
- 336 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Nuovi Argomenti (7)
Informazioni su questo libro
Hanno collaborato: Enzo Siciliano, Andrea Salerno, Massimiliano Capati, Jean Rouaud, Edmund White, Cornelia Hörter, Giuseppe Montesano, Kikuo Takano, Valentino Fossati, Niccolò Ammaniti, Jaime D'Alessandro, David Becchetti, Luca Archibugi, Paolo Del Colle, Nicola Bultrini, Paolo Nori, Michele Sovente, Roberto Rossi Precerutti, Guido Mazzoni, Tim Parks, Domenico Scarpa, Mauro Martini, Arnaldo Colasanti, Tommaso Ottonieri, Paola Zampini, Andrea Gibellini, Alexander Stille, Flavio De Bernardinis.
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Informazioni

RECORD TIME
Edmund White
La solitudine può essere vissuta come una condizione di pienezza o di vuoto: questo per dire che quando avevo tredici anni, nel 1953, il più delle volte mi sentivo abbandonato, ma in certe occasioni – specie in presenza di un’opera d’arte – provavo un senso di trionfo. La maggior parte del tempo, a scuola, sull’autobus, per strada, credevo di dare spaventosamente nell’occhio quando ero solo. Ero convinto che tutti avvertissero in maniera lampante il mio isolamento, quasi mi trovassi intrappolato in uno di quegli incubi che fanno sudare e digrignare i denti per l’imbarazzo. Mentre scivolavo da una classe all’altra lungo i corridoi della scuola superiore, rasentando le pareti, avrei potuto trincerarmi dietro una tranquilla e squallida rassegnazione, per ridestarmi solo dopo aver raggiunto il mio posto nel laboratorio di biologia o al corso di educazione civica. Invece no: soffrivo e sorridevo, e intanto dibattevo internamente se era il caso di accompagnarmi a quella ragazza, conosciuta alle prove del coro, o invece di raggiungere quei tipi della lezione di ginnastica, che in fondo non erano poi così fichetti. La mia solitudine era pronta a sfrigolare e ad esplodere, schizzando da un elettrodo all’altro: vuoto ad alta tensione.
C’erano l’indolenza amniotica di un bagno prolungato, l’agitata assenza mentale di quando leggevo e rileggevo all’infinito il dorso del pacco dei cereali, o ancora la patetica desolazione di sedere sul pavimento del soggiorno, ad ascoltare il ticchettio di tutti gli orologi nell’appartamento deserto.
Ma c’era soprattutto, ogni giorno, lo stesso genere di inattività altamente ansiogena che avevo provato l’estate precedente, quando, in cerca di un impiego part-time, me ne stavo seduto nella sala d’attesa con il colletto inamidato, nella speranza di far colpo sul mio potenziale capo, e mi chiedevo perché mai il mio appuntamento avesse già subito un ritardo di quaranta minuti, gli occhi fissi alle lancette dell’orologio a muro che avanzavano impercettibilmente ma inesorabilmente verso le cinque, l’ora di chiusura. È così che mi sentivo solo a scuola; quasi fossi pronto ad entrare in azione all’istante, sorridere, affascinare, far mostra delle mie mercanzie – ma in mancanza di un cenno fossi costretto ad aspettare e a ipotizzare il peggio.
L’altro tipo di solitudine, quella piena e autosufficiente, non mi si presentò mai come una rivelazione improvvisa; dovetti corteggiarla pazientemente. Portavo a casa dischi e spartiti presi a prestito dalla biblioteca pubblica, e dopo aver chiuso la porta della mia stanza – che io stesso avevo munito di un fragile chiavistello – ascoltavo i vecchi 78 giri, coi loro lucenti solchi extraterrestri e le etichette rotonde color vinaccia dai caratteri dorati quasi fossero medaglie al valore della Ruritania. Ascoltavo la Symphony on a French Mountain Air di Vincent D’Indy (non lo sopporto più, da quando ho saputo che era un attivista antisemita animato dall’odio), oppure tutti e quarantotto i dischi del Tristano e Isotta (opera di un altro antisemita, uno che purtroppo ammiro). I dischi del Tristano erano raccolti in quattro cofanetti di pelle assortiti che somigliavano ad album di fotografie. Quasi tutti i dischi di classica erano numerati, cosicché si potevano impilare sull’asticella per poi farli girare in blocco, anche se i veri conoscitori erano contrari.
Trascorsi tre mesi in quell’impiego estivo per guadagnare il denaro necessario all’acquisto di un giradischi a tre velocità, che andasse bene per i 78 giri presi a prestito dalla biblioteca, come per i nuovi 33 e 45 giri che compravo a un ritmo avvilentemente lento. Il mio primissimo acquisto fu un 45 giri di Chet Baker che suonava Imagination con la tromba e cantava con la sua voce acuta stordita dall’eroina in un tono neutro e inespressivo.
