveri, altre fluttuavano pigramente nell’aria immobile, torrida.
«Devono avere commesso qualcosa di grave, per essere lasciati morire all’interno di una gabbia per corvi.»
Certe volte, Egg sapeva essere saggio come un maestro della Cittadella, altre invece era solo un ragazzetto di dieci anni.
«C’è lord e lord» aggiunse Dunk. «Ad alcuni di loro non serve nemmeno un vero motivo per mettere a morte qualcuno.»
La gabbia era troppo stretta per contenere due uomini. Stavano in piedi faccia a faccia, in un groviglio di gambe e braccia, le schiene contro il ferro arroventato delle sbarre. Uno dei due aveva cercato di sbranare l’altro, scarnificandogli il collo e la spalla. I corvi li avevano divorati entrambi. Quando Dunk ed Egg erano apparsi oltre la collina, gli uccelli si erano dispersi in volo come una nube nera, talmente densa da spaventare Maestro.
«Chiunque fossero, sembrano morti di fame» riprese Dunk. “Scheletri con pelle addosso, e la pelle è verdastra e putrefatta.” «Può essere che abbiano rubato del pane o cacciato di frodo un cervo nelle terre di un qualche lord.»
In quel secondo anno di siccità, la maggior parte dei lord erano diventati meno tolleranti verso i bracconieri, anche se tolleranti non lo erano mai stati realmente.
Dunk ne aveva incontrati parecchi, di bracconieri, quando era ancora lo scudiero del vecchio. Non era troppo ansioso d’incontrarne altri. Nessuno di quelli che aveva conosciuto era stato particolarmente valoroso. Ricordava bene un certo fuorilegge che ser Arlan aveva contribuito a far impiccare, un individuo sempre pronto a rubare anelli. Per prenderli, agli uomini mozzava le dita, con le donne invece ci dava dentro a morsi. Per quanto Dunk ne sapesse, su quel personaggio non era mai stata composta nessuna ballata. “Fuorilegge o bracconieri non fa differenza. I cadaveri non sono comunque di grande compagnia.” Con lentezza, condusse Tuono attorno alla gabbia. Le cavità orbitali svuotate parvero seguirlo. Uno dei morti aveva la testa abbassata, la bocca simile a una caverna. “Non ha più la lingua” osservò Dunk. Ipotizzò che l’avessero mangiata i corvi. Gli occhi erano la prima cosa che beccavano, aveva sentito dire, la lingua era la seconda. “O forse è stato un lord a fargliela strappare, per qualcosa che può avere detto.”
Dunk si passò le dita tra la capigliatura sbiadita dal sole. Non c’era nulla che potesse fare per quei morti. Inoltre aveva le due botti di vino da portare a Standfast. «Da che parte siamo arrivati?» chiese, guardando la strada in entrambe le direzioni. «Credo di essermi voltato nella direzione sbagliata.»
«Standfast è da quella parte, ser» indicò Egg.
«E quella parte sia. Possiamo essere di ritorno al calar della sera, se non restiamo qui tutta la giornata a contare le mosche.»
Diede un breve colpo di talloni a Tuono e fece voltare il grande destriero verso la biforcazione di destra. Egg si rimise in capo il cappello floscio, assestando un secco strappo di redini a Maestro. Il mulo cessò di brucare l’erba del diavolo e, una volta tanto, si mosse senza protestare. “Anche lui avrà caldo” pensò Dunk “e quelle botti di vino devono essere pesanti.”
Il sole dell’estate aveva cotto la sterrata fino a farla diventare dura come un mattone. Il fondo era scavato da due solchi abbastanza profondi da spezzare le gambe ai cavalli, per cui Dunk fece attenzione a tenere Tuono lungo la cunetta centrale. Lui stesso, camminando nel cuore della notte, quando faceva più fresco, si era storto una caviglia quando aveva lasciato Dosk. Un cavaliere doveva imparare a sopportare indolenzimenti e dolori, soleva dire il vecchio. «Aye, ragazzo, e anche ossa rotte e cicatrici. Fanno parte del cavalierato tanto quanto le spade e gli scudi.» Se fosse stato Tuono a spezzarsi una gamba, però... be’, un cavaliere senza cavallo non è un cavaliere.
