Magazzino 18
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Magazzino 18

  1. 180 pagine
  2. Italian
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Magazzino 18

Informazioni su questo libro

Montagne di sedie aggrovigliate come ragni di legno. Legioni di armadi desolatamente vuoti. Letti di sogni infranti. E poi lettere, fotografie, pagelle, diari, reti da pesca, pianoforti muti, martelli ammucchiati su scaffalature imbarcate dall'umidità. Questi e innumerevoli altri oggetti d'uso quotidiano riposano nel Magazzino 18 del Porto Vecchio di Trieste. Oltre sessant'anni fa tutte queste masserizie furono consegnate al Servizio Esodo dai legittimi proprietari, gli italiani d'Istria, Fiume e Dalmazia, un attimo prima di trasformarsi in esuli: circa trecentocinquantamila persone costrette a evacuare le loro case e abbandonare un'intera regione in seguito al Trattato di pace del 10 febbraio 1947, che consegnò alla Jugoslavia di Tito quel pezzo d'Italia da sempre conteso che abbraccia il mare da Capodistria a Pola. Di questa immensa tragedia quasi nessuno sa nulla. Delle foibe, delle esecuzioni sommarie che non risparmiarono donne, bambini e sacerdoti, della vita nei campi profughi e del dolore profondissimo per lo sradicamento e la cancellazione della propria identità pochissimi hanno trovato il coraggio di parlare nei decenni che seguirono.
Eppure è storia recente, a portata di mano e soprattutto abbondantemente documentata: basta aprire le porte del Magazzino 18. Porte che Simone Cristicchi ha spalancato.
Togliendo la polvere dagli oggetti, il «cantattore» romano ha ritrovato le storie più commoventi e significative e le ha «rimesse a nuovo» per poi raccoglierle qui: Norma, figlia di un fascista, violentata e poi scaraventata in una foiba con i seni pugnalati; Mafalda, caricata con altre centinaia di prigionieri su una nave lanciata verso mine galleggianti; Marinella, la bambina di appena un anno morta di freddo in un campo profughi vicino Trieste; Geppino Micheletti, medico che prestò soccorso ai sopravvissuti della strage di Vergarolla nella quale aveva appena perso i suoi due figli; l'insegnante che decise di vivere in Jugoslavia per costruire la Rivoluzione e finì «rieducato» nel lager comunista di Goli Otok e tanti altri.
In questo libro di forte valore civile, Cristicchi ha il doppio merito di coinvolgerci in un vortice di emozioni e di «riattaccare» ai libri di storia queste pagine colpevolmente strappate o omesse.
Pagine che invece vanno lette e tenute a mente perché contengono la storia di chi fu italiano due volte, come scrisse Indro Montanelli, «la prima per nascita, la seconda per scelta».

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
Print ISBN
9788804638551

Prima dell’esodo

Persichetti archivia tutto!

