La conquista del titolo riservato ai costruttori aveva dato un po’ di respiro alla gente di Maranello. Sebbene non si trattasse del trofeo più importante, quel successo segnava comunque un’inversione di tendenza. Montezemolo spese tutta la sua abilità di comunicatore per valorizzare la vittoria: alla fine, l’opinione pubblica accettò l’idea che la Ferrari stava uscendo dal tunnel delle delusioni.
Michael Schumacher era d’accordo con il suo presidente, ma fino a un certo punto. Andavano bene i discorsi sull’interesse dell’azienda. Erano perfetti i ragionamenti sulla necessità di «fare squadra». Niente da obiettare sullo spirito di gruppo: aggiudicandosi il titolo delle scuderie, la Ferrari era riuscita a battere un colosso come la Mercedes, partner privilegiato della McLaren. Le implicazioni macroeconomiche non sfuggivano al pilota tedesco: eppure, non era venuto in Italia per questo. O meglio: non era venuto solo per questo.
Durante le vacanze natalizie Schumi passò lunghe serate in compagnia di Jean Todt. I due si erano ritrovati in Norvegia per il brindisi di Capodanno. Ormai l’amicizia era più forte del legame professionale. Il rapporto di lavoro valeva meno della complicità. I momenti drammatici dell’incidente di Silverstone e le turbolente settimane della riabilitazione avevano definitivamente consolidato l’intesa tra il francese e il tedesco. Nella storia dell’automobilismo sportivo, mai si era vista una coppia così affiatata.
Sulle nevi del Nord, Schumi e Todt avevano esaminato le prospettive per il 2000. Sarebbe stata la stagione decisiva. Per l’uno e per l’altro. Una nuova sconfitta avrebbe minato la credibilità di entrambi. La pazienza degli azionisti e dei tifosi sarebbe stata messa a durissima prova. Con il calice in mano, salutando il nuovo secolo, Michael e Jean sapevano di essere con le spalle al muro. Dovevano vincere. E basta.
Fisicamente il tedesco si sentiva benissimo. I postumi dello spaventoso schianto nel Gran Premio d’Inghilterra erano stati riassorbiti. La ferrea volontà del protagonista non sorprendeva Todt. Già in Malesia e in Giappone si era capito che la guarigione era stata completa. Soprattutto a livello mentale, Schumi era uscito intatto dal tunnel della paura. Anzi, il ritorno al volante aveva accresciuto la sua determinazione. Era motivatissimo. Pur di realizzare il sogno, pur di diventare campione del mondo con la macchina rossa, era disposto a tutto.
Todt non ne dubitava. «Avevo capito che non era minimamente sfiorato dalla tentazione di andarsene, non gli interessava provare a vincere con una macchina diversa» racconta il manager francese. «Poiché l’incidente di Silverstone era dovuto a un nostro errore, gli sarebbe stato facile assumere un atteggiamento di rivalsa. Invece non si lamentò mai, non manifestò un calo di fiducia. E la fiducia reciproca, nella Formula Uno, è tutto.» In questo periodo Schumi fu contattato da Ron Dennis: il capo della McLaren, d’intesa con la Mercedes, gli offrì un posto nella sua squadra. La risposta fu un cortese ma secco rifiuto.
La rinascita agonistica di Michael costituiva uno stimolo enorme per i ferraristi. Lo staff della squadra aveva vissuto con angoscia il periodo post Silverstone. Il timore di non poter più contare sul migliore dei piloti era stato cancellato dai risultati che il tedesco aveva ottenuto a Sepang e a Suzuka. Adesso, però, al Fenomeno ritrovato doveva essere garantita una vettura all’altezza della McLaren di Hakkinen.
Rory Byrne era consapevole di non poter sbagliare. Ammesso avesse avuto bisogno di sollecitazioni, quasi ogni sera riceveva una telefonata del tedesco. Schumi era avido d’informazioni. Si teneva aggiornato in tempo reale. L’incidente non lo aveva cambiato dentro.
Il progettista sudafricano si era circondato di giovani ingegneri freschi di università. Il loro entusiasmo gli serviva per dribblare le insidie della rassegnazione. Non era vero che oltremanica erano più bravi a costruire auto da corsa. Era venuto il momento di dimostrarlo. Definitivamente.
La creazione della F1-2000, nome in codice della nuova monoposto, era stata caratterizzata da un massiccio ricorso alla galleria del vento: la gigantesca struttura disegnata da Renzo Piano era finalmente affidabile. Byrne lavorò molto su inedite sospensioni interamente in fibra di carbonio. Chiese a Paolo Martinelli, il capo dei motoristi, un dieci cilindri più compatto e più leggero. Dopo mesi di simulazioni al computer la macchina per la grande sfida era pronta. Lunga 4397 centimetri, larga 1795, alta dal suolo 959, era stata studiata tenendo conto delle caratteristiche di Michael, del suo stile di guida, del suo modo di sentirsi padrone di casa una volta calatosi nell’abitacolo.