Egg lo seguiva cinque iarde più indietro, con Maestro e le botti di vino. Il ragazzo camminava con un piede nudo in un solco e l’altro fuori, per cui la sua andatura si alzava e si abbassava a ogni passo. Teneva il pugnale nel fodero al fianco, gli stivali appesi allo zaino, la malconcia tunica marrone arrotolata e legata attorno alla cintola. Sotto l’ampia tesa del cappello di paglia, il suo viso era chiazzato, gli occhi grandi e scuri. Aveva dieci anni, ed era alto meno di cinque piedi. Negli ultimi tempi stava crescendo in fretta ma, prima di raggiungere l’altezza di Dunk, aveva ancora molta strada da fare. Sembrava proprio lo stalliere che non era, mentre non sembrava affatto chi era in realtà.
I due cadaveri scomparvero velocemente alle loro spalle, ma il loro pensiero non abbandonava Dunk. In quei giorni, il reame era infestato dai fuorilegge. La siccità non sembrava voler cessare e quelli del popolino, a migliaia, si erano messi in marcia alla ricerca di un luogo qualsiasi in cui cadesse ancora la pioggia. Lord Bloodraven aveva ordinato che facessero ritorno alle loro terre e ai loro lord, ma ben pochi avevano obbedito. Molti imputavano a lui e a re Aerys la colpa della siccità. È un castigo degli dèi, dicevano, perché maledetto è l’assassino di consanguinei. “Quanti occhi ha lord Bloodraven?” recitava l’indovinello che Egg aveva sentito a Vecchia Città. “Mille occhi, più uno.”
Sei anni prima, ad Approdo del Re, lungo la Strada dell’Acciaio, Dunk aveva visto il lord in sella a un cavallo pallido, scortato da cinquanta Zanne del Corvo. Questo era stato prima che re Aerys ascendesse al Trono di Spade e lo nominasse Primo Cavaliere, ma Bloodraven era comunque una figura che lasciava il segno, vestito di grigio fumo e scarlatto, con Sorella Oscura al fianco. La pelle livida e i capelli bianchi come ossa lo rendevano simile a un cadavere. Sulla guancia e sul mento si propagava una voglia rossastra che pareva riprodurre le fattezze di un corvo, per quanto Dunk non vedesse nient’altro che una chiazza di pelle dalla forma strana. Dunk l’aveva fissato con tale intensità che Bloodraven se n’era accorto. Mentre gli passava davanti, il negromante del re si era voltato a scrutarlo. Aveva un occhio solo, e quell’occhio era rosso. L’altro era una cavità svuotata, regalo di Acreacciaio nello scontro del Campo dell’Erba Rossa. Eppure a Dunk era sembrato proprio che entrambi gli occhi gli scavassero dentro, sotto la pelle, fino dentro l’anima.
Nonostante il calore, quel ricordo lo fece rabbrividire.
«Ser?» chiamò Egg. «Qualcosa non va?»
«No» rispose Dunk. «Ho caldo e sete.» Indicò il campo a lato della strada. «Come loro.»
I meloni si raggrinzivano sui viticci. Lungo i bordi della strada, ciuffi e cespugli d’erba del diavolo si ostinavano ad aggrapparsi alla vita, ma le colture non se la cavavano altrettanto bene. Dunk sapeva come si sentivano quei meloni. Ser Arlan diceva sempre che nessun cavaliere errante doveva mai ritrovarsi assetato. “Non fino a quando avrà un elmo in cui raccogliere la pioggia, perché la pioggia è la miglior bevanda che esista.” Però il vecchio non aveva mai visto un’estate come questa. E Dunk aveva lasciato l’elmo a Standfast. Troppo pesante e troppo infuocato per tenerlo in testa e della preziosa pioggia con cui riempirlo nemmeno l’ombra. “Che cos’è un cavaliere errante quando anche l’erba e i campi sono ingialliti, disseccati e morenti?»
