Settembre 2011
Khalil mi ha picchiata. Sto sanguinando!
Nessuno lo aveva mai fatto. Una volta, a Praga, da piccola, mentre tornavo da scuola all’improvviso un gruppo di ragazzini di strada cechi sbucò da un vicolo bersagliandomi con una scarica di palle di neve. Una mi colpì talmente forte da accecarmi un occhio, che mi lacrimò per giorni e giorni. Per il resto, non ho mai subito un affronto fisico come quello che mi ha appena inferto Khalil. Sono abituata a prove di forza, ma nell’ambiente da cui provengo siamo troppo civilizzati per ricorrere alla violenza fisica. Forse per questo il colpo mi ha intimidito al punto che devo morsicarmi il labbro per evitare di scoppiare in un gran pianto. È la brutalità nuda e cruda, il regolamento di conti spiccio che mi spaventa.
«Sei pronta a scrivere?» mi domanda Khalil in un delicato sottovoce, che mi spinge ancora più sull’orlo delle lacrime, perché all’improvviso sembra affabile, compassionevole nei miei confronti. Credo sia un classico, la vittima che si lega al carnefice. Mi faccio forza, non posso permettermi di lasciarmi demolire così in fretta. Non ho idea di che ore siano, do le spalle all’orologio da parete, ma a occhio e croce direi che siamo qui da meno di sessanta minuti. Forse solo da trenta. Forse solo da quindici.
«Se vuoi che scriva mi devi togliere le fascette» dico con calma forzata e il collo piegato all’indietro per fermare l’emorragia. Non credo che il naso sia rotto. Ho solo i capillari fragili, da piccola mi usciva spesso il sangue dal naso. Se mi succedeva di notte, andavo sempre a svegliare papà e lui mi aiutava con batuffoli di cotone e un panno umido da mettere sul dorso del naso. Se lui era in viaggio, lo facevo da sola.
Khalil mi soppesa con lo sguardo, ed evidentemente giunge alla conclusione che il rischio che io possa sopraffarlo con le mani libere è minimo. Ha il coltello e inoltre può far esplodere la bomba in una frazione di secondo. Me lo fa notare implicitamente.
«Lo sai cosa succede se fai qualche stupidaggine.»
Si batte la tasca in cui tiene il cellulare.
«Non farò nessuna stupidaggine» rispondo sentendo un sapore ferroso in bocca quando mi lecco rapidamente il labbro.
Lui esita un attimo, poi si mette dietro di me e mi toglie le fascette.
«Grazie» gli dico strofinandomi i pollici sulla pelle delicata dei polsi per alleviare il dolore nel punto in cui le fascette hanno lasciato dei segni arrossati. Vedersi restituire l’uso delle mani è come emergere da una segreta e rivedere il cielo infinito. Il mio corpo pulsa di energia, mi torna la voglia di vivere. Con rinnovata fiducia penso a Sophie, che spero si sia addormentata, perché dal bagno continua a non arrivare alcun rumore. Spero che dorma e non senta questo dramma, che si svegli solo quando sarà tutto passato. Come Robinson Crusoe sulla spiaggia, scruto l’orizzonte alla ricerca di una nave di salvataggio, prima o poi qualcuno dovrà pur venire in nostro soccorso. Allora mi viene in mente lui, la guardia giurata! Ogni notte fa il giro del teatro dell’Opera deserto, e a un certo punto verrà quassù. Ancora non lo sa ma sarà lui a salvarci. Fino ad allora dovrò temporeggiare, è l’unica strategia possibile.