Armadi, panche, la catasta de sedie che sembra un ragno gigante, tegamini, vasi co’ dentro bottoni, pezzi de spago, aghi, un torchio arrugginito. Ma che è, un mercatino delle pulci? Altro che Porto Vecchio, questo pare Portobello.
«Pronto? Ah, Dottò, è lei, bonasera. Sì, qui è Persichetti. A posto, Dottò. A Trieste so’ appena arrivato, sì, ar Porto Vecchio. E me so’ pure spaventato! Qui tira un vento che te se porta via, che si nun m’attaccavo ar lampione, m’aritrovavo a parlà co’ lei a Roma... de persona. Alla dogana? Nessun problema. Ho fatto vedé er tesserino der Ministero, er permesso che m’ha firmato lei. Sì, er magazzino è quello giusto: numero 18 m’aveva detto, no? Ahò, appena so’ entrato c’era er comitato de benvenuto: certi sorci che sanno legge’ e scrive’. Che dice, je famo gestì la Toponomastica?
«Poi, vedesse, è tutto buttato alla rinfusa: vetri rotti, carcinacci, ’na massa de mobbili, robba vecchia, marcia. Vabbe’ che lei me chiama sempre pe’ fà ’sto tipo de lavoretti “speciali”, ma in tanti anni de onorato lavoro come archivista, a me ’na cosa del genere mai m’era capitata. Pare come... un trasloco. Sineee, deve sta’ tranquillo, altrimenti che me chiamava a fà? Parlamose chiaro: Persichetti archivia tutto, pure i pidocchi. Dice de parlà a voce bassa? Ma guardi che qui nun c’è nessuno. Nun è che ce pò entrà chiunque, sa? Anzi, me sa tanto che saranno vent’anni che qui dentro nun ce passa anima viva. Giusto li sorci. Sì, lo so che ’sta cosa deve rimané tra me e lei, che nun ne devo fà parola co’ nessuno... e io muto sto! Come sempre. Ma dopo tanti anni che me conosce, se vole fidà o no de Duilio Persichetti? Come dice? Quanta robba c’è? A occhio e croce saranno dumila metri cubbi de robba. Guardi, Dottò, jelo dico subbito, che qui me ce vorrà un mese per fà l’inventario de tutto. Lei nun c’ha idea der casino che regna qui dentro. Tre giorni al massimo? Ma che è uno scherzo? E chi je la fa, co’ tutta la bona volontà. M’avete preso pe’ ’no svuota cantine?
«Certo Dottò, scusi Dottò, subbito Dottò. Me dica lei, me dica lei, me dica lei. Cominciamo dalle sedie? Come vuole. Ne prendo una a casaccio e le dico, ce ne saranno trecento. Ecco: allora guardi, sotto alla sedia c’è scritto acomìn... A-CO-MIN, AGENZIA COMMERCIALE MARITTIMA INTERNAZIONALE – SERVIZIO ESÒDO. Poi c’è un nome: Biasiol Ferdinando. Il numero della persona: 2154. Il numero de colli: 26. E poi il numero de collo: questo era il collo numero 20. Ecco, che j’avevo detto? Era un trasloco! No, no, no, per carità, io nun so niente, nun vojo sapé niente. Io lavoro coi numeri, sbrigo le pratiche, me faccio l’affari mia. Però, me faccia pensare... Ferdinando Biasiol: sarà er padrone della sedia, immagino. O al limite er costruttore della sedia, er falegname, insomma. Ma allora ’sta scritta ESÒDO, che vorrebbe dì? Come le favole de Esòdo? Quello de la cicala e la formica, er topo de campagna e er topo de città? Perché qui in mezzo ’sti animali ce stanno tutti, sa?
«Ah Èsodo, co’ l’accento che gioca d’anticipo. E che intende esattamente? Perché io la parola “esodo” l’ho intesa nominà solo sulla Bibbia, ha presente? L’esodo dei cosi, là... er libbro che ha pubblicato Mosè. Mmm... come dice? Aaah! “Giuliano Dalmata”... e chi nun lo conosce? A Roma j’hanno dedicato pure un quartiere, no? Lo so, lo so che nun devo fà domande, ma ’na cosa jela devo chiede’, Dottò, è ’na curiosità mia personale, sempre se me posso permettere. Certo che doveva esse’ ’na personalità importante, se addirittura s’è smosso er Ministero pe’ fà sparì... Me dica un po’, ma chi era? Un politico? Un filosofo? Un letterato? Insomma, Dottò, se pò sapé chi era ’sto Giuliano Dalmata?
«Come non detto. Ha raggione, comincio subbito. Arrivederci, arrisentirse Dottò.»
Ammazza com’è permaloso. Che poi, che avrò chiesto mai? Intanto famme avvisà mi’ moje che so’ arivato. Era tanto preoccupata, je pareva che annavo in zona de guera. Trieste je sonava lontana come la Sibberia, me voleva fà rinnovà pure er passaporto.
«Pronto, Adele? Senti qua che ho trovato stamattina. So’ passato davanti a un’agenzia de viaggi: ce stavano quelle offerte appese alla bacheca, i cosi là... i las minu! Offerta speciale sette notti a Novigrad duecentonovantanove euro, all inclùsive, vor dì tutto compreso. Altro che Bagni Duilio a Ostia: la Croazia! La Slovenia! Adeleee! Ecco er posto dove annà in villeggiatura l’estate prossima. Tu nun poi capì che mare c’è in Croazia! L’acqua trasparente, mejo della Sardegna. Sarà che nun je davo ’na lira, e invece... E sta solo dall’altra parte dell’Adriatico!
«Se chiama Novigrad. No, non fa freddo... d’estate faranno almeno trentagrad. Tu vedessi su ’sto dépliant, tutte ’ste città de mare antiche, piene de storia. Rovinj è un borghetto de mare che è un bijoux. Pare Venezia in miniatura. C’è l’imbarazzo della scelta, Adè! Riggièca, per esempio, è ’na città co’ un ber fiume che je passa in mezzo. Koper, che poi sarebbe Capodistria, invece... No ma quali aculei? L’Istria è ’na regione, mica solo un animale. Pula? Hai da vedé che anfiteatro romano che c’è! La fine der monno. A me me pare proprio er Colosseo, tale e quale spiccicato. Più piccolo però. Ahò, se vede che noi romani semo passati pure da quelle parti dumila anni fa. Adesso famme lavorà, poi te richiamo, Adè.»
Allora, iniziamo la praticaccia co’ la prima cassa. Sopra c’è scritto PRIMA DELL’ESODO: è piena de buste chiuse. Che faccio, apro? La uno, la due o la tremila?

