La fine del mondo arrivò alle 6.50.
Un rombo sordo e torvo rotolò lungo il quartiere, facendo tremare vetri e palazzi, spingendo immediatamente per strada gli abitanti.
Se l’aspettavano: la voce che il giorno del Giudizio fosse imminente circolava da tempo fra le vie e le piazze di Colle Oppio e si era gonfiata come un fiume in piena, passando dallo scetticismo delle prime ore alla paura delle ultime. Quel fragore minaccioso stava lì a testimoniarne la verità.
Erano tempi cupi in Italia: le aziende licenziavano, i minatori morivano e le Madonne piangevano.
Il commissario Antonelli era già nel suo ufficio quando il boato lo raggiunse e scaraventò i suoi quasi cento chili giù dalla sedia.
Ed era già pieno di malumore.
Gli era piombato addosso non appena aveva visto il titolo del “Messaggero”, Benito Lucidi ferito e catturato dopo una sparatoria davanti al Verano, che annunciava la fine della fuga del pericoloso bandito, a settanta giorni dalla sua clamorosa evasione.
Adesso capiva la telefonata che la mattina precedente gli aveva fatto il collega Troisi.
“Tengo una cosa grossa tra le mani. Una soffiata importante” gli aveva comunicato a bassa voce. Ma poi, alle sue domande pressanti, si era rifugiato in risposte sempre più vaghe.
Non correva buon sangue tra i due. Antonelli non aveva mai capito come il collega fosse riuscito a conquistarsi la fiducia del capo della squadra mobile, Alfredo Migliori, che lo portava in palmo di mano. Perché lui?, si domandava ogni volta che durante le riunioni sull’ordine pubblico Migliori lo prendeva a esempio.
Ci aveva ruminato per tutta la giornata, su quella telefonata, e non riuscendo a combinare nulla se n’era andato presto dall’ufficio, per tapparsi in casa.
Solo la mattina dopo, di nuovo al commissariato, aveva scoperto il clamoroso arresto. Oltre alla stima dei superiori il collega era riuscito a guadagnarsi la prima pagina dei giornali. Maledetto!
Ce l’aveva ancora in gola, quell’imprecazione, quando il boato lo investì. Le urla arrivarono subito dopo.
«Aiuto, aiuto, qualcuno mi aiuti!»
«Padre nostro che sei nei cieli.»
«Anna, Michele, dove siete? Micheleee!»
«Porca puttana, che cazzo è successo?»
«Signora, calmatevi. Un poco d’acqua e zucchero, presto!»
Le voci si accavallavano in un miscuglio di preghiere, imprecazioni e richieste di soccorso, come accade quando la gente è impaurita. Tutti si erano buttati giù dal letto senza preoccuparsi di afferrare qualche abito... non sarebbero certo serviti il giorno della fine del mondo. Vecchi pigiami, canottiere sdrucite, camicie da notte stinte, mutande lise, pantofole scalcagnate, calzini arrotolati, il quartiere mostrava la sua faccia più intima senza nemmeno un po’ di vergogna.
Sembravano più nudi così che senza vestiti, pensò il commissario affacciandosi all’unica finestra del suo ufficio. Poi si precipitò giù dalle scale: doveva calmare gli animi e tentare di bloccare quella voce, una vera stronzata, secondo lui. Erano giorni che canzonava la guardia scelta Marini, un omino segaligno tutto chiesa e questura, che invece ci credeva eccome.
Fu il primo che incontrò quando raggiunse il marciapiede.
La faccia del poliziotto era piena di paura, ma lo sguardo che gli rivolse tradì l’intima soddisfazione di un “Ve l’avevo detto” che non ebbe il coraggio di pronunciare.
L’espressione di quel viso irritò ancora di più l’anima già scura di Antonelli.
«Che è successo?» lo aggredì. «E non dire che è arrivato il giorno del Giudizio se no ti trovi al commissariato di Orgosolo in meno di un amen!»
«Non lo so, commissario» rispose Marini incerto. «Io ero già per strada a salutare un collega quando c’è stato il botto. Qui ha tremato tutto. Sembrava un’esplosione.»
Una bomba, ecco cos’è stato, pensò il commissario. Forse un ordigno di dieci anni prima ancora inesploso, oppure un attentato. Era questa l’ipotesi più probabile: un attentato comunista, nella città del Papa!
