IL «MERAVIGLIOSO METAFORISTA»
DEBENEDETTI, CON FIGURE
Andrea Cortellessa
C’era una volta un artista molto arrabbiato che scribacchiava cose di ogni genere, e dopo la sua morte guardarono nei suoi quaderni e videro che in un posto aveva scritto: “I savi vedono i contorni e perciò li disegnano”, ma in un altro posto aveva scritto: “I pazzi vedono i contorni e perciò li disegnano”1.
Gregory Bateson
“Meraviglioso metaforista”: è la definizione che di Giacomo Debenedetti diede l’unico critico italiano che possa contendergli – oggi che è terminato il secolo dal quale entrambi ci hanno parlato – il soglio cui proprio lui l’aveva eletto, col breve epicedio pubblicato sull’“Approdo Letterario”, all’indomani della sua scomparsa: il soglio di “primo critico letterario italiano di questo secolo”. Parlo di Gianfranco Contini.
Una testimonianza senz’altro “generosa” – venendo dal principale concorrente, appunto, al prestigioso soglio – e forse anche “tardiva”, come ha scritto Mario Lavagetto2. Di questa tardività poche righe dopo Contini fa peraltro pubblica ammenda (quale mai fecero altri, a tanto tenuti assai più di lui): “Comunque sia, possedere un tale esemplare nel nostro erbario, e non accorgersene col debito rilievo proporzionale, non dirlo forte, è cosa di cui noi tutti letterati contemporanei dobbiamo rendere ammenda”3.
Certo, ci manca una lettura “continiana” dello stile di Debenedetti. Sullo “stile di pensiero” ha scritto cose penetranti, sempre, Alfonso Berardinelli; al quale dobbiamo, nella relazione ascoltata la prima mattina di questo convegno, anche un’approfondita analisi delle strategie retoriche debenedettiane, dominate da una specie di trascendentale deissi4. Mentre Giulio Ferroni, la stessa mattina, ha aggiunto considerazioni felici sullo “stile etico”, diciamo, ossia sulla prospettiva morale dalla quale Debenedetti leggeva e scriveva (una prospettiva, per Ferroni, laicamente escatologica).
Sulla sua metaforologia – aspetto talmente attraente, della sua scrittura, da essere scelto da un lettore come Contini quale emblema, insegna araldica quasi, del suo Debenedetti – ha poi detto cose interessanti Franco Brioschi, sempre la densissima mattinata di mercoledì. Dando per acquisito il suo discorso, avrò il vantaggio di risparmiare qualche preliminare. È pacifico, insomma, che il tratto formale più appariscente di questa scrittura critica sia la sua “elegante, rivelatrice e inesauribile immaginazione”5. E che a nutrire questa “meravigliosa” immaginazione siano assai di frequente metafore di tenore scientifico; in particolare, sottolineava Brioschi, provenienti dalla fisica. Non c’è bisogno che ricordi a questo consesso come nel Personaggio uomo la metaforologia microfisica venga contrappuntata, alla situazione letteraria da delineare, in maniera talmente stringente da farsi ben più che veste dell’argomentazione, ben più che qualcosa rispetto a essa “esterno” (e strumentale). È invece un sincretismo attivo: un congegno articolato e complesso che entra per intero al cuore del ragionamento. Sostanziandolo – meglio, consustanziandolo. Perfetto esempio, da un lato, di quella “strutturalità” dell’ornato acutamente sottolineata, qui, da Berardinelli; e, dall’altro, di come sempre, nella critica, valga il principio generale espresso proprio dal giovane Contini: “Dirò allora che lo stile mi sembra essere, senz’altro, il modo che un autore ha di conoscere le cose. Ogni problema poetico è un problema di conoscenza. Ogni posizione stilistica, o addirittura direi grammaticale, è una posizione gnoseologica”6. Lo stile di Debenedetti – in particolare il suo metaforismo – è precisamente uno strumento di conoscenza. Lo strumento di conoscenza, forse.
Brioschi ricordava gli studi matematici giovanili quale eziologia, lontana ma precisa, di questa predilezione debenedettiana7. La stessa circostanza ricordava sempre Contini nell’altro, e non altrettanto memorabile, suo scritto su Debenedetti, la recensione al corso su Verga e il naturalismo: “Forse solo gli amici sanno che Debenedetti proveniva da studi di matematica, che pure non lo abilitarono a esercitare formalismo critico”8. Una frase, quest’ultima (di un Contini forse – a dieci anni dal lutto – tornato agonista), di un’ambiguità, per una volta, non del tutto felice.
Certo non fu, Debenedetti, critico formalista: almeno nel senso che Contini poteva dare a questo termine. Però proprio quei remoti studi, e l’habitus metaforico che ne era derivato, lo avevano portato a formalizzazioni, del ragionamento critico, di impareggiata eleganza. L’eleganza – economia espositiva, nettezza di contorno – del diagramma, della sinossi: del teorema. (Si capisce benissimo, allora, l’interesse per certo scientismo appunto graficizzante – ricordato di recente in un’intervista da Cesare Segre – di Debenedetti, uomo per formazione, ma semplicemente per generazione, davvero agli antipodi dallo strutturalismo9: c’è una capacità di visualizzazione, nonché una fiducia epistemologica nelle virtù concettuali e retoriche della spazializzazione che, fra i grandi critici del Novecento, troviamo forse solo in Lotman.)
