
- 406 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Informazioni su questo libro
Partendo da un manoscritto autentico, Franco Cardini, il più illustre medievista italiano, ricostruisce in forma romanzata ma attendibile l'avventurosa storia di un crociato che si reca in Terrasanta. Tre anni di viaggi e di battaglie, di infamie e d'amore, in una narrazione dallo straordinario fascino.
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Informazioni
IV
Veglia d’armi
Mathilda, Dei gratia si quid est. Lei si firmava così; suonano così le sue sottoscrizioni ai documenti solenni. I dotti la chiamavamo ora Mathilda, ora Mathildis; per la gente d’Oltralpe era la «Margravia», com’essi traducevano, storpiandolo nel loro barbaro idioma, il titolo di marchionissa che gl’italici rendono col termine «marchesa». Ma non era cosa rara sentirla chiamare, in Toscana, anche duchessa, secondo il vecchio uso longobardo.
Era nata dal sangue più chiaro e nobile della Cristianità: ultimogenita, come sempre sono i prediletti. Suo padre era Bonifacio duca di Tuscia, sua madre Beatrice duchessa di Lorena. Fiera della sua appartenenza al casato dei conti di Canossa, la rocca avita del padre, amava il semplice titolo di contessa. Per questo la gente del suo tempo la chiamava Magna Comitissa, la Gran Contessa, così come chiamava «il Gran Conte» quel Ruggero d’Altavilla fratello di Roberto il Guiscardo che in quegli stessi anni stava completando la conquista della Sicilia strappandola ai musulmani in una serie di epiche battaglie durante le quali non disdegnavano di apparire i santi Giorgio, Teodoro e Michele arcangelo; in un caso perfino la Vergine Maria. Allo stesso modo, del resto, molti anni prima l’apostolo Giacomo, il corpo benedetto del quale è venerato a Compostela in Galizia e che è meta di tanti pellegrinaggi, si era mostrato in battaglia apparendo armato a cavallo, un fulgido vessillo nella sinistra, nella destra una spada che faceva rotolar tra gli zoccoli dell’animale decine di luride teste di mori. Matilde non aveva mai avuto occasione di combatter gli infedeli: ma Dio le aveva comunque mostrato il suo favore, con ciò assicurando che la sua causa era buona, allorché nell’ottobre del 1092 lo scomunicato imperatore Enrico IV, assetato di vendetta, aveva assediato la rocca di Canossa senza poterla conquistare perché una nebbia miracolosa l’aveva protetta sottraendola allo sguardo suo e dei suoi sgherri. In questo modo l’empio sovrano aveva dovuto ripiegare, più o meno a cinque o sei miglia dalla rocca: sul posto sarebbe sorto, a ringraziar il cielo per il pericolo scampato, il santuario della Madonna della Battaglia.
Enrico aveva le sue distorte ragioni per odiar Matilde e Canossa: era proprio lì che quindici anni prima del vano assedio, alla fine del gennaio del 1077, egli aveva dovuto sostare a lungo, negli stracci del penitente e a piedi nudi, implorando il perdono dal papa Gregorio che nella rocca soggiornava ospite della marchesa. Era stato soprattutto grazie alle preghiere insistenti di Matilde e del pio Ugo abate di Cluny che il pontefice aveva accettato di riammettere quel reprobo nella comunione dei fedeli e gli aveva personalmente amministrato l’eucarestia. Tutti sanno con quale slealtà il tiranno, appena possibile, era tornato come il cane al suo vòmito: nel 1084 era disceso rapace su Roma, aveva preso la corona imperiale dalle mani del suo complice Guiberto da Parma, da lui fatto elegger papa dei simoniaci, nonostante fossero ben consci entrambi – miserabili – dell’atto blasfemo che stavano compiendo, loro entrambi scomunicati! Solo l’arrivo del fedele vassallo di papa Gregorio, il valoroso Roberto normanno, aveva consentito al papa di liberarsi dall’assedio che gli scismatici gli ponevano nella sua stessa città e di riparare a Salerno. E lì sarebbe morto in esilio: pagando così il fatto di aver sempre amato la giustizia e odiato l’iniquità.
