
- 352 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Nuovi Argomenti (10)
Informazioni su questo libro
Hanno collaborato: Enzo Siciliano, Dacia Maraini, Antonio Pascale, Massimiliano Capati, Andrea Salerno, Robert Dessaix, Beverley Farmer, Richard Flanagan, Frank Moorhouse, Barbara Mc Gilvray, Paolo Mauri, Silvio Perrella, Melania Mazzucco, Tarcisio Tarquini, Luigi Guarnieri, Mario Cifariello, Andrea Carraro, Antonio Pennacchi, Francesco Anzelmo, Edoardo Grandi, Luigi Ballerini, Maria Luisa Spaziani, Enzo Golino, Roberto Galaverni, Benedetta Centovalli, Jasmina Tesanovic, Carmine Abate, Pablo Echaurren, Attilio Scarpellini.
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Informazioni

UN PAESE NUOVO,
UNA TERRA ANTICA
Robert Dessaix
In un paese così vasto e giovane, in una terra così antica e ricca, i nostri sogni dovrebbero essere senza limitazioni, scatenati. O almeno è questo che uno sarebbe propenso a credere. Dovrebbero essere sogni selvaggi che galoppano senza briglie di antiche tradizioni e credenze.
In realtà non esiste un luogo chiamato Australia e quelli che pensano di viverci hanno difficoltà ad avere dei sogni propri.
L’Australia stessa in un certo senso è frutto di un sogno. È nata da un sogno. Secondo i greci doveva essere là per impedire che la terra, troppo pesante ad una estremità, si capovolgesse e finisse nel vuoto con una capriola. Circa duemila anni fa, ad Alessandria, Tolomeo immaginò una vasta e sconosciuta terra a Sud, una terra solcata da catene di montagne come contrappeso per tenerla diritta.
È cosa nota che nell’antichità gli Europei vagheggiavano favolose fantasie riguardo ai limiti della terra. E attraverso i secoli tesserono mirabili trame su ciò che c’era al di là delle colonne d’Ercole, oltre l’India e il Mar Nero o l’Etiopia. Luoghi in cui ai serpenti spuntavano ali, l’ebano cresceva sugli alberi, le pietre profumavano di incenso e avevano sapore di miele, formiche grosse come volpi scavavano oro e gli esseri umani erano mostri con un occhio solo, privi di narici e con orecchie pendenti fino al suolo. Ma queste, in un certo senso, erano trovate scherzose che contenevano sempre un elemento diretto a compiacere la folla – si pensi a come Erodoto, Strabone, Ctesias ce le presentano, per divertirci, una sorta di antico X Files. E tuttavia gli elementi di conoscenza che collegavano il Mediterraneo all’India, alla Cina, alla Siberia, o all’Africa occidentale – e con ogni probabilità anche alla Scandinavia – erano realistici. Una sottilissima traccia a volte, ma reale. Qualcuno aveva incontrato qualcuno che, a sua volta, aveva incontrato un altro che aveva incontrato chissà chi che aveva navigato sul Volga, o tessuto seta in Cina o veleggiato lungo le coste dell’Africa occidentale. L’Australia (per quel che ne sappiamo) era solo frutto dell’immaginazione.
È vero che i mercanti italiani in India o nel Vietnam ai tempi di Tolomeo potranno avere sentito delle dicerie, o dicerie di dicerie, riguardo all’esistenza di una grande terra a Sud, ed è possibile che abbiano poi sparso queste voci per le strade di Roma al loro ritorno in patria: ma non esiste prova di tutto ciò, nessunissima prova. Ovviamente un paio di giunche potranno aver dirottato verso sud, ed in qualche mercato in mezzo a palme da dattero un pescatore pieno di meraviglia potrà avere sparso voci sulle cose che aveva visto… E chi mai può immaginare quali storie siano state raccontate nell’aria profumata di spezie quando, duemila anni fa, i mercanti europei s’incontravano? Nessuno lo sa né può saperlo. Per quel che consta a noi, fino a non molto tempo fa, l’Australia esisteva solo nell’immaginazione della gente.