C’era solo un piccolo problema: anche nel 2000, la Ferrari di piloti ne avrebbe avuti due.
Il Paperino brasiliano
Come previsto, dopo il malinconico epilogo di Suzuka un disilluso Irvine aveva chiuso il rapporto di collaborazione con l’azienda di Maranello. Se n’era andato, Eddie, senza lasciare spazio alle recriminazioni. Aveva l’intima certezza di aver sprecato un’occasione irripetibile e non era rimasto stupito da quanto accaduto in Giappone: che Michael rischiasse l’osso del collo per battere Hakkinen all’esclusivo fine di permettere a lui, il gregario irlandese, di laurearsi campione del mondo, non lo aveva mai creduto possibile. Essendo un tipo molto pragmatico, non si sentiva tradito. Semmai rimproverava a Todt alcune decisioni: «In Francia mi aveva fatto perdere un punto a vantaggio di Schumi e a Monza non aveva fermato Salo per farmene guadagnare uno in più» sussurrava Irvine. Ma era difficile imbastire un processo al manager francese su queste basi: sempre Todt, applicando gli ordini di scuderia in Germania e in Malesia, aveva consentito a Eddie di restare in lizza per il titolo fino all’ultima gara.
E poi c’erano i soldi. La medicina migliore per le ferite dell’anima. L’irlandese aveva monetizzato l’enorme popolarità acquisita nell’estate del 1999 strappando un contratto faraonico alla Ford, neoproprietaria, con il marchio Jaguar, della Stewart. Irvine era, adesso, il pilota più pagato del Circo dopo Michael e Hakkinen. «Questo è il classico caso in cui posso accettare di essere addirittura il numero tre» aveva commentato con un ghigno. Proprietà immobiliari in Florida e sulla Costa Azzurra ne facevano un ricco playboy con l’hobby del volante. Le belle donne affollavano la sua vita e lui non aveva alcuna nostalgia di Maranello. «Umanamente Schumi non mi mancherà neanche un po’» aveva spiegato. «È un partner di lavoro corretto, ma è un maniaco. Non invidio chi prenderà il mio posto. E poi crede sempre di aver ragione lui. Su qualunque argomento. Una volta sul motorhome gli ho fatto ascoltare un disco degli U2, la più grande rock band del mondo. Be’, non gli andava bene nemmeno il mio connazionale Bono. E questo per me è intollerabile.»
La musica degli U2 non sarebbe stata un problema per l’uomo che Montezemolo e Todt avevano individuato come sostituto del bizzarro irlandese: a Rubens Barrichello piacevano di più le atmosfere soffuse di Toquinho. Brasiliano di San Paolo, erede di una famiglia di origini italiane, Rubinho, come tutti lo chiamavano, aveva lottato a lungo con se stesso per trovare un punto di equilibrio nella vita. Troppo giovane, era stato schiacciato dal peso di una responsabilità enorme.
Sin da bambino Barrichello aveva sviluppato un amore fortissimo per la velocità. Il nonno abitava proprio dalle parti del circuito di Interlagos, teatro tradizionale del Gran Premio del Brasile. Il piccolo Rubens si affacciava alle finestre e scrutava i comportamenti degli assi del volante. Poi si incaricava di imitarli alla guida di un kart. Era e si sentiva un predestinato.
Classe 1973, l’adolescente Barrichello nel 1988 si era commosso fino alle lacrime per la conquista del primo titolo mondiale da parte di Senna. Il conterraneo Ayrton era il suo idolo, il suo mito, il punto di riferimento assoluto. Conoscerlo e diventarne amico aveva rappresentato il coronamento di un sogno. Proprio Senna aveva incoraggiato Rubens, lo aveva aiutato a trovare un posto in Europa per le competizioni minori e quindi aveva speso una buona parola con Eddie Jordan quando era venuto il momento di tentare il grande balzo in Formula Uno.
La stagione dell’esordio, nel 1993, era stata buona. Un quinto posto in Giappone, in una gara vinta proprio dal maestro Ayrton, aveva accentuato l’euforia di Rubinho. Nel giro dei Gran Premi c’era posto anche per lui. «Avevo un obiettivo» racconta Barrichello. «Entrare nella squadra di Senna. Essere il suo compagno. Lavorare con lui, per imparare tutto, studiandolo da vicino. Ma i tempi non erano maturi.»
La tragedia di Imola sconvolse i suoi progetti e lo gettò in un profondo scoramento. Quarantott’ore prima di morire contro il muro del Tamburello, uno stravolto Ayrton si era precipitato al capezzale del giovane allievo: durante le prove del venerdì Barrichello era rimasto ferito in un terrificante incidente.