In tal modo il padre Ranieri aveva riassunto, per Rimondino e per tutta le gente del seguito del conte Guido, le vicende dell’ultimo ventennio, quelle che avevano avuto la Gran Contessa protagonista. A dire il vero, al ragazzo del Pratomagno era parso che né il conte Guido, né soprattutto lo scudiero Astolfo seguissero sempre con approvazione quanto il vallombrosano andava dicendo con passione; qualche rapido aggrottar le ciglia, un certo schiarirsi a tratti la voce, gli sembravano segnalargli che soprattutto Astolfo era insofferente di quel modo di ricostruire i fatti. Il giovane Guido Guerra, al contrario, ne pareva entusiasta; e Rimondino, temendo di mancar di discrezione, non aveva posto domande.
D’altra parte, la verità dei fatti gl’interessava poco. E lo coinvolgevano poco anche le malsane curiosità che sentiva circolar tra gli armigeri e i servi del conte. Era vero che l’imperatore si fosse follemente innamorato di Matilde, che essa al contrario lo disdegnasse e avesse invece concesso i suoi favori al vecchio e iracondo Gregorio? Era vero che fosse un’amante spregiudicata e instancabile, e che avesse adottato come figlio Guido Guerra perché suo padre il conte era stato uno dei suoi ultimi favoriti; o addirittura, come malignamente insinuava qualcuno del seguito, perché era il giovinetto a piacerle?
Rimondino ascoltava non senza una curiosità forse morbosa queste chiacchiere: ma esse lo mettevano a disagio più di quanto non riuscissero a eccitarlo. Per lui, Matilde era come la contessa Ermellina, ma molto più in alto: era una dama circonfusa d’oro e d’azzurro, qualcosa da venerare al pari della Vergine Maria. La immaginava bellissima, i capelli d’oro sotto la corona gemmata, lo scettro nella mano e il gesto imperioso.
La vide poi da presso, un paio di giorni dopo l’arrivo della comitiva sotto le mura di Lucca. Il conte aveva fatto montare il suo padiglione sulla riva del Serchio, in un luogo adatto ad abbeverare i cavalli, attingere acqua, prender dei bagni e darsi alla pesca: le mura erano là, poco vicino. La contessa aveva a un mezzo miglio da lì un suo palazzo, non sontuoso ma forte e comodo: tuttavia, per un atto di rispetto e di gentilezza nei confronti del vescovo e dei più ragguardevoli cittadini, non era penetrata all’interno del perimetro murario al fine di non dar l’impressione di voler riaffermare il suo diretto dominio sulla città. Il conte andò a visitarla: e Rimondino ottenne, grazie ai buoni uffici di Astolfo, di far parte del seguito. Per l’occasione gli avevano fornito un giubbone di spesso panno rosso cupo dal bordo ricamato e strette brache dello stesso colore; il ragazzo vi aveva aggiunto il cinturone col suo bel coltello da caccia e si pavoneggiava. Chissà se la Gran Contessa l’avrebbe notato, se davvero era così ghiotta di maschi giovani come dicevano gli armigeri...
La signora si fece incontro a Guido molto semplicemente, a piedi, accogliendolo sul portone del palazzo: in verità un modesto edificio rispetto a quelli, sacri e no, che Rimondino aveva visto in città. Il giovane si pentì e si vergognò di quel che aveva pensato dando ascolto a quelle bestie dei servitori. Per qualche istante, poté vederla da vicino mentre s’inginocchiava come tutti al suo cospetto. Dinanzi a lui c’era una donna quasi vecchia, che dimostrava per intero i suoi cinquant’anni. Era esile, curva, quasi che il suo lungo abito d’un color bruno prugna le pesasse indosso. La veste era fornita d’un cappuccio sobriamente ricamato, con il quale essa copriva un sottostante velo bianco che le nascondeva dei capelli impossibili a immaginarsi se non grigi. Aveva pallidissimo il volto, illuminato solo da due grandi occhi infossati ma vivi d’intelligenza, d’una luce azzurra leggermente opaca, come il dorso di certe felci dei boschi di montagna. Le mani erano coperte da guanti della stessa stoffa e dello stesso colore dell’abito; quando si tolse il destro per porger la mano al bacio dei convenuti, Rimondino vide – e per un istante ebbe tra le sue – una mano che sembrava la reliquia d’una santa: piccola ma dalle dita lunghissime, diafana, candida, percorsa da una rete di venuzze azzurre. Freddissima.