Persino sulle mappe dai colori delicati e asimmetriche, mappe fantastiche che tuttora risultano misteriose. Nel Medioevo le carte geografiche del mondo mostravano un quarto continente dai favolosi abitanti – grifoni lanosi, per esempio, e uomini che si riparavano dal torrido sole con i propri piedi giganteschi. Poi, poco più di quattrocento anni fa, i cartografi iniziarono a disegnare mappe (in rosa, marroncino e con un tocco di verde) che delineavano il contorno di un qualcosa che poi ha dimostrato essere al suo posto. Prima che qualcuno (per quanto ne sappiamo noi) venisse qui dall’esterno, quel “qualcosa” era già lì a prendere forma con le sue baie e i suoi promontori, fiumi e montagne, a Sud-Est di Giava. Non più una massa frastagliata, come l’aveva raffigurata Tolomeo. Questa terra del Sud si era spostata piuttosto repentinamente verso Nord (così com’è avvenuto di fatto geofisicamente), un pochino più sottomano, piazzandosi quasi tra i piedi dei marinai portoghesi e spagnoli che si aggiravano verso Nord nelle Isole delle Spezie.
Poi agli olandesi capitò d’imbattercisi, esattamente dove i cartografi francesi avevano previsto che sarebbe accaduto. Secondo alcuni, i portoghesi ci arrivarono per primi, ma ancora non possiamo esserne sicuri. E non è che la cosa abbia importanza. Quel che conta è che nel XVII secolo sulle carte geografiche le sue coste cominciarono a spostarsi un pochino verso Est, in un groviglio di dettagli verso il nulla, un nulla che andava riducendosi in attesa che quasi due secoli dopo gli inglesi arrivassero a riempire il vuoto. E allora che la terra Australis incognita divenne finalmente l’“Australia”.
Siamo dunque solo il frutto dell’immaginazione di qualche europeo? Certamente no, non è questo che intendo. Non c’è nulla di ectoplasmatico nella città che scorgo dalle mie finestre mentre sto scrivendo. E quando nel 1606 un abitante di questa terra trafisse a morte un olandese, durante il primo incontro a noi noto di un europeo con la terra del Sud, questo cacciatore certo non si sentiva frutto dell’immaginazione altrui. Né oserei sostenere che quell’olandese morente abbia potuto sentirsi colpito da un sogno.
Al tempo stesso, si ha la seducente illusione che fino a che i mondi di quei due esseri umani entrarono in collisione, le loro rispettive realtà non esistevano l’una per l’altra. Ed in un certo senso è tuttora così.
In effetti sembra che gli abitanti originari di questo continente non abbiano neanche immaginato un “fuori” a cui erano collegati. Le loro svariate storie sulla creazione del mondo sembrano essere concentrate sul “qui”, sulle azioni degli spiriti antenati nel paesaggio a loro noto, sulla natura sacra di questa terra, con poca curiosità per l’esistenza di un “altrove”. Nella lingua inglese, in maniera alquanto confusa, si usa il termine dreaming, sognare, non solo per identificare il momento creativo ma anche le storie stesse che nascono da quel momento, le leggi ed i sistemi simbolici derivabili da queste storie, alcune delle quali sono sacre e segrete, nonché le innumerevoli maniere in cui le varie genti aborigene interpretano il mondo. Ma la terra rappresentava davvero una presenza reale per questi abitanti originari in una maniera che il termine ’dreaming” rende confusa.
Naturalmente non è possibile sapere cosa pensasse l’uccisore di quell’olandese mentre scrutava l’orizzonte dal Golfo di Carpentaria. In pratica non so nulla del momento creativo – ancora dreaming – delle popolazioni che vivevano vicino al fiume Ducie a Cape York all’inizio del XVII secolo. Che si sia chiesto cosa si estendeva al di là dell’orizzonte, o addirittura che cosa fosse l’orizzonte stesso? Per quel che sappiamo della cosmogonia aborigena in generale, è poco probabile che quell’uomo si chiedesse cosa c’era al di là dell’orizzonte, almeno non nella maniera in cui poteva esserne curioso un guerriero scitico, per non parlare di Erodoto. E mi sembra ragionevole trarre questa conclusione.