Un paio di immagini, quasi ai due capi della parabola di Debenedetti, fra le mille che si potrebbero addurre. La prima è in uno dei saggi giovanili per la gobettiana “Primo Tempo”, su Giovanni Boine (autore assai frequentato in gioventù e sul quale avrà modo di tornare, senza troppo calore però, nelle lezioni sul Romanzo del Novecento): “l’espressione, in Boine, sfuggendo proditoriamente ad una forza racchiusa che non riesce a permearla per intero, è come la tangente che, dipartendosi rapida dalla curva, può tuttavia essere volta ad individuarne l’immagine; quando altrui ponga mente, non più alla figura astratta delle singole rette, ma alla loro direzione. Vogliamo dire che le parole e i pensieri, in qualche modo, sono travolti a circoscrivere un mondo altro da quello che essi raffigurano”10. La seconda si legge nel corso su Pascoli (autenticamente gremito di metafore visive), ma riguarda in realtà Leopardi: “I matematici hanno l’espressione ‘luogo geometrico’ a indicare una figura, superficie o linea caratterizzata da certe proprietà. Dicono per esempio: il circolo è il luogo geometrico di tutti i punti equidistanti da un determinato punto: il centro. Quella donzelletta del Sabato leopardiano fissa qualche cosa di analogo a un luogo geometrico: determina un luogo lirico, il luogo lirico di quella situazione che il poeta svilupperà e canterà”11 (dove non sfuggirà in che modo raffinato l’estimatore di De Sanctis traduca nel linguaggio concettuale novecentesco il concetto, appunto desanctisiano, di situazione).
Ma la metafora visiva di Debenedetti che mi pare esemplare – forse perché in realtà catottrica, e dunque raddoppiata o meglio elevata a potenza, come del resto la scrittura che descrive – è quella del saggio del ’58 sull’Ottavio di Saint-Vincent di Landolfi, poi compreso in Intermezzo (Il “rouge et noir” di Landolfi, in Saggi, p. 1230): “Succede con Landolfi come a guardare la fotografia del signore, nella quale il signore tiene in mano una propria fotografia, e via di seguito, fino a un’ombra infinitesimale che sicuramente c’è, ma per vederla ci vuole il microscopio”. Debenedetti allude alla capacità stregonesca, di Landolfi, di sviare i propri interpreti dando loro sempre in pasto false piste, fuorvianti agnizioni intertestuali, eccetera. Per un lettore di Gide come Debenedetti, era evidentemente irresistibile impiegare la figura della mise en abyme, che proprio nei diari gidiani era venuta a memorabilmente codificarsi: ma è strepitosa la capacità di trascegliere tra mille proprio quella immagine. L’emblema che di Landolfi dice tutto.
Se uno scrittore è un campo di tensioni, un intrecciarsi incandescente di pulsioni divergenti se non contrapposte – e dio sa se è questo il caso di Landolfi, forse lo scrittore più complesso del Novecento – il compito del critico – pare di poter dire, osservando Debenedetti al lavoro – è dunque quello di tracciare un disegno, una sintesi grafica in grado di comporre quei vettori e di estrarne se possibile un vettore risultante: il “fermaglio” il chiudersi del quale produce quel riconoscibile schiocco, quella cadenza che segna la conclusione del saggio – in modo che, non si conoscesse l’understatement del personaggio, verrebbe da definire trionfale: come ricordava l’altro giorno Pedullà (parafrasando la conclusione del saggio debenedettiano su Una giornata di Pirandello) nel distinguere l’arte del Debenedetti saggista da quella del “narratore” dei grandi corsi pubblicati postumi.