Che cosa si fossero detti, la marchesa e il suo vassallo, Rimondino era mille miglia lontano dall’immaginarselo: e, del resto, non se lo chiese neppure. Ma Astolfo, che certo sapeva qualcosa e forse molto, per tutta la sera successiva rimase d’uno strano umore, tra l’eccitato e il preoccupato. Un umore che rispondeva poco alla sua indole sicura di sé, tranquilla, allegra.
Era chiaro a tutti che la marchesa accoglieva, nel suo sobrio palazzo, un ospite. Attorno all’edificio v’erano armati troppo numerosi, e troppo guardinghi, per ritenere potessero appartenere al solo seguito della signora; s’incrociavano fra loro modi di parlare troppo diversi, estranei comunque alla Tuscia, per poter far pensare che l’ospite non venisse da lontano. E c’era anche un andirivieni di chierici e di monaci eccessivo perfino per chi, come Matilde, godeva fama di profonda pietà religiosa e di grande affetto per la Chiesa.
Il giorno dopo, di buon’ora, Astolfo e Ranieri, nella stessa tenda dei quali dormivano Rimondino e tre servi, si alzarono di buon’ora e si vestirono rapidamente. «Ti aiuto, signore...», aveva azzardato il ragazzo; «Qui non ci sono signori. Dormi», lo aveva rimbeccato burbero lo scudiero. Avevan lasciato la tenda in gran fretta: e Rimondino, spiando, li aveva visti aspettare davanti al padiglione. I due conti ne erano usciti poco dopo e, con cinque o sei cavalieri, erano montati a cavallo e avevano spronato rapidi nella direzione della Francigena verso nord, cioè verso il passo del monte Bardone.7 Erano tutti armati, padre Ranieri portava con sé una croce astile di rame che conteneva una reliquia di sant’Ilario – Rimondino conosceva bene quell’oggetto – e Astolfo inalberava l’insegna scarlatta del conte, il vexillum simbolo del suo potere di banno. La banderia, come la chiamavano cavalieri e armigeri. Non andavano certo a scontrarsi con qualcuno, per quanto fossero armati: avevano piuttosto l’aria di chi si reca a un incontro ufficiale.
Tutta Lucca infatti ferveva d’attesa. Il ragazzo era penetrato nel pomeriggio all’interno delle mura, aveva raggiunto la chiesa di San Martino, aveva pregato dinanzi al Santo Volto e aveva ascoltato in giro chiacchiere e dicerie. Aveva attaccato discorso con chierici, mercanti, pellegrini e mendicanti. Aveva imparato come la santa immagine fosse giunta dalla Terrasanta, misteriosamente navigando o galleggiando, sino al porto di Luni; come da quella città dalle origini pagane, e perciò maledetta e ormai in rovina, essa fosse stata poi trasferita a Lucca, e come si dicesse che in esso albergavano delle reliquie della Passione che non si erano mai potute però trovare. Apprese anche molte leggende, come quella del povero giullare che aveva cantato e suonato ai piedi dell’immagine in suo onore e al quale il Cristo ligneo, alla fine del canto, aveva lanciato in dono quale ricca ricompensa uno dei calzari tempestati di gemme che portava ai piedi. Si diceva che nel sud della Tuscia, in un luogo chiamato appunto Sansepolcro in onore del più santo dei santuari di tutta la Terrasanta, vi fosse un altro crocifisso simile a quello lucchese, non scolpito cioè da mano d’uomo (alcuni però sostenevano che quelle immagini erano opera di Nicodemo, il discepolo pavido ma fedele...): ma non così somigliante al Cristo come quello. Nel portico d’ingresso di San Martino, poi, gli era stato mostrato un disegno profondamente inciso sulla pietra della parete. Era un cerchio fatto di molti altri cerchi concentrici, che ripeteva – gli avevano spiegato – il tracciato di un palazzo che si trovava in antico nell’isola