Una volta raggiunto il fiume, magari si sarebbe fatto un bagno. Sorrise tra sé, immaginando quanto sarebbe stato piacevole tuffarsi e poi riemergere grondante, con l’acqua che gli colava lungo le guance, tra i capelli arruffati, la tunica appiccicata alla pelle bagnata. Forse anche Egg avrebbe voluto buttarsi, per quanto il ragazzo apparisse fresco e asciutto, coperto più di polvere che di sudore. In effetti, Egg non sudava mai molto. Il caldo gli piaceva. A Dorne se ne andava in giro a torso nudo, abbronzandosi come un dorniano. “È il sangue di drago che scorre in lui” rimuginò Dunk. “Chi ha mai sentito di un drago che suda?” Non gli sarebbe affatto dispiaciuto togliersi la tunica, ma non sarebbe stato appropriato. Un cavaliere errante poteva cavalcare nudo, se proprio lo voleva, svergognando soltanto se stesso. Cosa ben diversa era essere una spada giurata. «Nel momento in cui accetti la carne e l’idromele di un lord, ogni tuo atto si riflette su di lui” diceva ser Arlan. «Fa’ sempre più di quello che il lord si aspetta da te, mai meno. Mai esitare di fronte a qualsiasi compito, per quanto gravoso. E, sopra qualsiasi altra cosa, mai gettare vergogna sul lord che servi.» A Standfast, carne e idromele erano in realtà pollo e birra di malto, ma era lo stesso ser Eustace ad accontentarsi di quel cibo frugale. Perciò Dunk si tenne la tunica addosso e continuò ad arrostire.
Ser Bennis dallo Scudo Marrone era in attesa sul vecchio ponte di assi. «Dunque ce l’hai fatta a tornare» esordì. «Sei stato via talmente a lungo che ho pensato che eri scappato con l’argento del vecchio.»
Bennis era in sella al suo malridotto ronzino, intento a masticare foglie rosse amare e la sua bocca sembrava piena di sangue.
«Per trovare del vino siamo stati costretti ad arrivare fino a Dosk» lo informò Dunk. «Gli uomini di ferro hanno razziato Piccola Dosk. Si sono portati via il bottino e le donne, e metà di quello che non hanno preso l’hanno bruciato.»
«Quel Dagon Greyjoy andrebbe impiccato» disse Bennis. «Aye, ma chi sarà a impiccarlo? Hai visto il vecchio Pate Pizzicotto?»
«Ci hanno detto che è morto. Gli uomini di ferro l’hanno ucciso mentre cercava d’impedire che prendessero sua figlia.»
«Per i sette fottuti inferi!» Bennis voltò la faccia e sputò. «Una volta ho visto sua figlia. Se vuoi che te la dica tutta, non è proprio da rimetterci la pelle. Pate, quello scemo, mi doveva mezzo pezzo d’argento.» Il cavaliere marrone aveva esattamente lo stesso aspetto di quando Dunk ed Egg se ne erano andati. E cosa ancora peggiore, puzzava allo stesso modo. Portava gli stessi vestiti tutti i giorni: brache marroni, rozza tunica sformata, stivali di pelle di cavallo. Quando si corazzava, indossava una larga sovratunica marrone su una rugginosa cotta di maglia. Come cinturone della spada aveva una stringa di cuoio bollito. Quanto alla sua faccia, anche quella pareva fatta di cuoio bollito. “La sua testa sembra uno di quei meloni raggrinziti che abbiamo visto prima.” Perfino i suoi denti, sotto le chiazze rosse lasciate da quelle foglie che gli piaceva tanto masticare, erano marroni. Ma c’era qualcosa che spiccava in mezzo a tutto quel marrone: gli occhi. Verde pallido, piccoli, ammiccanti, ravvicinati e accesi da un lampo malevolo.