Si doveva cambiare la velocità e girare la puntina quando si passava dai 78 giri agli altri. Se i dischi erano conciati male, gli spartiti erano spesso ancora più antiquati – mi trovai tra le mani una prima edizione americana della Tosca di Puccini, la cui copertina art-nouveau raffigurava l’appassionata eroina italiana, tutta vitino di vespa, lunga veste diafana, mani imploranti e chioma inanellata. Leggendo le date impresse sulla cartolina arancione inserita nella tasca interna potevo vedere che quegli spartiti avevano circolato di rado nell’ultimo mezzo secolo. Quelle cartoline mi fecero rendere conto di quanto trascurata, solitaria e fortunosa fosse la storia musicale. Così come potei fare uscire le prime traduzioni inglesi di Anatole France e Pierre Loti con le loro rilegature di cuoio bianco impresse a dorature di fiori intrecciati sulla costa, allo stesso modo ero in diretto contatto fisico con le prime partiture musicali di Cavalleria rusticana, del Requiem di Verdi, della Thaïs di Massenet, del Lohengrin di Wagner, nonché Der Zigeunerbaron di Strauss. Avevo la stessa intimità con quei dischi graffiati di Lauritz Melchior (assistetti a un suo concerto per assolo a Dallas, quando avevo nove anni), di Jussi Björling (che avevo visto, bassino, la pancia stretta in un busto, agitare le braccia sul palcoscenico del Chicago Lyric Opera mentre interpretava Rodolfo nella Bohème), persino di “Madame” Shumann-Heink, che mia madre aveva ascoltato in qualche fiera di mucche texane, durante una delle sue innumerevoli tournée d’addio subito dopo la prima guerra mondiale.
Tornando a casa da scuola facevo tappa in biblioteca, coi bicipiti che mi dolevano per il carico di dischi, spartiti e libri, e mi barricavo nella mia stanza. Mentre la notte di Chicago accorciava sempre più i pomeriggi di dicembre e la neve sul mio davanzale si scioglieva e tornava a ghiacciarsi, mi rilassavo nella mia camera con il radiatore scoppiettante, le pareti color cioccolato, le tende di tela grezza marrone chiaro, il cassettone di lucido legno d’acero, la comoda poltrona e la vecchia lampada in ottone della mia prima infanzia – progettata in origine, prima della mia nascita, come una lampada a gas, ora riadattata per l’elettricità, con il tubo di vetro intatto e la possibilità di regolare la luminosità fino a una soffusa penombra ambrata. Adoravo la coperta rossa di lana grezza, con la grande e sbiadita etichetta di raso di Hudson Bay che raffigurava un alce e una canoa, cucita, come un francobollo commemorativo, sull’angolo superiore sinistro. Adoravo i vasetti verde pallido che avevo comprato a Chinatown, coi loro disegni in rilievo quasi cancellati da pesanti strati di smalto, gli ampi tappi di sughero sigillati con la cera rossa, che andava scalpellata via per rivelare le fettine di zenzero candito che contenevano, galleggianti, vischiose, in uno sciroppo di zucchero denso e scuro. Ormai lo zenzero era stato mangiato da tempo, e i vasetti lavati, eppure erano ancora debolmente impregnati del loro misterioso e speziato contenuto originale. Adoravo i miei sette cavalli cinesi di bronzo, custoditi in una scatola di velluto marrone, con ritagliate all’interno le sagome esatte in cui le statuette andavano inserite. Ogni cavallo era diverso dall’altro, la testa chinata in un arco leggero a pascolare o rovesciata all’indietro nel galoppo, ciascuno pesante e freddo nella mano. Adoravo i miei carillon, regalatimi uno alla volta, Natale dopo Natale: il cilindro di ottone sottovetro che ruotando pizzicava dentini di ottone, suonando il valzer del Faust di Gounod; lo chalet svizzero di legno grezzo con gli specchietti al posto delle finestre, che suonava “Edelweiss”; il piano a coda in miniatura; il mulino ad acqua girevole. Ma più che l’aspetto di ogni carillon era la ricchezza del suo suono a impressionarmi. Il mio preferito era il Gounod, perché il suono non era metallico ma squillante, e la scatola, quando la tenevo in mano, palpitava con costosa precisione.
Adoravo l’aroma delle scatole da tè che collezionavo pur non bevendone quasi mai – respiravo il profumo secco e affumicato delle foglie di lapsang souchong, l’odore natalizio di chiodi di garofano e arancia del Constant Comment, l’olezzo pungente del tè verde giapponese, forte come polvere da sparo, che non sembrava affatto un tè ma piuttosto una specie di erba, almeno così mi figuravo. Adoravo il modo in cui i coperchi di metallo rigido si incastravano perfettamente in quelle scatole quadrate e andavano aperti facendo leva col manico di un cucchiaio. Adoravo sedermi per terra, la schiena addossata al letto mentre voltavo le ampie, lisce pagine delle partiture d’opera in cui le parole originali erano tradotte, con grande approssimazione, nello stesso numero di sillabe in inglese, cosicché si poteva cantarle. Continuavo a cambiare la pila dei 78 giri – alcuni erano così malamente rigati che ogni tanto mi toccava estrarre la puntina da un profondo crepaccio, altri tanto logori che la puntina del mio giradischi, a sua volta un po’ smussata, si limitava a scivolare sulla superficie levigata condensando, in una frazione di secondo, lunghi minuti di musica.