Antonelli iniziò a valutare la sua idea, ma la folla continuava ad aumentare, insieme alle urla e alle preghiere. Quella confusione gli impediva di ragionare.
Una vecchia sgranava il rosario. Ancora quella maledetta voce. Bisognava metterla a tacere una volta per tutte. Immediatamente.
«Basta, basta, state calmi!» urlò. «Non è successo niente. Si è trattato di una bombola del gas» annunciò inventando in fretta una spiegazione per levarseli dai piedi.
«Non è vero, è un messaggio della Madonna. Questo è un quartiere di peccatori.» La voce della vecchietta lo interruppe che non aveva nemmeno finito di dare corpo a quella versione dei fatti inventata lì per lì.
Il commissario la fulminò con uno sguardo. Forse era meglio andare per le spicce.
«Via, sgomberate. Altrimenti vi porto tutti in caserma e vi identifico come partecipanti a un’adunata sediziosa.»
Alla minaccia da poliziotto, articolo 655 del codice penale punibile fino a un anno di carcere, la gente iniziò a disperdersi. Anche la vecchia si allontanò, non prima di aver mormorato passandogli accanto: «Andrai all’inferno, ci penserà la Madonna».
La strada si svuotò in un attimo. Ora aveva tutto il tempo per pensare.
«Hai capito da che parte veniva il rumore?» chiese a Marini.
«Mi è sembrato da lì» rispose il poliziotto indicando la cima del colle.
«Bene, prendi la camionetta. Andiamo a vedere che Madonna è successo. Muoviti.»
Mentre si precipitava verso il garage, Marini si fece frettolosamente il segno della croce. Aveva ragione la vecchia: all’inferno sarebbe finito, quel commissario.
L’intero quartiere era deserto, e solo la sirena della vettura rompeva il silenzio, insieme ai colpi secchi delle finestre che si chiudevano all’arrivo della polizia.
La paura non era svanita, si era solo rintanata.
Il giorno del Giudizio non c’entrava. Il commissario ne era sicuro: nessun angelone era comparso dall’alto e nessuno squillo di tromba aveva annunciato la fine del mondo.
Eppure qualcosa di grave era successo: il rombo c’era stato, e i palazzi avevano tremato. Un attentato? Anche quell’ipotesi sembrava svanire nel silenzio delle strade: nessuna sirena, nessun lamento né urla a segnalare feriti, o peggio. Come se quel qualcosa volesse nascondersi, far finta che nulla fosse successo e nulla fosse da scoprire. Si stava comportando come l’evaso, che si era confuso in mezzo alla gente per giorni prima che una soffiata lo portasse allo scoperto. Ma il commissario Antonelli non si sarebbe fatto ingannare: il mistero che aveva riempito di paura il quartiere lui lo avrebbe risolto, e non ci avrebbe messo tutto il tempo che era servito a catturare Lucidi.
«Presto, fai presto!» urlava a Marini.
Percorsero a tutta velocità le strade in salita, la guardia scelta che spingeva a fondo l’acceleratore e il commissario aggrappato alla portiera per non essere scaraventato fuori.
Dopo una brusca sterzata a destra, la corsa finì di fronte a un edificio imponente.
«Credo che il rumore venisse da qui» disse Marini togliendo finalmente il piede dal pedale.
Davanti ai poliziotti uno scalone di marmo bianco conduceva a un atrio delimitato da quattro grandi archi sorretti da colonne di stile neoclassico. Al pianterreno si appoggiavano altri due piani, dove si affacciavano una serie di maestose finestre. Il grigio dell’austera facciata era rotto solo dal bianco dello scalone e delle colonne. Incuteva rispetto e timore.
«La facoltà di ingegneria» mormorò il commissario domandandosi cosa c’entrasse con la fine del mondo.
Stava cercando di mettere insieme le due cose quando intravide un giovane alto e magro, quasi piegato in due, che si muoveva lentamente sotto il portico. Il giovane aveva l’aria stralunata e non assomigliava neanche un po’ agli studenti ordinati che frequentavano quella facoltà: la camicia pendeva fuori dai pantaloni strappati, come gli occhiali sbilenchi sul naso, e aveva mani e pullover impolverati. Il ragazzo si aggirava incerto sotto il portico come se non sapesse cosa fare, sembrava cercasse qualcuno, indeciso se andare giù per la scalinata o tornare all’interno.
Forse era stato fortunato, pensò il commissario.
Ecco un pericoloso sospetto.
