
- 300 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Nuovi Argomenti (13)
Informazioni su questo libro
Hanno collaborato: Enzo Siciliano, Rocco Carbone, Andrea Cortellessa, Marzio Siracusa, Arnaldo Colasanti, Alfonso Berardinelli, Franco Ferrucci, Silvio Perrella, Andrea Gareffi, Mark Strand, Mark Strand, Wallace Shawn, Antonio Pennacchi, Nino De Vita, Lorenzo Pavolini, Pablo Echaurren, Lorenzo Perrona, Alessio Rotisciani, Altiero Scicchitano, Flavio De Bernardinis.
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Informazioni

DIARIO
Enzo Siciliano
Dicembre
Grigio, pioggia, poi sempre più nebbia. Spariscono i pioppi mentre il treno vola dopo il rallentamento nella stazione di Parma. La nebbia fodera la velocità: sembra di essere lanciati nel nulla. Sui vetri dei finestrini, righe di pioggia in diagonale.
La pioggia dirada soltanto dopo Lodi. Il ponte sul Po, passata la pensilina di Piacenza, è stato un rimbombo di ferraglie nel grigio compatto.
A Milano piove. Cielo basso.
Per Sant’Ambrogio, alla Scala
Ma il do di petto, nel Trovatore, alla conclusione della cabaletta di Manrico, ci vuole o non ci vuole? Verdi non lo ha scritto, ma lo ha tollerato. Riccardo Muti non lo fa cantare al tenore nella serata di Sant’Ambrogio alla Scala: ha ottime ragioni filologiche nel tenersi alla realtà della pagina scritta. Ma ci sono poi le ragioni storiche, che sono ragioni diverse da quelle forse care ai loggionisti. (Quanto di non scritto è entrato negli spartiti “materiali” del melodramma italiano!)
I loggionisti della Scala non hanno applaudito ma hanno fatto “buu!”, poi sarcastici hanno gridato “bis” eccetera. Lo stesso maestro, dal podio, ha mormorato parole di insofferenza. Ma, via tutto questo.
Muti ha ricavato dallo spartito del Trovatore un’orchestra sovrumana (c’è chi sostiene che quelle sonorità non fossero “verdiane”: io non credo che vi sia un Verdi d.o.c.).
Muti ha dato luce a vortici imprevisti d’armonia e ha scandito pause così dense e presaghe da sembrare pagine di romanzo. Proprio per questo, l’aspettativa in sala cresceva, e l’attesa per quell’assenza annunciata – niente do di petto – ha fatto precipitare una situazione già matura per altro.
Cos’è quel do di petto? Non è uno scatto atletico; è la somma di una disperazione, un grido che scaturisce dalla certezza del naufragio, della sconfitta.
Quella nota scattava dall’ugola di Franco Corelli in un modo che scavalcava ogni eleganza o il suo contrario, saliva al soffitto del teatro, e quel soffitto diventava un cielo sereno, dolcemente e tragicamente irraggiungibile.
Comunque, gli applausi ieri sera erano tutti meritati, – dico per Muti. Per virtù della sua bacchetta la grande quercia verdiana spandeva rami da Schumann a Brahms, restando saldissima sulle proprie radici. Quell’epifania di forza sovrana aveva necessità di canto: ma il canto restava un po’ lontano, lasciato al fondo della scena.
Ma con Muti siamo precipitati senza freno tra gli enigmi del Trovatore. Sappiamo bene quanto sia impossibile sciogliere in racconto quel drammone annodato come un complicatissimo nodo marinaro. I suoi personaggi parlano in sogno, le loro parole sono scompaginate dalla musica, soltanto nella musica hanno respiro, – ed è un respiro ellittico, feroce e stordito.
Azucena è veramente madre di Manrico? E se non lo è, perché finge d’esserlo? Per una vendetta da cuocere in un tempo infinito, lungo quanto la vita? E Manrico chi è? Lo chiede disperato lui stesso ad Azucena: “Non son tuo figlio? E chi son io, chi dunque?”