Quando, per esempio, nel XIV secolo il re di Mali partì per la Mecca, può darsi che non fosse capace di indicare su una mappa il luogo in cui viveva: un secolo dopo, Henry the Navigator non doveva avere un’idea precisa di quanto vicino ai domini del re avesse navigato la sua flotta. Tuttavia il re di Mali almeno fu in grado di viaggiare attraverso il Sahara verso il Cairo e la Mecca seguendo un percorso prestabilito; e così fu in grado di incontrarsi laggiù con mussulmani dell’India, della Cina e (per quel che ne so io) delle Isole delle Spezie. Lui almeno era parte di un reticolo sghembo pieno di buchi ma pur sempre un reticolo. Fino a tempi più recenti su questa cartina topografica l’Australia non appariva affatto.
Un giorno, e nessuno sa esattamente quando, ma più o meno allo stesso tempo in cui l’olandese arrivato a bordo del Duyfken fu ucciso a Cape York nel 1606, un prau per la pesca del trepang proveniente dal Macassar approdò sulla costa settentrionale del continente del Sud. Tuttora posso ammirare nelle pitture su corteccia d’albero dai delicati particolari, quei praus che arrivavano da oltre l’orizzonte durante la stagione delle piogge. Così nei dipinti rupestri: il sartiame, le cime, le prue rivolte in avanti, le figure dei malesi tarchiati, è tutto lì. Durante la stagione delle piogge i malesi costruivano piccole abitazioni su palafitte di bambù, piantavano il riso, fumavano la pipa, recitavano preghiere mussulmane, insaporivano col tamarindo il cibo nelle pentole: le piantagioni di tamarindo cresciute dai loro semi sono ancora là. Gli aborigeni del luogo pescavano insieme ai nuovi venuti, li aiutavano a preparare il trapang nelle grosse pentole di metallo che quelli avevano portato con sé e a volte si spingevano veleggiando insieme fino al Macassar per darsi un’occhiata in giro. E così che il trepang arrivò fino alla Cina, apparendo nei trattati di medicina, e persino in alcuni poemi, prima ancora che il capitano Jansz sul Duyfken approdasse a Cape York.
Secondo alcuni non furono gli abitanti del Macassar i primi malesi a portare in Australia la novella di un mondo esterno: ci sono cicli di cantici che parlano del bianco riso che bolliva in pentole di terracotta fatte con la creta dei formicai da una misteriosa popolazione, i baiini, ancor prima dell’arrivo di quelli del Macassar. A quanto pare arrivarono famiglie intere, incluse le donne che tessevano sui telai stoffe istoriate di strani triangoli rossi, bianchi e ocra tuttora visibili nelle sculture di legno dell’Arnhem Land. Altri dicono che i baiini arrivarono addirittura al tempo della Creazione e s’incontrarono con i Grandi Antenati, Djankawu e Laindjung.
Olandesi o portoghesi, macassani o baiini, arabi di Zanzibar o cinesi… chi sa con precisione quando le due realtà si scontrarono? Quel che possiamo dire è che centinaia di anni fa due schemi di conoscenza vennero finalmente a contatto, dando modo di tracciare le coordinate di una terra che fu chiamata Australia.
È ovvio che qualcosa era stato qui tutto il tempo – una civiltà se così preferite. Ma se chi vive in questo paesaggio si sente “immaginato”, è chiaro che abbia voglia di raccontare agli altri che il modo in cui l’Australia era apparsa nell’oceano e sulle carte geografiche rappresentava la realizzazione di un sogno altrui – degli Spiriti degli Antenati, dei baiini, di Tolomeo, degli avventurieri olandesi, o poco importa di chi.
Ed il sogno non è ancora diventato realtà. In un certo senso non siamo ancora completamente svegli. Ormai è mattina, ma continuiamo assonnati a cercare di far coincidere il paesaggio notturno con quello davanti ai nostri occhi.