di Creta, oggi nelle mani dell’imperatore dei greci. Quel palazzo si chiamava Labirinto ed era sede di un demone dalla testa di toro detto Minotauro: era difficile entrarvi e impossibile non perdervisi; c’era riuscito tuttavia un cavaliere di nome Teseo in quanto la sorella del mostro, di nome Arianna, si era innamorata di lui e lo aveva fornito di un magico filo col quale era stato facile ritrovare l’uscita. Molti pellegrini dicevano di aver visto spesso questi labirinti, nelle chiese; padre Ranieri aggiungeva che secondo una leggenda anche la tomba di un antico re di Tuscia, tale Porsenna da Chiusi, era un labirinto sotterraneo. Questa fiaba pagana aveva comunque un profondo significato: il Labirinto era difatti il simbolo del pellegrinaggio a Gerusalemme, minacciato da ogni sorta d’insidie ma che pur si poteva condurre a buon compimento se si era aiutati dalla grazia divina, significata dal magico filo. Anzi, aveva aggiunto un chierico, più che del pellegrinaggio il Labirinto poteva indicare il viaggio stesso della vita umana; ma era lì a ricordare il pellegrinaggio perché a Lucca facevano tappa molti pellegrini dal nord o dal sud: i primi diretti a Roma da cui molti proseguivano per i santuari di San Michele del Gargano e di San Nicola di Bari, quindi per Costantinopoli e Gerusalemme; i secondi intenzionati invece a visitare San Michele della Chiusa in Piemonte e di lì a raggiungere Santa Fede a Conques e poi magari San Giacomo di Compostella in Galizia.
Verso sera, quando Rimondino e gli amici stavano per volgere i passi verso il loro accampamento, la città si animò inaspettatamente: le torri si accesero di lumi, dappertutto si sentiva cantare e gridare, l’aria si animò di suoni di campane e di corni e di rumor di timpani mentre dalla chiesa di San Frediano il clero cittadino usciva in processione incontro a qualcuno evidentemente degno di grande onore.
Giunsero, infatti, in una selva di vessilli e di lance. Il conte Guido cavalcava con loro, in una nube bruna di polvere che il tramonto tingeva di riflessi dorati. Rimondino non aveva mai visto tanti armati, tanti bei colori, tante fulgide vesti; gli passavano dinanzi le lance alte e brune dai pennoncelli colorati e i lunghi scudi a mandorla che i cavalieri tenevano con la punta appoggiata al piede sinistro. Erano scudi rossi, verdi, bianchi, azzurri, decorati da umboni di metallo dorato, argentato, brunito, e rinforzati da borchie metalliche sagomate a forma di fiore, di stella, di drago, di serpe.
Cavalcava dinanzi a tutti un gruppo di araldi, ciascuno recante un’insegna: ma Rimondino seppe riconoscere solo quella del suo signore. Quindi, su una giumenta saura, caracollava un giovane cantore dallo sguardo fiero e beffardo, i capelli rossi lunghissimi, un abito a strisce gialle e verdi ornato di campanelli d’argento, una gran pelliccia di volpe buttata dietro le spalle e tra le mani una grossa cetra. Cavalcava sicuro, le redini abbandonate sul collo della bestia il passo della quale sembrava seguire e ritmare il canto:
L’imperatore fa suonare i corni.Scendon di sella i suoi francesi, e indossanousberghi, ed elmi, e spade ornate d’oro.Han begli scudi, e spiedi grandi e forti,bianchi e vermigli e azzurri i gonfaloni...S’è fatto chiaro il vespro e chiaro il giorno.E le armature splendon contro il sole;usberghi ed elmi gettan gran fulgore,come gli scudi, ben dipinti a fiori,come gli spiedi e i gonfaloni d’oro...Son alti i poggi, e tenebrosi, e grandi,le valli fonde, e precipitan l’acque.Si fa un sonar di trombe, da ogni parte,e ogni tromba fa eco all’olifante.
