Nuovi Argomenti (3)
eBook - ePub

Nuovi Argomenti (3)

  1. 352 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Nuovi Argomenti (3)

Informazioni su questo libro

Hanno collaborato: Enzo Siciliano, Francesca Sanvitale, Lucia Annunziata, Emanuele Trevi, Arnaldo Colasanti, Fabio Benzi, Giuliano Amato, Massimiliano Capati, Miriam Mafai, Andrea Salerno, Giuseppe Vacca, Giorgio Amitrano, Luca Canali, Michele Mari, Simon Armitage, Tommaso Giartosio, Camillo Pennati, Fabrizio Bagatti, Paola Santini, Giovanni Bianconi, Vincenzo Pardini, Raffaele Manica, Giorgio van Straten, Francesco Biamonti, Marco Edoardo Debenedetti, Attilio Scarpellini, Milo De Angelis, Lucia Antonelli, Romana Petri, Flavio De Bernardinis.

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Informazioni

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POESIA



Giorgio Amitrano

Alcuni mesi prima Giuliano aveva inviato un plico contenente una scelta delle sue poesie a Ettore Bardi, letterato e critico per il quale provava una grande ammirazione. Nel momento stesso in cui, col fiato sospeso, lo aveva consegnato all’impiegata dell’ufficio postale e lo aveva visto sparire in un grande contenitore in mezzo a tante altre buste, la speranza che lo aveva sostenuto fino ad allora gli era apparsa di colpo in tutta la sua fragilità. Per la prima volta da molti giorni gli era sembrato di riaversi da un sogno. Come aveva potuto pensare che Bardi gli avrebbe risposto? Non solo non si sarebbe preso un disturbo simile per uno sconosciuto, ma appena avesse visto che si trattava di poesie le avrebbe buttate nel cestino con un moto di raccapriccio. Chissà quanti manoscritti brutti e inutili gli arrivavano ogni giorno.
Ora che apriva gli occhi su ciò che aveva fatto, Giuliano provava vergogna. Era inutile ripetersi che non aveva niente da perdere, che tanto Bardi non lo conosceva nemmeno. Molto presto l’avrebbe conosciuto, anche se solo per cestinarlo in tutta fretta. Rendendosi visibile, dichiarando la propria esistenza, si era esposto con le proprie mani al più bruciante disonore.
Ma i mesi passarono senza che la risposta arrivasse, e quel senso di vergogna poco a poco si affievolì. Intanto il paesaggio davanti alla finestra di Giuliano mutava, e ogni giorno che veniva portava nuove poesie. Le luci, gli odori, i suoni, che cambiavano con le ore e con i giorni, invadevano la stanza e aprendosi un passaggio nei suoi occhi si spandevano nell’immaginazione come un colore che stinge. Poi, come la linfa che attraverso i sottili canali di una pianta arriva alle foglie, gli si insinuavano nei nervi fino a raggiungere la punta delle dita e a muovere la penna stilografica, da cui l’inchiostro scorreva tracciando sul foglio segni dai connotati timidi e spavaldi di poesia.
In quei mesi di attesa la speranza che durante i giorni trascorsi a mettere insieme il manoscritto aveva trionfato sul pessimismo, piano piano sbiadì sempre più fino a perdere completamente forma e colore e confondersi con la quotidiana routine. Ma al grigiore di questa realtà si sovrapponeva una pioggia iridescente di nuove poesie. I versi sembravano nascere da una fonte sconosciuta del suo essere, una vertigine che si apriva in lui in un punto imprecisato ma forse più vicino al sesso che al cuore. E a volte, scrivendo, la mano di Giuliano lasciava cadere la penna per cercare il corpo, che diventava desiderabile come se fosse stato il corpo di un altro. In quei momenti, invece di parole, sui suoi tanti fogli sparsi sul letto schizzava una miriade di gocce lattescenti. Una galassia di punti bianchi e luminosi che sfumava in un azzurro notturno l’inchiostro nero dei suoi versi.
Nel frattempo alcune cose nella vita di Giuliano erano cambiate. Gli studi avevano cominciato a impegnarlo sempre di più – stava scrivendo la tesi di laurea su Rimbaud – e poi, soprattutto, aveva perso la verginità. In seguito a questo evento per qualche tempo si era sentito di colpo più uomo e meno incline ai sogni. Così tra una cosa e l’altra aveva finito col dimenticarsi del plico in cui aveva riposto tante aspettative, e senza accorgersene aveva smesso di guardare ogni giorno la cassetta della posta.
Passò così ancora qualche mese, poi un giorno trovò una busta con una scrittura che non conosceva. Guardò il retro: c’erano, scritti a mano, il nome e l’indirizzo di Bardi. Il suo corpo fu attraversato da una scossa. Ma non voleva strappare in modo disordinato quella busta preziosa: salì svelto le scale (le gambe più calme, il cuore precipitoso), entrò in casa, richiuse la porta, prese il tagliacarte, si sedette, tagliò con gesti precisi la carta e lesse.
Caro Giuliano Dell’Angelo,