Il Conte di Luna e Manrico sembrano fratelli, se Leonora può scambiarli nella luce incerta della notte, essendo innamorata – e quanto! – del secondo. Ne è innamorata al punto che sacrificherà la propria vita per l’inutile salvezza di lui. Entrambi moriranno: forse, tutti moriranno in un viluppo d’orrori privo di ogni giustificazione.
Aveva ragione Bruno Barilli: Il Trovatore si fa sopra il libretto, per evaporazione di suoni. E il risalto è interamente teatrale, oscuro e strepitoso.
Una notte percorsa da incendi, da roghi nefasti: i visi dei protagonisti appaiono e scompaiono fra tagli d’ombra e bagliori, e si rincorrono devastati da sentimenti estremi, da balbettii, respiri grossi, grida.
L’eros e l’amore, la passione di madre, quella di figlio, e l’urlo della vendetta per una ferita irrimarginabile ricevuta: – ognuno dei quattro personaggi si offre nudo alla ribalta con il carico di un passato da cui non riesce a liberarsi, e rimette la propria vita agli attimi sublimi del canto, nell’incalzare di un ritmo che va veloce come il vento, e che conosce, come il vento, momenti di pace, stacchi di pause delicatissime e allarmate.
Il Trovatore è un pugno di parole che fanno da puntello a qualche nostro vago intendimento: “Abbietta zingara”, “Tacea la notte placida”, “Ah!... l’amorosa fiamma”, “Stride la vampa”, “L’amore, l’amore ond’ardo, “Sei tu dal ciel disceso”, “Di quella pira”, “D’amor sull’ali rosee”, “Ai nostri monti ritorneremo”, “Prima che d’altri vivere... io volli tua morir”.
Sono parole che fiottano libere di peso, avvolte in una luce che è di rogo o di fucina, di tramonto o di prigione. I fatti sono appunto soltanto sonori, o non sono affatto. Di qui l’enigma, poiché sul ritmo della musica, oscillante come il fuoco, ora aggressivo e violento, ora tenero di sfumature bluastre, noi capiamo ogni cosa ma senza prendere in pugno nulla.
Verdi ha avuto il genio di dare forma al caos delle emozioni lasciando che il caos restasse quel che è.
L’arte romantica, e non solo quella, ha inseguito come una chimera questa possibilità, mettendo a ferro e fuoco le forme, il pentagramma e lo strumentale. Verdi ha lasciato nell’opera lirica tutto come stava, arie, duetti, concertati, e, nascondendosi “nell’ombra e nel mister” come dicono i fedeli del Conte di Luna, è penetrato, con forza quasi brutale, in uno spazio e in un tempo indeterminati e tuttavia disperatamente umani. Ha scoperto così che i sentimenti germinano in un confuso calderone dove ci ritroviamo sempre identici e diversi, sconosciuti a noi stessi, avvolti nel magma di amori e odi simultanei.
Tutto questo pare follia. E lo è. Ma Il Trovatore ha la bellezza tenebrosa delle tragedie che scendono in verticale nel buio della coscienza, e ne esprimono la lotta indicibile e tumultuosa. Appunto: indicibile.
Come eseguire questa follia che è Il Trovatore? Muti ha avuto la grazia, ieri sera, non di domarla ma di plasmarla nella ricchezza dello strumentale. Se ha dimenticato qualcosa, ha dimenticato che il sovrumano dei personaggi che vengono in ribalta e cantano sta nel semplice loro essere “il” tenore, “il” soprano, “il” baritono, “il” contralto, – immagini stupefacenti che hanno riempito il cuore della nostra storia.
[L’antifona. Isaiah Berlin ha scritto che Verdi è la voce di un mondo che non esiste più, e la sua enorme popolarità è dovuta al fatto che espresse nella maniera più diretta stati di coscienza permanenti, come hanno fatto Omero, Shakespeare, Ibsen e Tolstoj.]