La lezione alla lettera esemplare, di questo habitus – quella cioè da cui tutti noi abbiamo infinitamente da imparare –, è che esso serve a Debenedetti a definire in primo luogo quel campo di tensioni per definizione indefinibile, se mi si passa il bisticcio, che è se stesso. L’individuo davvero ineffabile. Il luogo è fra quelli in assoluto più celebri, dell’opera debenedettiana: alla cerniera tra la Prefazione 1949 e quella 1929 alla prima serie dei Saggi critici: posizione eminente che lo promuove a manifesto, quasi. Se è vero dunque che, come ognun sa, per Debenedetti “l’arte è sempre rivelazione di destino, valevole, nelle sue cifre luminose e oracolari, per tutto il succedersi delle generazioni”, e che dunque “al critico spetta di decifrare, al lume delle immagini di destino prevalenti nella propria età, l’oracolo perpetuamente inciso nell’arte” (Probabile autobiografia di una generazione, in Saggi, p. 123), acquisterà una valenza tanto più pregnante, nella prefazione di vent’anni prima, l’abbandono annunciato del titolo originario della raccolta, Fuga dalla Gioventù – rigettato come “epigrammatico” e in definitiva semplicisticamente, diciamo volgarmente autobiografico (“il tracciato di una marcia non è un disegnino sentimentale”) – e l’abbracciare un disegno a posteriori: “si vuol dire, insomma, che solo in un colpo d’occhio retrospettivo è permesso al critico riconoscere, sotto la trama logica dei propri discorsi un vivo grafico delle proprie avventure d’uomo” (Prefazione, in Saggi, pp. 125-126). Questo, arduo fra tutti gli oracoli, è insomma consultabile solo ex post: e l’unica autobiografia possibile – come quella “di una generazione” che seguirà, appunto, vent’anni dopo – sarà solo “probabile”. Proprio se stesso, lì, è paragonato a una “figura approssimativa, sfrangiata di gesso, che il geometra disegna sulla lavagna per dimostrare il teorema: il povero quadrato un po’ fortuito che per un attimo si trova a riassumere le proprietà di tutti i quadrati come lui e meglio riusciti di lui, a confessare che purtroppo non sono nati per risolvere la quadratura del circolo” (Probabile autobiografia di una generazione, in Saggi, p. 102).
Si capisce allora come l’esigenza di tracciare disegni per quanto possibile chiari, di enucleare profili non “sfrangiati”, si ammanti di un’urgenza che non è solo metodologica (o deontologica). Proprio a fronte di autori amati che non si può dire brillino proprio per definizione plastica, ma anzi che no peccanti di un quanto d’astrazione, Debenedetti esercita a volte una violenza interpretativa che faticheremmo a cercare altrove. Per esempio quando scrive il famoso saggio Sullo “stile” di Benedetto Croce insistendo sui “moti lirici e figurativi” coi quali si distingue il “ritmo ideale con cui il pensiero del Croce viene via via formulandosi ed esprimendosi” (Saggi, p. 132, corsivo mio). È un Croce un po’ fantastico quello del pensiero del quale si dice che è facile ritagliarne, nemmeno si stesse parlando proprio di De Sanctis!, “tipi che […] pare vogliano balzare dalla pagina e andarsene per il mondo”, con la loro “corposa figura” (Saggi, pp. 133-134; e bisognerebbe far attenzione a quanto in questo saggio ricorrano sintagmi quali, appunto, prendere figura, figurazioni emergenti, figure esemplari, ecc.).
Parimenti si coglie la forma mentis (mai l’espressione calzò meglio che nel contesto presente!) debenedettiana quando – per definire insieme il romanzo di Manzoni e il melodramma di Verdi, in un noto passaggio teorico della Verticale del ’37 – si elogiano “i più universali miti della passione, le figure chiare e precise in cui tutti potessero specchiarsi” (E parliamo del romanzo, in Saggi, p. 494, c. m.). E chissà che l’indulgenza del critico militante per Moravia non dipenda principalmente dall’avvertimento, peraltro difficilmente contestabile, delle “sue figure […] plastiche, palpabili, diremmo di averle incontrate per strada” (“L’imbroglio” di Moravia, in Saggi, p. 575); mentre sempre nella Verticale la lode a Massimo Bontempelli suona in toni che solo la riservatezza del personaggio vieta di considerare ampiamente autoriferiti: “riportare a dimensioni d’uomo, in forme e alfabeti accessibili all’uomo, un mondo che tale di sua natura non sarebbe […] Le cose che lui deve dire sono complicate, perché non si svolgono sul piano d’una normale umanità. E per dirle, le trasferisce in figure, o meglio in simboli dai connotati umani: e così trova quella maniera semplice, che tutti i suoi lettori riconoscono e godono. Per noi, anzi, il suo problema critico è tutto qui: stabilire rispettivamente la natura di quel complicato e di quel semplice, nonché i loro mutui rapporti” (“Gente” di Bontempelli, in Saggi, p. 550; il primo corsivo è mio).
Volendo parafrasare (e tradire) la celebre formula con la quale Pasolini ha sintetizzato il senso delle lezioni sulla Poesia italiana del Novecento (“Debenedetti interroga la letteratura e i suoi testi facendone un simulacro della realtà”)12, dunque, si dovrebbe sottolineare soprattutto, di quel termine “simulacro”, la valenza figurativa. Debenedetti ama gli autori che ritagliano nell’orizzonte dei possibili delle figure, dei simulacri contornati (e nei propri contorni apprezzabili): e anche lui, posto di fronte all’opera di quegli autori, si comporta nello stesso modo.
C’è un’altra pagina di Pasolini, assai meno nota di quella appena citata, che iscrive la figura di Debenedetti sotto una duplice insegna. Una dittologia – un ossimoro (ciò che non sorprende, ovviamente, in Pasolini). Debenedetti, allora, portavoce di una “crudezza d’indagine avanguardistica per intelle...