Rimondino fu colpito dal fatto che, su molti degli elmi a cono e su molti degli scudi portati da quei cavalieri, fosse dipinta una semplice croce. Non si trattava di un ornamento accurato; anzi, era come eseguita con due rapidi colpi di colore. Allo stesso modo, sui manti e sulle vesti di quasi tutti quelli del seguito e sugli abiti d’una folla innumerevole di pellegrini disarmati che seguiva la truppa a cavallo – i più erano uomini, ma vi abbondavano anche i ragazzi, i vecchi, addirittura le donne e i bambini –, tornava lo stesso motivo: una semplice croce, il più delle volte due liste sottili di panno scarlatto cucite in modo da formare il santo segno; qualcuno, più raro, aveva invece ricamato la croce all’altezza della spalla. Il colore del simbolo era di solito il rosso, ma ve n’erano alcuni anche di tinta diversa.
I capi del corteo erano scesi dinanzi a San Frediano; poco più tardi – l’aria era ormai bruna, e brillavano già le prime stelle –, in un fragor d’armi battute contro gli scudi e i giachi di ferro e in un fulgore di torce che si riflettevano sul metallo, era giunta alla chiesa, attesa e accolta dal nuovo vescovo della città – dissero si chiamasse Rangerio – anche la contessa Matilde.
La città era preda della più grande agitazione. La maggior parte degli armati e tutti i pellegrini avevano dovuto restar fuori le mura; attorno ad esse, sui bordi del grande fossato che le cingeva, si stavano dovunque accendendo fuochi e drizzando febbrilmente accampamenti di fortuna. I gran signori giunti sarebbero rimasti quella notte ospiti del vescovo e dei prelati cittadini; altri avrebbero trovato asilo presso la marchesa o nei molti ospizi che si ergevano in città e nei suoi immediati dintorni; ma i più, e la totalità dei poveri pellegrini, si apprestavano a passar la notte all’addiaccio. Era, del resto, appena la fine d’ottobre; tirava una lieve brezza di mare e il clima della piana presso il Tirreno era dolce.
Quella notte, però, non ci furono alloggiamenti che tenessero: tranne i capi guerrieri, il vescovo e la signora, a Lucca non dormì nessuno. Gli armigeri e i servitori dei nuovi arrivati, così come i pellegrini, erano subissati di domande. La maggior parte di loro rispondeva in una lingua che a Lucca come in tutte le città attraversate dalla Via Francigena era abbastanza abituale, e che del resto aveva qualche somiglianza con quella parlata dai toscani: era l’idioma dei franchi del nord, quelli che abitavano più o meno – spiegavano i mercanti, gente che aveva viaggiato – tra il fiume Mosa, il fiume Loira e il grande oceano. Di solito lo si definiva francesco, o francese, appunto perché parlato dai franchi occidentali; mentre quelli orientali usavano un idioma teutonico, quello nativo dell’imperatore Enrico IV e della madre della contessa Matilde, che del resto parlava l’una e l’altra lingua al pari della figlia.