Ovidio, Tristia, I.4, 5-10
Alla violenza del vento
s’alza la marea e bolle la rena
che i gorghi succhiano dal fondo
Una montagna l’onda
copre prua e poppa
e sbatte sui simulacri votivi
Cigolano le assi cigolano le funi
Risuona tutta la chiglia
del male che ci colpisce
Mi capita per caso sotto gli occhi questa considerazione di Murnau, non so se scritta da lui o riportata da altri: “Il film sonoro significa un grande progresso nel cinema. Sfortunatamente giunge troppo presto: avevamo appena cominciato a trovare una via per il film muto, stavamo facendo valere tutte le possibilità della cinepresa. Poi, ecco l’avvento del film sonoro e la cinepresa è dimenticata, mentre ci si lambicca il cervello per imparare a servirsi del microfono.”
In quel “troppo presto” è siglato il destino drammatico del Novecento, un secolo nel quale tutto è avvenuto troppo presto, spesso sfasciando quel di più che si stava facendo.
Le accelerazioni tecnologiche producono negligenti effetti regressivi, eccetera.
Gennaio
Leggo su un giornale che sono passati cinquant’anni, il mese scorso, dalla morte di Trilussa, e me ne parlava Antonio Deb.
Del romanesco di Trilussa quando ero ragazzo se ne parlava ancora.
Certa querula piccola borghesia romana – ormai sparita, o trasmigrata in altro ceto – sembra l’abbia inventata lui: – supponenti bottegai, piccoli minutanti di ogni cosa e orzaroli, impiegati di ministero, sciantose in sedicesimo e gagà da caffè di quartiere. Debiti e pignoramenti, ufficiali del dazio per casa, e tasse, il dominante lamento delle tasse – pettegolezzi, piccole infamie, serve incinte, padrone civette: – coscienza morale zero. E poi, padroncini senza scrupoli e senza nervi, e ragazze che fanno il paio.
La poesia nel dialetto di Roma, con Belli, aveva avuto il potere politico e filosofico di individuare il proprio bersaglio, e una devastante, sontuosa immagine del mondo come scenario metafisico.
Trilussa scrive il suo romanesco accentandolo nel versante della “lagna”, il gergo che si parlava nei palazzi umbertini di piazza Vittorio e del quartiere Prati, poi di piazza Bologna, nei circoli dei canottieri a lungotevere.
Nei confronti della politica tutto va male perché tutto sembra andare bene, perché tutto resta fermo e il governo è un po’ ladro e un po’ no.
La civiltà moderna è un imbroglio: “la Patria, er Re, so’ cose belle assai, / ma la pelle è la pelle... capirai!”
Il mondo di Trilussa è il mondo del “capirai!” (la ‘p’ nasale, la seconda ‘a’ chiusa e stirata quasi a farsi ‘e’ per sprezzo ironico). Ma è anche il mondo dell’accordo completo “sur programma”, appena “mamma / ce’ dice che so’ cotti li spaghetti”.
In questo senso, si possono giustificare le parole di Borgese: Trilussa, “un poeta di sicura forza, che sa esprimere con nettezza e con un certo stridore di amara aridità la sua quotidiana e giornalistica impressione”.
Ma la questione sta tutta lì: in quella “giornalistica impressione”. Perciò, addio poesia – resta, casomai, la letteratura.
[E la Roma di Trilussa è veramente sparita – la Roma in accappatoio della Tevere Remo?]
Popper: “La democrazia consiste nel mettere sotto controllo il potere politico. Non ci dovrebbe essere alcun potere politico incontrollato in una democrazia. È accaduto che questa televisione sia diventata un potere politico colossale, potenzialmente si potrebbe dire anche il più importante di tutti, come se fosse Dio stesso che parla. E così sarà se continueremo a consentirne l’abuso”.