Dentro di sé Sophie non ha mai smesso di credere che Helena fosse sparita per colpa sua. Se lei non avesse scarabocchiato con il pennarello la partitura della madre, rovinando le sue annotazioni, sarebbe rimasta con lei e Martin nella casa di Willemoesgade. Se lei non fosse stata disobbediente, Helena non sarebbe partita con due valigie molto più grandi di quelle che portava di solito quando aveva un impegno all’estero. Il rapporto di causa ed effetto era sempre stato palese: Sophie aveva rovinato una cosa importante per la madre, e la madre si era messa a urlare e l’aveva afferrata con forza per il braccio, poi era partita e non era mai più tornata. Per molto tempo, di ritorno dall’asilo, si era seduta nell’ingresso aspettando ostinata che la madre entrasse dalla porta e con una risata scuotesse il sacchetto dell’aeroporto, che era sempre pieno di dolciumi. Sophie l’aveva aspettata ogni giorno per diverse settimane, lei non era tornata. E alla fine Martin era venuto e le aveva detto che avrebbero divorziato. “Ci siamo allontanati” aveva detto, e Sophie non ci aveva capito niente. Infatti, come potevano “allontanarsi” se abitavano nella stessa casa? Sophie sarebbe rimasta con lui e nei weekend avrebbe preso l’aereo per andare a trovare la madre. “È meglio così, no? In questo modo potrai continuare a frequentare lo stesso asilo.” Ma lei aveva capito immediatamente che la madre non la voleva, l’aveva scartata come un giocattolo che le era venuto a noia. Poco dopo Martin aveva trovato un’altra fidanzata, che ben presto era venuta a vivere con loro e dormiva nel lettone dalla parte di Helena. Sophie la odiava tanto che le aveva tagliuzzato la camicia da notte color crema. Allora Martin era andato su tutte le furie e Sophie si era fatta la pipì addosso per la paura che lui la cacciasse di casa e la mandasse in un istituto. Se lo avesse fatto, lei si sarebbe ritrovata completamente sola al mondo.
«Forza, scrivi!» dice Khalil gettandomi in grembo penna e taccuino. Ha un neo sul bordo di una palpebra.
«Ho bisogno degli occhiali. Sono nella borsa» dico.
Spazientito fruga nella mia borsa e trova l’astuccio. Per non correre rischi, tira fuori personalmente gli occhiali dalla tasca e me li porge con il braccio teso come se dovesse dare da mangiare a una cavalla mordace.
Apro pian piano le stanghette e inforco gli occhiali. Fisso la carta bianca del taccuino. Nonostante la correzione delle lenti mi si annebbia la vista, mi sembra di essere in mezzo a una tempesta di sabbia, ma poi afferro la penna, e stringendola in mano mi sembra di avere un bastone cui appoggiarmi, per potermi tenere eretta mentalmente. Perciò, mentre fisso il foglio bianco sotto gli occhi di uno jihadista esaltato, continuo a pensare alla guardia notturna. Arrivo alla conclusione che da fuori deve aver già notato le mie finestre illuminate. Senza dubbio si stupirà delle luci accese a quest’ora di notte e che, diversamente dal solito, le tende sono accostate. Magari è abbastanza sveglio da chiamare la polizia. O forse la polizia è già stata avvertita, perché finalmente i servizi segreti sono riusciti a stabilire un contatto. Hanno avuto una dritta, la CIA è riuscita a suon di botte a far cantare un detenuto, oppure qualcuno al corrente d’informazioni riservate in Danimarca mi ha visto al telegiornale di questa sera, in un servizio sulla premiazione, e dopo molti travagli si è rivolto alla polizia informandola dell’azione imminente. Non è un’idea inverosimile. Khalil può aver parlato troppo, essersi vantato del suo piano di far fuori la direttrice dell’Opera di Berlino, che è danese, e perciò un trofeo quasi altrettanto ambito del vignettista ormai inaccessibile. L’informazione ha innescato un’attività febbrile, le truppe speciali dell’antiterrorismo sono già sul posto, l’edificio è circondato, forse irromperanno dalla porta armate fino ai denti e con i mitra spianati. Sanno che devono neutralizzare Khalil immediatamente, prima che possa premere il tasto del cellulare e far esplodere la bomba? Ha detto trenta secondi? Riusciremmo a metterci al sicuro in trenta secondi? Sophie no, perché dovrebbe prima uscire dal bagno. La prospettiva che Sophie potrebbe essere abbandonata al suo destino durante il blitz, per quanto teorica, mi manda in iperventilazione. La mia fantasia troppo fervida non ha problemi a evocare immagini di mia figlia fatta a pezzi dall’esplosione.