Ma per lo più i dischi erano ancora in buone condizioni, forse perché venivano richiesti di rado. A volte per un’ulteriore protezione erano persino inseriti in involucri trasparenti, che andavano richiusi e infilati in pesanti copertine di carta ingiallita. I disegni che ornavano le copertine dei dischi nei primi anni Cinquanta, stampati per lo più a due soli colori, erano vivaci e impertinenti – nere note musicali zigzaganti a mo’ di sciame d’api intorno ad un ritaglio color lilla della testa di Wagner, sormontata dal suo berretto floscio, o tutte le Fontane di Roma di Respighi ravvivate da tratti e puntini gialli e rosa quasi fossero gabbie di uccelli saldate con un codice morse – oppure banalmente romantiche (una gigantesca rosa rossa sovraimpressa a un violino marrone, per il concerto per violino di Brahms).
Ero solo con la musica classica, proprio come un lettore è solo in biblioteca o un frequentatore di musei, all’epoca, era solo con i dipinti. Chiunque altro in America stava ascoltando Perry Como e Dean Martin o guardava il programma del mattino di Arthur Godfrey, nel bianco e nero tremulo dello schermo televisivo. La cultura popolare americana era pantofolaia, banale sino alla nausea, buona per tutti i membri della famiglia – non c’era ancora un Elvis, niente di tosto o stridulo o erotico, ma solo tutti quei bianchi insipidi, gli uomini in giacca, cravatta scura di maglina e camicia bianca rigida, le donne in gonne vaporose e golfini a maniche lunghe, intenti a recitare scenette melense, settimana dopo settimana, in un varietà di hit parade, elucubrando continue variazioni di canovacci che si adattassero alle immutate parole di una canzone che imperversava per mesi nella top ten. Ventenni, venticinquenni o trentacinquenni erano indistinguibili per aspetto e modi, mentre pronunciavano le loro battute carine con sorrisi sciocchi e affettati, saltellando tra gigantesche sagome di girasoli o facendo ciao con la manina dalla pericolante piattaforma posteriore di un treno di cartapesta.
Un giorno, in biblioteca, scoprii la collezione circolante di libri d’arte, e tornai a casa con un volume di stampe ukiyo-e, introdotte da un testo appassionato e affascinante. Mi piaceva il fatto che quelle stampe registrassero l’aspetto di celebri attori Kabuki o di cortigiane nel “Mondo Fluttuante” del diciottesimo e diciannovesimo secolo Edo, e che nessuno in Giappone avesse preso sul serio quelle incisioni su legno prima che i pittori francesi le scoprissero. Mi piaceva la raffinatezza di quelle dame imponenti, ritte in piedi su un battello con la pipa d’oppio alla mano, mentre passavano sotto le leggere travi di un ponte. Mi piaceva l’intimità di una bellezza intenta ad annerirsi i denti con civetteria, mentre il suo gatto bigio zampettava sul tavolino del trucco. Mi piaceva l’estasi di un monaco nel suo eremitaggio, la parete di carta aperta, a contemplare il monte Fuji ammantato di neve nel riflesso di uno specchio tondo dal bordo laccato di nero. I crepacci che scendevano da sotto il manto innevato sembravano rughe che si diramassero intorno a una bocca sdentata. Mi piacevano soprattutto i giovani amanti, che correvano sulle alte scarpe di legno nella pioggia visibilmente obliqua del mattino, i loro corpi snelli pressoché intercambiabili, l’ombrello stretto dalle loro mani congiunte.
A pensarci ora mi pare che avessi poche opinioni sulla musica o sulla pittura o sulla poesia, e la complessità delle opere d’arte non mi scoraggiava. Mi sono fatto strada attraverso quasi tutti i titoli elencati sulle sovraccopertine della collana Biblioteca Moderna. Avevo capito che quei libri erano classici, e se la mia attenzione cominciava a vagare mentre leggevo Nostromo, non facevo che ricominciare daccapo e con maggiore concentrazione. Non toccava a me dichiarare che Conrad era una noia o meravigliarmi di come uno scrittore professionista potesse permettersi di usare così tante parole quali “indescrivibile”, “ineffabile” o “indicibile”. Allo stesso modo sentivo l’esigenza di apprendere qualcosa su Vlaminck e Van Eyck, Rembrandt e Cézanne, quasi mi stessi preparando per il grande Gioco a Quiz di Dio in Cielo anziché comporre le tessere di una sensibilità.
Mentre altri, più vecchi di me, si schieravano con forza pro o contro un vaso Sung o La Terra Desolata di Eliot o una tela “drip” di Jackson Pollock («Pura ciarlataneria!»), le loro opinioni mi impressionavano al punto che le adottavo immediatamente come mie proprie, sino talvolta a ripeterle per anni senza rendermi conto di come fossero profondamente incoerenti e andassero con...
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