In un modo o nell’altro anche avendo studiato le mappe dell’Australia che mostrano il suo staccarsi dall’Antartide 53.000.000 di anni fa e il suo spostarsi verso nord, anche se ho camminato in mezzo agli alberi di banksia, stuzzicato le echidne e guardato frotte di canguri spostarsi veloci nel bush, anche se so che duemila generazioni di donne e uomini hanno vissuto e sono morte qui, lasciando tracce che possiamo datare, anche sapendo che questa terra è stata fotografata e misurata dai satelliti centinaia di volte; e anche se il mio passaporto mi registra come cittadino australiano… ebbene io ho ancora difficoltà a credere che un luogo chiamato Australia davvero esista.
I miei primi sogni, si dà il caso, riguardavano un au–delà, un oltre, un “dall’altra parte”, tanto fantastico quanto quello che gli europei si figuravano riguardo a noi. Non pensavo di essere qui davvero; mi pareva di essere solo come uno che si trovi a vagare per sbaglio dietro le quinte di un teatro e si senta sperduto in mezzo agli arredi scenici della commedia sbagliata.
Quand’ero piccolo, quaranta o cinquanta anni fa, la neve era la mia ossessione. Cosa significativa. Non il cricket, i trenini o le storie dei bushrangers o di intrepidi esploratori, ma la neve. Nella zona nord di Sydney, quella più vicina all’Harbour Bridge, tra umidi burroni densi di eucaliptus e di lussureggianti piante rampicanti – ma anche di giardini all’europea con rose, fior di pisello, gerani e margherite – me ne stavo seduto con in grembo libri della biblioteca pubblica del quartiere che parlavano di ghiacciai, di tormente e di valanghe, e ammiravo illustrazioni di igloo e di laghi gelati. Islanda e Groenlandia erano territori incantati e tanto agognati e fantasmagorici quanto la Terra Australis doveva esserlo un tempo per i navigatori europei. Mi ricordo che un giorno venni a sapere che il figlio di un nostro vicino era appena tornato dall’Islanda. Andai a bussare alla sua porta e lo guardai come se lui fosse stato nel paradiso terrestre. Doveva aver visto la neve! Doveva avere toccato la neve con le dita! Doveva avere provato la sensazione della neve! Era soffice e liscia come il gelato? Leggera? Ghiacciata? E quanto era profonda la neve in Islanda? Si accumulava fino alle grondaie?
Quello che Freud avrebbe detto di questa ossessione, posso immaginarmelo solo vagamente. Candore verginale, avvolgente, silenziosa, trasformazione ciclica….. che fossi affascinato dall’idea della morte e della resurrezione in un luogo reale? Quello che so è che la neve significava per me un “laggiù”, in un luogo molto più reale di quello dove mi trovavo. La neve copriva le torrette e le cupole di Londra, per esempio, la più solidamente reale di tutte le città della terra; spolverava di bianco le piazze e i viali di Parigi; in Germania si ammucchiava in grossi cumuli intorno ai campi di concentramento da cui i miei eroi di guerra erano evasi: tappezzava (in una parola) le valli e le montagne dove la Storia aveva avuto luogo. Napoleone si era trascinato barcollando nella neve da Mosca fino in patria, il Dalai Lama aveva guardato la neve dall’alto della sua finestra nel palazzo di Potala, il Far West era stato conquistato sullo sfondo entusiasmante di sierre nevose sullo schermo del cinema del quartiere. Quando io stesso da adolescente vidi finalmente la neve sugli altipiani australiani, mucchietti malridotti di neve tra i massi di granito, manti color malva sui pendii ombrosi, neve misera, quasi priva di vita, irreparabilmente sciolta, rimasi deluso. Mi aspettavo qualcosa di più… Cosa? Non avrei saputo dirlo.
Quaranta o cinquanta anni fa penso che tutti i miei sogni fossero collegati ad un “altrove” (l’Europa e l’America) e ad un tempo anteriore. A prescindere da altre considerazioni il luogo in cui mi trovavo era privo di quel che io definisco “glamour”. È proprio questo fascino che non trovavamo nelle nostre comode vie fiancheggiate di villette a un piano con giardini –, ed è per questo che rientrava nelle nostre fantasie specialmente da ragazzi. O almeno penso che così fosse per me. Glamour è un termine inglese difficile da tradurre.