«Che c’è?» mi domanda Khalil aggrottando la fronte.
Con il fiato sospeso lo guardo negli occhi.
«Sono disposta a scrivere la lettera di scuse a patto che tu faccia uscire Sophie dal bagno. La voglio qui. Altrimenti non scrivo nemmeno una riga.»
Furioso, Khalil fa per colpirmi ma stavolta sono preparata e mi chino. Come un tiratore di pallamano che rinuncia a un tiro, lui riabbassa inaspettatamente il palmo.
«Scordatelo» si limita a rispondere.
«Allora non scrivo niente» ribatto sentendomi finalmente rinfrancata. Adesso possiedo un oggetto di scambio, mi sono procurata un’arma.
Ma lui capisce al volo, e indica la bomba con gesto plateale.
«Non sei tu ad avere la bomba.»
«No, ma...»
«Mi dici chi credi di essere?» mi chiede Khalil, appoggiandosi di nuovo alla scrivania. Con la punta delle scarpe lucide scansa distrattamente qualche vetro del vaso. Stringe il coltello, si passa la lama sul dorso della mano come per controllare se è affilata.
Una cosiddetta bella domanda, cui non riesco a rispondere sotto il suo sguardo indagatore.
«E tu, chi sei, Khalil?» cerco di svicolare. Ma lui non abbocca.
Scuote la testa con aria di superiorità.
«Io so tutto di te, Helena.»
«Stai bluffando.»
Lui fa spallucce. E con quel gesto mette in mostra la mia vita. Il mio appartamento in Fasanenstrasse, la mia tendenza al disordine, il mio letto disfatto, le orchidee che metto a bagno nel weekend, coccolandole e chiacchierandoci per farle fiorire. Si fa beffe della mia relazione fissa che dura ormai da anni con Ralph, il quale mi umilia non solo continuando a stare con la moglie, la psicoanalista di Chicago, ma spassandosela con tutte le donne che incontra sulla sua strada. Khalil ha indovinato che ho una passione per i vecchi musical, davanti ai quali piango a dirotto sbevazzando mezze o intere bottiglie di quel vino bianco austriaco, di cui nego il consumo eccessivo con giustificazioni fantasiose. Vede la solitudine che sta in agguato davanti al portone come un gangster con il cappello e il bavero alzato quando, il più tardi possibile, esco dall’Opera per tornare a casa, dove lascio sempre la luce accesa perché sembri meno vuota. Sa che mi vergogno dei chili che ho preso da quando sono entrata in menopausa. Sa perfino che l’estate scorsa mi nascondevo dietro un grosso paio d’occhiali da sole perché mi ero fatta togliere un centimetro e mezzo delle palpebre cascanti che ho preso da mio nonno materno. Ha visto che ho il terrore di invecchiare, che tengo invano d’occhio il decadimento: soprattutto la fiacchezza intellettuale, che solo i critici più acuti hanno colto nelle mie ultime regie. La siccità creativa che compenso con il mestiere, lo zelo, la bravura, perché non ci sia neanche un capello fuori posto in una messinscena di Helena Tholstrup. Ma io sono la sola a sapere che da un bel po’ le mie letture vanno alla deriva, ormai disancorate dal mio intimo, che ho chiuso a chiave molto tempo fa. Sono la sola a sapere che La Valchiria è l’allestimento che potrebbe diventare la mia Waterloo artistica. Se sarà un fiasco, il mio valore nella borsa della lirica scenderà in picchiata e mi ritroverò indebolita anche come direttrice. Il fatto di essere donna, che negli anni sono riuscita a compensare, verrà usato contro di me. Tutti si ricorderanno che sono solo una donna. La misoginia si diffonderà sotto forma di chiacchiere maligne da mensa, quando si rammenteranno a vicenda che mi sono aperta un varco nel circolo chiuso del vertice della piramide travestita da uomo. Perciò devo avere successo a tutti i costi. È una semplice questione di matematica. O vinci o soccombi.