La Risiera di San Sabba

Ecco, questa storia va presa alla larga e con le pinze, perché c’entra tutto e non c’entra niente con l’esodo. Nel senso che serve a capire certe ragioni d’odio fra fascisti e titini ma in nessun caso assolve gli orrori degli uni e degli altri. Gli orrori sono orrori e basta, non hanno colore se non il rosso del sangue versato. Ché, se vai a vedere bene, quelli che i crimini li hanno commessi, spesso non sono quelli che poi li hanno pagati. E poi, quando il rancore è generalizzato, la vendetta dà i numeri, così a caso, e quando si procede per numeri, a pagare sono le persone più comuni, che non decidono niente ma subiscono le decisioni altrui.
I fascisti e i nazisti con gli slavi si sono comportati in maniera disumana. Ad Arbe, tra l’agosto e il dicembre del 1942, morirono centosessantaquattro bambini, circa 4641 vittime in tredici mesi. In più c’era stato il ventennio di Mussolini, duro, oppressivo. Crollato il regime fascista e con l’occupazione tedesca, dopo l’8 settembre 1943, la Repubblica di Salò cedette ai nazisti Trieste, Gorizia, Udine, Fiume, Pola, Lubiana. Questa zona, chiamata Litorale adriatico (Adriatisches Küstenland), fu direttamente amministrata dal Reich, affidata da Hitler a Friedrich Rainer e a vari «specialisti», professionisti d’atrocità che si erano già distinti altrove, in varie operazioni di sterminio. Passarono così alle dipendenze delle SS le formazioni della milizia fascista, prefetti, podestà e i vari reparti di polizia impiegati nelle operazioni di rastrellamento. Molto conosciuto era l’Ispettorato speciale di pubblica sicurezza, comandato dall’ispettore generale Giuseppe Gueli, il cui squadrone della morte prendeva il nome di «banda Collotti», che praticava violenze, torture e forniva «preziosa» collaborazione ai tedeschi. Gli obiettivi erano ebrei, bande partigiane slave e italiane, antifascisti, ribelli e parenti dei ribelli, civili. In realtà c’era anche la mira strategica di espandersi al Sud e di annettere la parte meridionale del Paese al grande Reich.
A Trieste fu allora requisita la Risiera nel rione di San Sabba, una volta stabilimento per la raffinazione del riso, che divenne prima campo di smistamento per le deportazioni nei lager tedeschi e poi campo di sterminio. Vennero costruite le celle e l’essiccatoio fu trasformato in forno crematorio: la ciminiera era alta quaranta metri e fu collaudata il 4 aprile 1944 con i settanta cadaveri degli ostaggi fucilati il giorno precedente al poligono di Opicina. Si cremavano non solo partigiani e politici, ma anche semplici civili, uomini e donne. Gli ebrei venivano uccisi qui o spediti ad Auschwitz.
Marta aveva diciassette anni e lunghe trecce. Fu arrestata con la famiglia perché il suo cognome era di origine ebraica. Non bastò che fosse cattolica e battezzata, contò il cognome, e nel 1944 fu portata nella Risiera, rasata e subito separata dai suoi cari. Nella mezz’ora di passeggiata che le veniva concessa al giorno, sentiva le urla dei prigionieri torturati. Tra i militari di manovalanza c’era quello che uccideva con una mazza. Per coprire le grida, i tedeschi mandavano musica forte e allegra dagli altoparlanti e tenevano accesi i motori dei loro camion. Marta compì diciotto anni il giorno in cui finì ad Auschwitz.
Il diciottenne riccioluto che divideva la cella con Carlo, per lo spavento, imbiancò in tre giorni.
Ante, cella numero 8, infestata dai topi, sentiva urla in croato, sloveno e italiano, e quando c’era scirocco la puzza di carne bruciata entrava nella cella e gli sconvolgeva lo stomaco.
Albina, cella numero 7, fu denudata, appesa per le trecce a una trave e bastonata fino a svenire. È svenuta di nuovo, dopo la guerra, visitando la Risiera.
Majda, imprigionata con la figlia quattordicenne, sentiva dalle altre celle urla strazianti in tutte le lingue: «Mamma! Mamma!». Iniziò a contare le persone che venivano portate al forno: la prima notte cinquantasei, la seconda settantatré. Poi smise di farlo. Quando ci fu un bombardamento aereo, lei e gli altri prigionieri gridarono: «Qui, bombe, cadete qui! Almeno potessimo morire subito».
Il forno crematorio e la ciminiera vennero distrutti dai nazisti nella notte tra il 28 e il 29 aprile 1945 per eliminare le prove dei crimini commessi. Tra le macerie furono rinvenute ossa e ceneri umane raccolte in sacchi di carta. Oltre a una mazza, ora esposta al museo della Risiera.
Per ironia della sorte, alla Risiera ci sono finiti anche gli italiani che scappavano da Tito. L’ex lager fu attrezzato per diventare un campo profughi dal 1949 al 1965.
Danno i brividi questi fatti, ma non possono essere bilanciati o pareggiati dalle foibe. Non può essere tutto ridotto a una mera questione di causa ed effetto. Se ripudi un metodo, lo ripudi sempre, anche quando tocca a te raggiungere i tuoi fini o realizzare la tua idea di giustizia. Secondo le dichiarazioni dello ZAVNOH, il Consiglio antifascista di Stato per la liberazione popolare della Croazia, all’epoca, nelle direttive si raccomandava di fare dei processi, di comportarsi in maniera non persecutoria verso gli italiani; però non si nega che ci siano stati avventurieri, approfittatori, giustizie arbitrarie e vendette personali.
Il capitano Zvonko Babič scrive in una relazione: «Era evidente la scarsa capacità di riconoscere i veri nemici del popolo, come anche la mancanza di dati riguardo ai loro delitti». E quindi ci finirono in mezzo pure gli innocenti.
Qualcuno dice che la guerra è guerra, che in guerra esistono i danni collaterali, e che non si può ragionare come se si fosse in pace. Però proprio per questo, dico io, noi esuli avevamo il diritto di avere paura e di andarcene via.
Ma a tutti quelli che si scervellano per capire se noi esuli eravamo fascisti o comunisti, non basta sapere che semplicemente volevamo essere italiani in terra di pace?