Per avere glamour bisogna essere à la mode con le persone che contano, inutile dirlo. (Ma nessuno “contava” qui nella stessa maniera in cui “contava” là). Certo, la bellezza fisica naturalmente è un vantaggio come la ricchezza, entrambe infatti provocano ammirazione e sono indizio di potere. Ma la moda, la bellezza, la ricchezza e la rilevanza non sono l’elemento decisivo: per avere glamour occorre far parte di un certo tipo di spettacolo, bisogna farsi vedere con altri simili a te, lussuosamente vestiti, per l’applauso della folla. La tua rilevanza deriva da questo applauso e non da quello che fai o dici. Ma il nostro pubblico era assai scarso, e di gusti così provinciali che aspirare al suo applauso non valeva la pena. Qui non c’era nessuno d’importante a guardarti. La vita (in un’atmosfera tipicamente post-coloniale) era priva di avvenimenti significativi.
Ancora oggi ciò che ha glamour ha origine in gran parte all’estero, dove succedono le cose rilevanti. Per riscuotere applausi si sente tuttora la gente che menziona qualche “spettacolo” a cui ha preso parte altrove: a Londra, all’Università di Harvard, alla televisione francese, in qualsiasi posto che non sia qui. È soltanto sul fronte dello sport che il nostro spettacolo ci appare valido, quindi la prospettiva delle Olimpiadi, uno spettacolo veramente nostro di fronte agli occhi del mondo, ci riempie di orgoglio e di entusiasmo.
Poco sportivo o incline a seguirne l’etica, io mi inventai invece uno spettacolo tutto mio. Ero ancora molto piccolo quando mi creai una terra in cui dimorare per qualche ora al giorno. Non era in un passato storico o in un futuro fantascientifico, era uno spazio mentale completamente diverso, una specie di universo parallelo. Seduto nella veranda che si trovava nella parte posteriore della casa (ci passavamo metà della nostra vita in quella veranda), nel guardare il verde del giardino dietro alla casa – il prato che si stendeva fino a un piccolo burrone denso di vegetazione boscosa, vuoto da guardare ma pieno di suoni – cominciai a costruirmi un regno mentale, un regno su un’isola, a Nord (naturalmente), dove potevo far succedere cose, cose importanti, un luogo in cui potevo far nascere una storia, con sovrani battaglie e rivoluzioni, dove c’erano belle città, montagne straordinariamente alte, mentre ogni cosa trasudava il significato che io stesso le attribuivo. Inventai perfino un linguaggio complesso, altamente espressivo per questo regno, un linguaggio che si è espanso negli anni e che ancora parlo (ma solo con me stesso). Potrei descrivervi le riviste appese nell’edicola alla stazione della capitale di quel regno, l’orario del traghetto in una delle sue lagune, il menù del caffè in un luogo di villeggiatura in montagna dove vado spesso, o i fiori dell’orto botanico. E la storia politica della mia terra è altrettanto affascinante: tutte le grandi battaglie tra il paradiso del totalitarismo e la democrazia liberale sono state drammaticamente combattute sul suo territorio.
Forse quello che ho cercato d’inventare è un senso della Storia. Qualsiasi bambino lasciato solo a lungo (specialmente nei caldi pomeriggi dopo le ore di scuola, tra strade tranquille serpeggianti in mezzo a tratti di boscaglia) deve rendersi conto di trovarsi al punto in cui un voluminoso passato viene miracolosamente infilato attraverso la cruna del momento presente, dove vaste spire di storia e di favola vengono compattate in un microscopico punto ad alimentare l’istante che sei tu. Ma questo è solo il passato, non è Storia. E così creai per me stesso fantasie solipsistiche di una Storia che mi rendesse reale. Suppongo che la mia terra immaginata continuerà ad esistere vividamente nella mia mente fino a quando l’Australia stessa diventerà reale.
Nel frattempo io penso di vivere agli antipodi piuttosto che in un dove che si chiama Australia. Dopo tutto gli ...
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