Se Khalil sa anche questo, è perché glielo ha detto Sophie. Lei, che vede tutto, gli ha dato la sua interpretazione di me e non è positiva. È molto imbarazzante, mi sento messa a nudo, quasi che avessero violato il mio intimo, quasi che tutto fosse sparso in giro, cassetti vuotati e biancheria sporca. Però non hanno trovato la stanza segreta. Il posto dove custodisco la verità su me stessa. E per quanto mi possano mettere alle strette, non dovrò rivelarla. Perciò l’unica possibilità che ho è di combattere la mia paura di essere sgozzata come il giornalista americano Daniel Pearl. Nonostante la paura cresca con la rapidità di un ceppo batterico, devo tenermi sull’offensiva, continuare a combattere.
«Mi avete pedinata?» gli domando piena di indignazione.
«Secondo te?»
Certo che sì. Viviamo in una società aperta, esistono tantissime possibilità per spiare la gente. Spacciandosi per turisti appassionati di lirica, quelli della sua cellula hanno fotografato l’Opera da ogni angolazione possibile. Hanno curiosato nel foyer, comprato il biglietto per uno spettacolo, si sono seduti in platea, hanno mangiato salatini durante l’intervallo, osservato attentamente il personale. Uno, forse Khalil, ha addirittura avuto la sfacciataggine di assistere alle prove aperte del sabato, quando il pubblico può seguire il lavoro del regista. Proprio lo scorso weekend ho tenuto una prova aperta senza la più pallida idea di essere sotto tiro. Avremmo dovuto aumentare le misure di sicurezza? Sono stata io, nel mio ruolo di capo supremo, a difendere l’idea di non barricarci. “Questo è un teatro lirico, non un aeroporto!” ho detto, sottintendendo che sarebbe stato insensato cominciare a far passare i nostri ospiti per il metal detector e a registrarli. E poi, neanche così saremmo riusciti a evitare quel che è successo: i terroristi non sono mica stupidi, sono come l’acqua, che trova sempre una via. Ma forse hanno tralasciato un dettaglio: la guardia notturna.
«Forza, scrivi!» mi ordina lui. «Non abbiamo tutta la notte a disposizione!»
Che cosa vuole dire Khalil? Forse la guardia notturna è già compresa nel suo copione e il piano prevede che la missione sia compiuta prima del suo arrivo?
Lancio un’occhiata all’orologio, ma Khalil mi vede. Non è stato dilettantesco da parte sua non avermelo tolto all’inizio? Anche privare la gente della cognizione del tempo è una forma di terrorismo, in fondo. Non è per questo che gli ostaggi si sforzano sempre di contare i giorni con delle tacche?
«Dammi l’orologio!» mi ordina.
Ubbidisco, ma riesco a vedere l’ora di nascosto. L’una meno dieci. Quando fa il giro la guardia? Prima delle due? E il personale delle pulizie, non arriva verso le tre? Un paio di volte mi è capitato di essere svegliata dalle filippine quando mi ero addormentata sul divano dopo aver lavorato fino a tardi.
Se è stupito di tenere in mano un Rolex d’oro, Khalil non lo dà a vedere. Si limita a posarlo sulla scrivania, vicino alla bomba, che non riesco a ignorare. Prima trovavo un che di tranquillizzante nel fatto che fosse nascosta in uno zaino consunto, uguale a tanti che si vedono in strada.
«Avanti, scrivi!» mi dice in tono imperioso.
«Ho detto che non scrivo finché non fai venire Sophie di qua.»
«E io ho detto che comando io.»
«E se mi rifiutassi comunque?»
«Vuoi che sgozzi tua figlia?»
Lui alza appena la voce come un domatore.
«No!» ansimo.
È come se non avessi più aria nei polmoni, e capisco di aver sottovalutato il mio avversario. Che requisiti bisognerà avere, secondo i servizi segreti, per essere considerati potenziali terroristi? Be’, ci vorrà il movente, la volontà, l’occasione e la capacità. Finora ho spuntato solo tre voci: movente, volontà e occasione. Della capacità di Khalil, della sua attitudine a portare a termine questa operazione dubito. È forse uno scherzo del mio istinto di conservazione per proteggermi dalla realtà? Rifiutare la...