– Ti è piaciuto Cast Away di Zemeckis?
– Non posso dire di no.
– Anche il ritorno dall’isola, la parte conclusiva?
– Certo.
– Perché?
– Cast Away è una parabola sull’impossibilità di troncare i legacci con la logica della società di massa.
– (ridacchia) ...Perché la ragazza non ha aspettato Tom Hanks come Penelope ha aspettato Ulisse?
– Magari anche per quello. E chissà, forse proprio per quello. Forse, malgrado Zemeckis, nel film c’è un contenuto politico...
– (ridacchia soltanto).
– ...È un film algido, con la parentesi tragica dell’incidente aereo ricostruito dall’interno, senza che si capisca, come deve essere nella realtà, quel che sta accadendo. Poi, tempi di montaggio lenti già nelle immagini d’apertura, ancora di più in quelle di chiusura – immagini che negano il convulso trionfalismo retorico, perverso del montaggio televisivo.
– Ne fai una questione di forma?
– Ma quel linguaggio è decisivo per comprendere la visione pessimistica della vita che Zemeckis esprime – di un pessimismo atono, perciò ancora più drammatico.
– (continua a ridacchiare) Con le possibilità spettacolari di una produzione faraonica?
– Nel film, il tempo è sempre brutto, tranne che all’inizio e alla fine. E la vita che i personaggi sono portati a vivere è costrittiva, a Memphis come sullo scoglio nel Pacifico. Scrosci di temporale che si susseguono, poi il tuono perenne dell’oceano sulla barriera corallina: poca musica... Quindi, un metodico vuoto drammaturgico... In fondo, in questo film accade pochissimo: – quel che accade è sempre sul filo dell’iterazione. Hanks si salva: ma è un uomo uscito da un atroce purgatorio, stordito, solo; e si rende conto che, fuori di quel purgatorio, il paradiso non c’è.
– (ridacchia sempre) E poi?
– E poi, la sostituzione di Venerdì con un pallone da football recuperato dal naufragio è una brillante soluzione di sceneggiatura: – quell’invenzione è un omaggio fatto con mano leggera a De Foe, un bel modo di suggerire come il cinema nasca da una costola della narrativa.
– Non mi convinci: accatasti sensazioni, e non riesci ad argomentare.
– Dico che Zemeckis, nelle sue possibilità, ha fatto un film politico – e non è l’unico regista americano a farlo, con una determinazione sconosciuta oggi agli europei. La sicurezza tecnologica è fracassata dalla violenza della natura – e solo la persona, ricondotta al proprio arengo vitale, sopravvive. Cast Away mette in discussione le omologazioni di comodo da cui siamo fasciati nell’esistenza quotidiana – e lo fa ricorrendo a un testo decisivo per la concezione illuminista e liberale dell’occidente, Robinson Crusoe. Zemeckis racconta la residua e disfatta bellezza dell’individualità. Lo fa con talento impositivo sulla platea. Ti pare poco?
– (ridacchia con disprezzo).
Insomma, nell’acido sociologico del film di Zemeckis ritrovo un filosofico spogliarsi dalle illusioni generali. Vi percepisco in trasparenza un’eco lontana dell’amor proprio leopardiano – la sottile speranza in quel che dentro di noi è “per sé”.
“La vita senza amor proprio non può stare in nessun genere di esseri, e in nessuno parimenti può stare l’amor proprio senza un menomo grado d’illusione individuale. La vita dunque e l’assoluta mancanza d’illusione, e quindi di speranza, sono cose contraddittorie” (nello Zibaldone, alla data 7 ottobre 1821).
Per “illusione individuale” il protagonista di Cast Away decide di affrontare con la zattera fatta di propria mano (per “amor proprio”) i rischi della barriera corallina, dopo aver studiato venti e maree con la cura che la solitudine, il terrore di vivere e di morire solo, gli ha affinato. E soltanto il caso gli offrirà il destro di sopravvivere. D’altra parte aveva già deciso: meglio affidarsi ai rischi dell’oceano che impiccarsi a un canapo attorcigliato di mano propria – quel canapo gli servirà per zattera.