Magari l’attentatore comunista.
Fece i gradini a due a due.
«Non ti muovere, documenti!» gli gridò non appena lo ebbe raggiunto.
Il giovane, spaventato da quell’omone ansimante che gli urlava nelle orecchie, si voltò di scatto e provò a mettersi in salvo nell’atrio.
Ma il manganello della guardia scelta lo colpì in pieno sulla tempia a metà strada.
Stramazzò al suolo senza un lamento.
«Bravo Marini. Hai impedito la fuga di un pericoloso criminale. Lo citerò nel rapporto» esclamò Antonelli.
Un sorriso si allargò sulla faccia del poliziotto. Se il commissario lo metteva nel verbale forse ci scappava una gratifica, magari una promozione. La vecchia aveva torto: in paradiso sarebbe andato, il “signor” commissario.
«Perquisiscilo» lo esortò il superiore, «vedi se ha portafoglio e documenti. Sarà difficile, ma proviamo: questi sovversivi cercano sempre di nascondere la loro identità.»
Il portafoglio invece fu trovato subito, al solito posto: la tasca posteriore dei pantaloni.
Il poliziotto glielo consegnò e Antonelli lo esaminò rapidamente: qualche monetina da dieci e cinquanta lire, un pezzo di carta con dei calcoli che non gli dissero nulla, un abbonamento del tram, la tessera della FUCI e la carta di identità.
«Paolo Giuliani, nato a Roma nel 1932, residente in via dell’Imprecciato 273» recitò. «Uno degli studenti che giocano con il fuoco della rivoluzione.»
«Non è la tessera della Federazione universitaria cattolica?» chiese dubbioso Marini, perché nel quadro probatorio che stava delineando il commissario quella davvero non c’entrava.
«È un infiltrato, ecco che cos’è. Lo facciamo noi con i sindacati di sinistra, lo fanno loro con le organizzazioni cattoliche. Non c’è niente di strano» tagliò corto l’altro rimettendo a posto la tessera.
«E adesso che facciamo? Lo portiamo alla nostra stazione?» chiese la guardia scelta.
«Aspetta, prima cerchiamo di capire meglio.»
Il commissario quel corpo rannicchiato non voleva spostarlo.
Certamente c’era ancora in giro qualche giornalista a caccia di notizie sull’arresto dell’evaso. Certamente aveva sentito lo scoppio e certamente anche lui stava cercando di capire cos’era successo.
Forse ci scappava un’intervista. Se era fortunato in prima pagina.
Doveva guadagnare tempo.
«Guarda meglio nelle tasche. Vediamo se troviamo qualche indizio» ordinò.
Erano chini sul corpo del ragazzo quando una voce irritata interruppe la loro perquisizione.
«Cosa state facendo al ragazzo? Chi siete? Fermatevi subito, altrimenti chiamo la polizia!»
Le domande erano state fatte con il tono perentorio di chi è abituato al comando.
I poliziotti si tirarono su impacciati e sorpresi.
L’uomo che avevano davanti era sulla quarantina, con spalle larghe e fisico atletico, la fronte ampia e gli occhi neri, dietro spesse lenti con la montatura scura, che sembravano volerli trafiggere. Indossava un completo grigio e una cravatta scura sulla camicia immacolata.
«Veramente siamo noi, la polizia» rispose aggressivo Antonelli cercando di scrollarsi di dosso quell’ostacolo imprevisto tra lui e l’intervista.
Poi si qualificò: «Commissario Alberto Antonelli. Lei chi è?».
«Sono Luigi Broglio, insegno ingegneria aeronautica in questa facoltà. Ma non ha risposto alle mie domande» disse l’altro senza lasciarsi minimamente impressionare dal tono minaccioso.
«Ah, è un civile. Si levi di torno. Questo è un affare di nostra competenza» ribatté torvo Antonelli.
«Mi dispiace contraddirla» rispose con calma Broglio, «ma sono anche un colonnello dell’aeronautica militare» e sottolineò con un sorriso ironico quell’“anche” prima dei gradi. Marini si mise quasi sugli attenti e la mano tesa verso il berretto fu bloccata solo dallo sguardo truce del commissario.
«Sarà anche un militare, ma qui è esplosa una bomba. Tutto il quartiere l’ha sentita.» Antonelli esitò, non sapendo come chiamare quell’uomo che lo guardava impassibile, poi decise di sorvolare e andò dritto per ...