«Avevo perso conoscenza» ricorda Rubinho. «Ero adagiato sul lettino della clinica allestita all’interno dell’autodromo. Quando riaprii gli occhi, la prima persona che vidi fu Senna. Mi toccò un braccio e sussurrò: “Ragazzo, non farmi più prendere uno spavento così”. Non lo dimenticherò mai.»
Due giorni dopo, Ayrton era già memoria. Per Barrichello lo shock fu tremendo. All’improvviso aveva perso il maestro e l’amico. Il sogno aveva lasciato posto all’incubo. E il peggio doveva ancora venire.
«La disgrazia di Senna gettò il mio popolo nella costernazione» rammenta Rubens. «Lui non era soltanto un pilota, era un simbolo, era un motivo di orgoglio nazionale. La gente cominciò a cercare un erede. Si rifiutavano di accettare la realtà: Ayrton era insostituibile.»
Paulista come la vittima di Imola, pupillo dichiarato dell’eroe che non c’era più, Barrichello venne investito di una missione: doveva farsi carico della malinconia di tutto il Brasile, doveva raccogliere il testimone. Ma non poteva farlo. Non era pronto.
«A parte ogni considerazione sul differente valore» dice Rubinho «io ero troppo giovane. Mi mancava l’esperienza, mi mancava la maturità. La gente pretendeva da me l’impossibile. Avrei voluto ripagare le attese, ma ero soffocato dalla pressione. E poi, onestamente, non disponevo di una macchina all’altezza della situazione.»
Vennero giorni durissimi. La tristezza dei brasiliani si sfogava sull’inadeguatezza del candidato alla successione. Lo chiamavano «Paperino» come lo sfortunatissimo e lamentoso eroe di Disney. Ogni tanto Barrichello azzeccava qualche bella gara, eppure il giudizio nei suoi confronti era sempre severo. Le aspettative deluse lo mortificavano al di là dei demeriti. Un senso di solitudine stava imprigionando il pilota.
Bernie Ecclestone, però, non era brasiliano. Il Padrino della Formula Uno non amava l’emotività. Nelle sue riflessioni, il Sudamerica era un mercato troppo importante. La dolorosa fine di Senna aveva avuto ripercussioni pesanti anche in termini economici. Il mondo dei Gran Premi aveva bisogno di un personaggio capace di coinvolgere le masse in quella fetta del pianeta.
Così, nell’estate del 1995 Ecclestone aveva suggerito a Todt di non dimenticare, nelle sue scelte, l’opzione Barrichello. La Ferrari stava avviando una drastica ristrutturazione e cercava un partner per Schumi. Non era una brutta idea e il francese si dimostrò interessato. Però qualcosa non lo convinceva.
Rubens sembrava ancora pesantemente condizionato dal dramma di Senna. Le sue prestazioni erano caratterizzate da una preoccupante mancanza di continuità. Inoltre Todt conosceva bene gli umori dei brasiliani: se avesse collocato Barrichello accanto al campione del mondo Michael Schumacher, le pressioni sul giovanotto di San Paolo si sarebbero clamorosamente accentuate. Considerato quanto Rubinho aveva patito il costante paragone con Ayrton, era forte il rischio di distruggerlo una volta per tutte. Infine, al presidente Montezemolo era piaciuta la guascona spavalderia del compagno di squadra di Barrichello alla Jordan: valutati i pro e i contro, la scelta di Maranello cadde su Eddie Irvine.
Per Rubens fu un altro shock. Non riusciva a capire. «Non possono dire che vado più piano dell’irlandese» si sfogò. «È una decisione incomprensibile. Forse dovrei esaminare le offerte che mi sono arrivate dall’America, forse dovrei andare a correre a Indianapolis.»
Invece, alla fine del 1996, Jackie Stewart offrì all’allievo di Senna l’opportunità di restare in Europa. Per quanto amareggiato dal rifiuto di Todt, Barrichello comprese che doveva ricominciare da zero. Dimenticare Ayrton: non sul piano umano, cosa impossibile, ma in pista. Doveva ricostruirsi. In fin dei conti era giovanissimo. Non era il tempo a fargli difetto. Piano piano le cose sarebbero cambiate.
Gli anni con Stewart furono positivi. Non più assillato dai compatrioti, che anzi tendevano a ignorarlo, Rubens recuperò la passione per il mestiere. Nel 1999, a Magny-Cours, conquistò addirittura la pole position. Non era la prima volta, ci era già riuscito con la Jordan nel 1994 in Belgio. Ma stavolta l’impresa aveva uno spessore diverso. Non si trattava di una prodezza casuale.
Qualche settimana prima Jean Todt aveva riallacciato i contatti interrotti nel 1995. Irvine avrebbe lasciato la Rossa al termine della stagione. Schumi avrebbe avuto un nuovo compagno. Poiché Montezemolo non aveva intenzione di assumere un italiano, le candidature di Trulli e Fisichella caddero subito. Tra i piloti disponibili, il nome di Barrichello era il primo della lista.