ho esitato a lungo prima di risponderle perché volevo chiarire a me stesso cosa sono queste sue poesie. Non credo di essere la persona più adatta a esprimersi su un argomento del genere. Alla poesia ho dedicato alcuni libri che lei ha avuto la benevolenza di apprezzare, e di questo la ringrazio. Ma non credo che questo mi trasformi in un esperto in materia. Tanta parte della poesia, soprattutto contemporanea, mi rimane estranea e quindi il più delle volte preferisco non entrare nel merito. Sarà perché, come di recente ha scritto qualcuno, sono «rimasto al Petrarca».
Detto questo, siccome lei il suo giudizio lo vuole, anzi, dietro la discrezione della sua garbata richiesta, lo pretende, io non glielo negherò: nelle sue poesie si avverte un certo talento, anche se ancora un po’ informe e troppo innamorato di Rimbaud. Si sente soprattutto una grande sensibilità, e di questo non so se rallegrarmi con lei o compiangerla. In ogni caso credo che lei debba continuare a scrivere. Di più non saprei dirle. Si faccia ancora vivo, e magari venga a trovarmi se passa da queste parti. Mi farà piacere. Le auguro buonissime cose, suo
Ettore Bardi
Giuliano fu infinitamente emozionato e turbato dalla lettera. La lesse e la rilesse. La posò, andò a guardarsi allo specchio, tornò in cucina, la lesse di nuovo, sentì il bisogno di un caffè, lo preparò, aspettando che fosse pronto la rilesse, bevve il caffè, poi la riprese per vedere che effetto faceva dopo il caffè, andò alla finestra, guardò la strada, le macchine che passavano, il cielo, tornò dentro, provò a vedere cosa si provava a non rileggerla per un po’. Si sentiva ebbro di piacere, di orgoglio.
Ma quando più tardi, smaltita l’ubriacatura, provò a riflettere, le cose gli apparvero diversamente. Avere ricevuto una risposta tutto sommato positiva da Bardi era un miracolo, certo, ma in fondo che cosa diceva? Non dichiarava in modo esplicito che le sue poesie gli erano piaciute. Riconosceva il suo talento, è vero, ma solo «un certo talento», e parlava di «una grande sensibilità», come avevano sempre fatto i professori a scuola, continuando però a dargli gli stessi voti mediocri... E poi diceva che era troppo innamorato di Rimbaud. I giovani lo erano tutti, Giuliano lo sapeva, soprattutto quelli che scrivevano le poesie peggiori.
Qualche giorno più tardi il ragazzo rispose alla lettera ringraziando il maestro per la sua gentilezza. Trovò anche il coraggio di chiedergli un appuntamento. Questa volta la risposta fu più sollecita. Non erano passate neanche due settimane che un mattino squillò il telefono. Giuliano stava dormendo. Riconobbe attraverso il sonno la voce, anche se l’aveva sentita solo alla radio. Era così strano che entrasse nella sua casa e si rivolgesse proprio a lui! E poi disse il suo nome. Disse semplicemente: Sono Ettore Bardi. Subito Giuliano si vergognò di essere stato colto nel sonno e cercò di improvvisare una voce squillante. Ma non ebbe quasi il tempo di articolare due frasi che l’appuntamento venne accordato, il luogo e la data stabiliti, e lui si ritrovò a fissare il telefono dopo che Bardi aveva riagganciato.
Il giorno dell’incontro Giuliano dovette svegliarsi alle cinque. Si lavò, indossò in fretta gli abiti che aveva preparato la notte prima e corse alla stazione. Il treno era vuoto. Ebbe uno scompartimento tutto per sé, così poté togliersi le scarpe e dormire. Tra sogni a occhi aperti e sogni a occhi chiusi, dopo qualche ora il treno giunse a destinazione. Dalla stazione di * doveva prendere una corriera che lo avrebbe lasciato alla piazza di ** e da lì avrebbe raggiunto a piedi la villa.
Seguì le istruzioni passo passo ma nell’ultima parte del viaggio camminò troppo in fretta sulla strada in salita, così quando si trovò davanti al cancello era ansimante, e il cuore gli batteva talmente forte che non ebbe il tempo di riordinare le emozioni. Suonò un citofono. Il cancello coperto di rampicanti si aprì e Giuliano si trovò dentro un grande giardino, bello e curato. C’erano diverse costruzioni e non sapeva bene dove andare, quando Bardi si materializzò di colpo davanti a lui, alto, sorridente, capelli bianchi e sopracciglia nere, e gli tese la mano con un gran sorriso. Per la timidezza e l’emozione Giuliano non riuscì nemmeno ad articolare bene le parole, ma l’altro non sembrò accorgersene. Cominciò a parlare per entrambi, mentre lo guidava attraverso il giardino. Gli mostrò le piante più antiche, gli edifici dove si trovavano le stalle e il frantoio. Dappertutto regnava un silenzio profondo, atavico. Giuliano pensò che in un posto del genere avrebbe scritto centinaia, migliaia di poesie.