Ovidio, Amores, III.14, 1-4
Sei troppo bella perché io ti dica
di non peccare
ma nella mia miseria a che serve saperlo?
Non ti chiedo castità per moralismo
Cerca di fingere
Ti chiedo questo soltanto
Avevo chiuso, due mesi fa, in compagnia di Lorenzo la porta della casa di via Santo Spirito a Firenze. Ho scorciato i tempi, e ho preferito partire con lui in fretta che uscire da solo da quella casa la mattina dopo.
Pioveva. Tornavamo da Viareggio, dal convegno su Tobino. E mi portavo addosso il sentimento di un azzardo tobinesco – forse più sintattico che fisico. Avevo persino deciso nel pomeriggio fra me e me di partirmene l’indomani mattina, di dormire ancora una notte nel letto di Firenze.
Mi sono detto poi che era inutile. Le parentesi vanno chiuse in fretta. In treno abbiano cenato mangiando pomodori e mozzarella.
Adesso ho preso da solo il treno da Firenze verso Roma, dopo aver dormito una notte al Loggiato dei Serviti. La campagna di mattina – e piove – non ha colore: tutto è grigio, e scorre veloce sotto gli occhi mordendo il tempo.
Le extrasistoli mi ruzzolano sotto lo sterno.
Febbraio
L’appeso di Claudio Piersanti è un romanzo politico.
Protagonista è una spia di nome Antonio Cane, che ha il compito di controllare le mosse, e non solo, di un vecchio uomo colpevole di assassini e quant’altro commessi nel periodo più oscuro della nostra storia recente, riapparso dopo un lungo periodo di clandestinità (materia insomma da volume del sen. Pellegrino). Quest’uomo, chiamato Corsini, ha con sé un memoriale, documenti, armi di ricatto con le quali, presi i giusti contatti con alcuni giornali, vuole sconfessare e accusare sodali e servizi, secondo il criterio del “muoia Sansone con tutti i Filistei”.
Tralascio quel che accade a costui, né quel che accade ad Antonio Cane: siamo davanti, tutto sommato, a un “giallo”, un “giallo” d’azione tuttavia percorso da una vena problematica di insidioso tenore – ed è questo che mi importa.
P. non è nuovo a intrecci romanzeschi di questo tipo. Vedi Charles, una storia di fuoriusciti. Charles è romanzo dove la vicenda risulta compressa, condotta in modo che l’autenticità del narratore non venga a galla – è un romanzo che sembra studiare il genere, il genere giallo dico. Ne L’appeso la prospettiva è rovesciata: l’autentico, dolorosamente ironico Piersanti, che muove un italiano parlato al grado zero con una vivacità che impressiona tanto lo rende vivo, ci sta davanti intero.
Ci sta davanti la sua sensibilità, lo sguardo acuto, sulle doglie che l’esistenza impone al cuore, alla mente di chi vive. Il racconto è guidato appunto dagli occhi della spia: lui, in terza persona, quarantaquattro anni, è il punto d’osservazione da cui possiamo seguire, capire quel che accade. Ma costui è poi via via sempre più rintanato, più “appeso” alla nostalgia di un amore – se ne lascia stordire nei languori di una ininterrotta masturbazione onirica, – per cui il compito che gli è stato affidato, e il ruolo conseguente, sbandano dal proprio asse.
Tutto si svolge in una specie di asilo per vecchi e depressi dove ai degenti è offerta una qualche libertà di movimento, ciascuno a tu per tu, nella propria stanza, con le proprie manie e le proprie angosce. Per un verso, quanto accade nel corso della narrazione è paradossale, in una cornice da “Italie magique”; per l’altro, immediatamente, è poi concreto, assillante e devastante come nell’Italia che i concorsi televisivi ci fanno conoscere, un brusio infecondo.