Interpellato in merito, Michael non si era sbilanciato. O meglio: per lui un collega valeva l’altro. Del brasiliano apprezzava la velocità. Non ne sapeva granché sul piano umano. Comunque disse a Todt che condivideva la scelta. L’incidente di Silverstone gli diede altro cui pensare.
L’assunzione di Rubinho venne annunciata da parte della Ferrari a fine settembre. Paradossalmente, la notizia non scatenò entusiasmi in Brasile. I compatrioti di Senna avevano smesso di appassionarsi alle vicende del presunto erede. Non credevano più in lui, forse perché ci avevano creduto troppo quando ancora non era il momento.
«No, la Ferrari mai»
Mentre Barrichello saliva per la prima volta sulla monoposto del Cavallino, scoprendo ai bordi della pista di Fiorano la neve, a Torino l’Avvocato stava discutendo con Paolo Fresco i contenuti di una trattativa che poteva modificare per sempre gli equilibri del gruppo Fiat.
La preoccupazione per la difficile situazione dell’auto aveva spinto Gianni Agnelli a vagliare varie ipotesi. Il senatore a vita aveva maturato una consapevolezza poco rassicurante: l’apertura dei mercati inevitabilmente avrebbe comportato una riduzione del numero dei produttori. La Fiat, con le sue debolezze strutturali, era esposta ai venti della globalizzazione. Poteva essere venduta al miglior offerente. Oppure, come l’orgoglio suggeriva all’Avvocato, poteva trovare un partner solido per garantirsi un futuro senza ammainare bandiera.
Paolo Fresco era stato scelto da Gianni Agnelli per la presidenza della Fiat in virtù delle sue connessioni internazionali: a lungo apprezzato dirigente della General Electric, Fresco portava in dote un patrimonio di conoscenze e di competenze. Era l’uomo giusto per avviare un laborioso negoziato con la General Motors.
Gli americani erano interessati ad allargare la loro presenza in Europa. Avevano anche una tentazione segreta: la Ferrari. Oltreoceano il mito delle Rosse aveva superato indenne le burrasche delle molte, troppe sconfitte in Formula Uno. A Detroit ricordavano bene il Drake di Maranello, il leggendario costruttore che si era permesso di dire «no» a un certo Henry Ford, riuscendo persino a umiliarlo sulle piste di tutto il mondo.
Quando però gli emissari della General Motors provarono a inserire nella trattative il marchio del Cavallino, Agnelli ebbe una reazione brusca: «No, la Ferrari mai». Tecnicamente, il rifiuto dell’Avvocato era inattaccabile: l’azienda modenese non era controllata direttamente da Fiat Auto, ma dalla holding di famiglia. Dunque non poteva essere oggetto di scambio. Ma gli americani erano molto insistenti
«In quel periodo giravano molte voci» ricorda Floriana Ferrari, moglie di Piero, l’erede del Drake. «Mio marito era preoccupato. Aveva promesso a suo padre che avrebbe fatto di tutto per impedire che il frutto del suo lavoro, l’impegno di una vita, cadesse in mani straniere. Piero fece sapere di essere pronto ad agire, per quanto poteva, per difendere l’unicità dell’azienda. Montezemolo era d’accordo. Ma Agnelli rassicurò tutti. Alla Ferrari ci teneva. Non era disposto a barattarla.»
Nella primavera del 2000 l’Avvocato e Paolo Fresco conclusero un complicato accordo con la General Motors. La casa di Maranello era totalmente estranea alle intese. Ne veniva quindi riaffermata l’indipendenza. Alcuni mesi più tardi, a Suzuka, la fine di un incubo avrebbe emblematicamente moltiplicato il valore della Ferrari.
Un avvio col botto
La sera dell’11 marzo, a tavola, Michael non aveva appetito. Stava per cominciare la nuova caccia al mondiale e le indicazioni dell’asfalto non erano troppo incoraggianti. Nelle qualifiche la McLaren Mercedes aveva dominato la scena. Hakkinen e Coulthard, l’indomani, avrebbero occupato l’intera prima fila. Nonostante il duro lavoro invernale la Ferrari sembrava ancora in ritardo. La situazione irritava il tedesco: era dal 1995 che non si aggiudicava il Gran Premio inaugurale.
A rendere più pesante il clima contribuiva il difficile rapporto con Barrichello. Animato da grande entusiasmo, il brasiliano si era subito scontrato con un’organizzazione della scuderia tutta al servizio di Michael. Irvine a certe cose era abituato, ci aveva fatto il callo. Rubens, invece, dava segni di insofferenza.
Per allentare la tensione Todt invitò a cena entrambi i piloti. Solo la piena armoni...