«Soltanto due barili» notò Bennis. «Ser Inutile ne voleva quattro.»
«Siamo già stati fortunati a trovarne due» rispose Dunk. «La siccità ha raggiunto anche Arbor. Abbiamo sentito dire che sulle vigne i grappoli d’uva si stanno trasformando in uva passa, e gli uomini di ferro continuano a razziare...»
«Ser?» intervenne Egg. «L’acqua è svanita.»
Dunk era talmente concentrato su Bennis da non averci fatto caso. Sotto le assi deformate del ponte non rimanevano altro che sabbia e sassi. “Questo sì che è strano. Il torrente c’era, quando siamo passati di qui all’andata. In magra, ma c’era.”
Bennis rise. Aveva due tipi di risata. Certe volte starnazzava come un pollo, altre ragliava addirittura più forte del mulo di Egg. Questa era la sua risata da pollo. «È andato in secca mentre eravate in viaggio, mi sa. Così è la siccità.»
Dunk era scosso. “Ecco fatto, addio refrigerio.” Volteggiò giù dalla sella. “E che fine faranno i raccolti?” Metà delle sorgenti dell’Altopiano erano asciutte. E anche tutti i grandi fiumi erano in magra, perfino le Acque Nere e il possente Mander.
«L’acqua? Roba fetente» disse Bennis. «Una volta l’ho bevuta: mi ha fatto stare male da cane. Meglio il vino.»
«Non solo l’avena, l’orzo, le carote, le cipolle o i cavoli. Perfino l’uva ha bisogno d’acqua.» Dunk scosse il capo. «Ma come ha fatto a prosciugarsi tanto in fretta? Siamo stati via solo sei giorni.»
«Di acqua non ce n’era poi molta, Dunk. Da com’era messo il torrente, ne pisciavo più io, d’acqua.»
«Non chiamarmi Dunk. Te l’ho già detto.» Si domandò per quale motivo continuasse a perdere tempo. Bennis era un uomo dalla lingua biforcuta, si divertiva a schernire. «Io sono chiamato ser Duncan l’Alto.»
«E da chi? Da quel tuo cucciolotto pelato?» Bennis gettò un’occhiata a Egg ed emise un’altra delle sue risate da pollo. «Certo, sei più alto di quando eri a Fondo delle Pulci, ma per me resti sempre Dunk.»
Dunk si passò una mano sulla nuca, fissando i sassi sul letto del torrente. «E adesso che cosa facciamo?»
«Raccogliamo qualche viticcio e diciamo a ser Inutile che il torrente è asciutto. Il pozzo a Standfast butta ancora qualcosa, il ser non soffrirà la sete, stanne certo.»
«Non chiamarlo Inutile.» Dunk voleva bene all’anziano cavaliere. «Dormi sotto il suo stesso tetto, per cui mostragli un po’ di rispetto.»
«Di rispetto io gliene mostro quanto basta e avanza, Dunk» rispose Bennis. «E lo chiamo come mi pare a me.»
Le assi di legno sbiadite scricchiolarono rumorosamente quando Dunk percorse il ponte a piedi, la fronte aggrottata mentre guardava la sabbia e le pietre più in basso. Tra i sassi brillavano pozze torbide, nessuna delle quali più ampia di una mano.
«Pesci morti. Lì e là. Vedete?»
Quel fetore gli fece tornare in mente il lezzo emanato dai cadaveri dentro la gabbia.
«Io li vedo, ser» disse Egg.
Dunk scese fino al letto in secca, s’accucciò sui talloni e rovesciò uno dei sassi. “Sopra è asciutto e caldo, sotto umido e fangoso.” «Il torrente non può essersi prosciugato da molto tempo.» Si raddrizzò. Raggiunse il muretto di pietre lungo la spon...