Sale dall’orizzonte, con vero tono di romanzo, l’eco degli anni bui del terrorismo, dei servizi deviati; ma quando una loro trama pare accertata il tratteggio volutamente svapora. La tenia esistenziale che rode l’animo di Antonio Cane, pure nel mezzo di una catena di incidenti, mostra altro: mostra che il tempo distanzia realtà e piaghe, o che quanto dapprincipio era incomprensibile finisce col rimanere tale poiché sarebbe inutile saperne di più. E il passato? Un enigma inestricabile.
Che Piersanti si accanisca su questo tema – che l’uomo si ritrovi sempre in faccia qualcosa che gli sfugge e non domina – è un suo connotato da non mettere in questione. Il tema politico de L’appeso – poiché è politica narrare come il portato della storia sia un vano risucchio del tempo – ha una diversa valenza. Difatti, P. stavolta è ricorso all’invenzione di un luogo di dolore, l’asilo per depressi e vecchi, che ha carattere soltanto simbolico: quel luogo, specchio di una società intera, è un luogo di deriva.
P. ha raccontato come la pressione, la necessità della storia sia, alla conclusione, nel nostro mondo, polverizzata da fiacche ma stringenti pulsioni soggettive; e l’individuo resti in balia di se stesso come un bozzolo di desideri appuntati su sagome di sogno: un uomo-solitudine (secondo l’espressione di Scalfari), prigioniero della propria pelle. E la donna che gli ha rapito il cuore, per esempio, è appena il gracchiare di una voce nell’auricolare di un telefonino, non ha nome: si chiama “Lei”.
Ma c’è un altro verso per cui il romanzo di C.P. è “politico” – l’indecifrabilità della cosiddetta strategia della tensione ricadrebbe intera nell’enigma metafisico che fascia l’esistenza dell’uomo.
Il libro del sen. Pellegrino dice a questo proposito che i fatti sono avvenuti, e anche molteplici responsabilità sono state accertate: – talvolta però non sappiamo perché questi fatti avvennero. “Doppia lealtà” sia dei dc sia dei pci, come suggerì Franco De Felice? Questo spiegherebbe perché si poté studiare che certi fatti avvenissero, – rispondendo però a quali logiche?
L’enigma non è metafisico, ma dovuto forse alla terrena, leopardiana “strage delle illusioni”, così connaturata, sempre per Leopardi, al carattere degli italiani, ecc.
La parola Italia (Appunti per l’intervento al Convegno di Firenze, 15 febbraio).
A Firenze, negli anni Venti e Trenta di due secoli fa, al Vieusseux si discuteva di quel che gli italiani – che avevano voglia di esserlo politicamente e intellettualmente – avrebbero portato in una possibile, futura Italia una: – quali idee, quali esperienze personali ma quale idea di stato, quali valori morali e conoscitivi. Ne parlavano liberali e cattolici democratici, laici di tradizione illuminata.
Ho avuto idea di questo convegno a somma di considerazioni che vedevano da un lato un paese teso a farsi parte d’Europa (cosa portare come italiani in Europa?); e dall’altro un paese in sé fortemente diviso, distorto da egoismi rissosi che andavano a mettere in discussione storie e storia, valori e valore della stessa unità nazionale – dati che sembravano acquisiti una volta per sempre e per tutti, attraverso il lungo travaglio dei due Risorgimenti.
Dico due Risorgimenti. Appartengo a una generazione che per lo più ha appreso a dare nel tempo dell’adolescenza, della giovinezza, correndo la fine degli anni Quaranta e i Cinquanta, alla parola Risorgimento il significato esistenziale che le diede Leopardi nella sua serena esperienza pisana.
Mi convinsi che il sorriso della vita è stato offerto al nostro paese una prima volta dal “Va pensiero” di Giuseppe Verdi, quindi restit...
Indice dei contenuti
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