Poi Bardi lo portò in casa, e attraversarono insieme grandi stanze, che si aprivano l’una nell’altra. C’erano libri dappertutto. Ce n’erano davvero tanti: ordinati negli scaffali ma anche lasciati aperti su tavoli e poltrone, come cani fedeli in attesa che tornasse il padrone. Si capiva che i libri erano in quella casa qualcosa di vivo, e sostituivano con efficacia la presenza delle persone. Era una strana casa, fin troppo vissuta (sembrava di sentire i passi di diverse generazioni di figli e figlie, di madri, nonne, balie, chissà perché meno di padri e nonni), eppure suggeriva una sensazione di solitudine, come se il calore introdotto tra quelle pareti dal passaggio di tante persone non si fosse accumulato col tempo e avesse finito col disperdersi.
Si sedettero in giardino, il maestro chiamò ad alta voce un nome che Giuliano non capì e un attimo dopo giunse una signora robusta di una certa età, dall’aria battagliera. Il ragazzo la salutò con un cenno del capo, intimidito. Bardi ordinò il caffè per entrambi. A lui il caffè faceva male – soffriva di colite – ma non se la sentì di rifiutare. Quando la donna si fu allontanata, Bardi disse sospirando. «È con noi da tanti anni, poverina, bisogna avere pazienza». Lui avrebbe voluto sapere cosa significasse quel «noi» – credeva che il maestro vivesse da solo – e perché l’aveva chiamata «poverina», con quell’aria da badessa autoritaria, ma non potendo chiedere due cose allo stesso tempo, ancora una volta restò zitto e aspettò. Bardi riprese a parlare, e senza farsi pregare cominciò a raccontargli del proprio lavoro, di un articolo che stava scrivendo in quel momento e che gli dava molti problemi. Ne discusse con Giuliano come da pari a pari, e lui ne fu oltremodo lusingato, ma neanche questo riuscì a metterlo a suo agio. Dopo un po’ la Neva – scoprì che così si chiamava la donna, – tornò coi caffè su un grande vassoio d’argento. Anche i cucchiaini erano d’argento, ma un po’ anneriti. Qualche minuto dopo aver bevuto il caffè, Giuliano sentì qualcosa agitarsi nella sua pancia e l’esperienza gli fece riconoscere un segnale d’allarme: nel giro di pochi minuti avrebbe avuto bisogno del bagno.
Il maestro aveva cominciato frattanto a interrogarlo: non sulle poesie o gli studi bensì sulla sua famiglia. Cominciò col chiedergli se il padre era morto. «No,» rispose sorpreso Giuliano. Bardi sembrò contrariato. «I suoi sono separati?» Insisté. A Giuliano dispiaceva deluderlo ma dovette dire la verità: i genitori erano entrambi vivi, sposati da trent’anni e in buona salute. Volle sapere allora cosa facesse il padre, dove avevano vissuto, di dove erano originari e tante altre cose. Giuliano, che come tutti i giovani si vergognava un po’ della propria famiglia, rispondeva a monosillabi, ma il maestro sembrava gradire lo stesso la sua compagnia. Tuttavia, quando il suo silenzio cominciò a farsi prolungato, Bardi se ne accorse e disse: «Ma io la sto stancando, si vuol riposare?»
Era il momento adatto. Giuliano si fece coraggio e disse:
«No, non sono affatto stanco ma... se possibile vorrei andare un attimo in bagno».
«Ma certo, certo. Avrei dovuto chiederglielo io, dopo un viaggio così lungo. Venga, mi segua».
Il maestro si alzò e con passi energici gli fece strada dentro casa. Salì una scala. Il ragazzo lo seguiva.
È possibile che ogni volta per andare in bagno si debba fare tanta strada? pensò Giuliano che aveva fretta di raggiungere il gabinetto.
Bardi si fermò davanti a una porta.
«Ecco, dentro troverà degli asciugamani puliti. Io la aspetterò giù. Faccia con comodo. Saprà ritrovare la strada?»
«Sì, certo, grazie,» disse frettolosamente Giuliano ed entrò, richiudendo dietro di sé la porta. Corse verso il gabinetto, si tirò freneticamente giù i pantaloni e non fece nemmeno in tempo a sedersi che fu colto da una scarica di diarrea. La pancia gli doleva, ma pregustava il senso di liberazione che sarebbe seguito. Era già da un po’ che continuava quella tortura. Seduto sulla tazza, tra una scarica e l’altra si guardò intorno. Il bagno era «signorile» come il resto della casa ma sembrava inutilizzato da anni. Su un tavolino da toeletta notò dei cosmetici che sembravano risalire ad anni prima, un pennello da barba dalle setole ingiallite, un giallo Mondadori dal prezzo di centocinquanta lire. Gli asciugamani puliti di cui aveva parlato Bardi non si vedevano. Giuliano chiuse gli occhi, sentendo di colpo una gran stanchezza. Quegli attacchi di diarrea che lo affliggevano nei momenti di tensione nervosa o quando prendeva il caffè, lo lasciavano sempre spossato.
Dopo qualche minuto capì che era passato. Con un sospiro di sollievo si alzò e cercò la carta igienica, ma non la trovò. Si...

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