Si venne così a sapere chi erano i signori giunti dal nord, ma la gente stentava a crederlo. Si trattava anzitutto di Ugo detto «il Grande», sire di Vermandois in Francia, che era fratello di Filippo re di Francia ma che evidentemente stava facendo la strada di Roma per impetrare dal vicario di Pietro il perdono per il suo sciagurato congiunto, scomunicato perché aveva rubato la moglie del conte d’Angiò, Bertrada, e viveva in concubinato con lei. Lo accompagnavano Roberto detto «Cortacoscia», duca di Normandia e figlio di quel duca Guglielmo che trent’anni prima aveva conquistato l’Inghilterra (il fratello minore di Roberto, Guglielmo detto «il Rosso», era appunto re della fredda Inghilterra; e anche la sua ortodossia era dubbia); il cognato del duca Roberto, cioè Stefano conte di Blois e di Chartres, che tutti dicevano il signore più buono e generoso dell’intera terra dei franchi; infine Roberto conte di Fiandra. Provenendo dalla Francia, da dove erano partiti sul finir dell’estate, avevano varcato le Alpi a quel passo che gli antichi e i dotti chiamavano Mons Jovis (e la gente del posto «Gran San Bernardo») e quindi, attraverso Aosta, Ivrea, Vercelli, erano giunti alla città nella quale s’incoronavano i re d’Italia: Pavia. Avevano passato il Po a Piacenza – e ci avevano messo parecchi giorni perché, tra armati e pellegrini inermi diretti a Roma che s’erano accodati alle truppe, erano parecchie migliaia – e attraverso Borgo San Donnino e la valle del Taro erano giunti all’Appennino che avevano varcato al Monte Bardone. Lì, dinanzi alla chiesa del luogo detto Berceto, avevan trovato una gran ressa di gente del posto che offriva loro canestri pieni del frutto più ricercato di quei boschi, dei grossi funghi; e avevano inoltre incontrato i vassalli e i messi della marchesa di Toscana ad accoglierli. Tra loro, Rimondino sapeva ora che c’era anche il conte Guido: e invidiava Astolfo, che gli raccontava delle gran bevute di vino rosso frizzante e della gran mangiata di funghi e di cacciagione che i chierici e la gente di Berceto avevano apprestato per tutti, dei canti che s’erano intonati, delle novità straordinarie dall’Oltralpe. Ormai, sapevano tutto: anche il nome del misterioso ospite di Matilde, che fino ad allora non era entrato in Lucca, anzi non si era neppur mostrato. I francesi dicevano che era sceso dalle Alpi con loro, ma precedendoli e facendo frequenti deviazioni. A Lucca c’era un appuntamento, era chiaro: ma soltanto i capi dovevano saperlo.
Attorno ai fuochi dei bivacchi, presso il fossato delle mura, si discuteva animatamente. Padre Ranieri aveva fatto casualmente amicizia con un chierico francese al seguito del conte Stefano: gli aveva parlato d’una sua visita a Chartres di qualche anno prima e del suo stupore dinanzi al grande santuario che si stava costruendo sulla cripta sotterranea dov’era venerata una piccola statua annerita della Vergine Maria, nota per i miracoli e conosciuta, si diceva, fin dal tempo dei pagani. Del resto, Ranieri spiegava che fino dai tempi degli antichi dèi, al cospetto del pio imperatore Augusto, il mago e profeta Virgilio aveva annunziato che una Vergine avrebbe partorito un Bambino e che tale evento mirabile avrebbe segnato un rinnovamento in tutto il mondo.
Al sentir parlare di Chartres, il chierico di Stefano s’era illuminato: quella era appunto la sua città, il suo nome era Fulcherio e il conte lo aveva condotto con sé per due motivi: anzitutto, avrebbe dovuto scrivere ogni giorno una lettera per la consorte del suo signore, la contessa Adele, ch’era figlia del conquistatore d’Inghilterra e sorella quindi del duca di Normandia; e po...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- L’avventura di un povero crociato
- I. Il giorno del sole nero
- II. Vita di luparo
- III. Verso il Santo Volto
- IV. Veglia d’armi
- V. La Via Francigena
- VI. Mirabilia Urbis, miserabilia Urbis
- VII. Notizie sui Poveri di Dio
- VIII. Verso il monte dell’Arcangelo
- IX. L’Arcangelo e il Taumaturgo
- X. Un viaggio, una breve sosta e molte notizie
- XI. La Nuova Roma
- XII. Una lezione di orientalistica
- XIII. Nicea
- XIV. Dorileo
- XV. Attraverso la solitudine
- XVI. La «montagna del diavolo»
- XVII. Preghiere e peccati
- XVIII. La città di san Pietro
- XIX. La regina di Saba
- XX. La torre «delle due sorelle»
- XXI. Una Santa Lancia?
- XXII. Regno dei Cieli, briciole di terra
- XXIII. Il Giudizio di Dio
- XXIV. La vergogna e la gloria
- XXV. Ritorno tra i lupi
- Al lettore
- Note
- Copyright