Benvenuti ad Arbe

Il mio nome è Marija, nacqui a Stari Kot, nella Repubblica slovena. Avevo vent’anni quando, nel luglio 1942, fui arrestata con tutta la mia famiglia e la gente del mio paese, i bambini, i vecchi, tutti. Ci bruciarono le case, e noi partimmo solo con quello che potevamo portarci dietro in una borsa. Nessuno ci disse dove eravamo diretti o cosa avrebbero fatto di noi. Il mio bambino allora aveva sedici mesi. Raggiungemmo il porto di Rab-Arbe, dove ci separarono dagli uomini. Finii nel campo femminile, insieme ai bambini fino ai quindici anni e ai vecchi sopra i settanta. Centinaia di tende militari in un terreno sul livello del mare, dormivamo in terra, anzi, in realtà non dormivamo affatto perché i bambini piangevano notte e giorno, finché non si addormentavano per la stanchezza o, peggio, finché non morivano. Ma quello che ricordo forse come il gesto più inumano in quella lotta per la sopravvivenza fu l’occultamento e la negazione dei decessi per ricevere le razioni dei morti. Con questi piccoli stratagemmi tiravamo avanti.
Nel novembre 1942 nacque il mio secondo figlio, Anton, e un mese dopo ci trasferirono a Gonars, in provincia di Udine, altro campo di internamento italiano. Ci fecero entrare in una specie di hangar per disinfettarci: eravamo quasi in duecento. Prima, però, abbiamo dovuto spogliarci, perché i nostri stracci e fagotti dovevano essere sterilizzati nell’autoclave.
«E il neonato dove lo metto?» chiesi. L’addetto all’autoclave disse di posarlo sugli stracci giusto il tempo della doccia, e io... Io lo appoggiai proprio lì, sopra il mucchio. Poi entrai con il mio bambino più grande nel locale delle docce.
Eravamo tutti lì dentro, c’era una grande confusione e allora, non so, forse sarà stato il sentimento di una mamma per il proprio bambino... improvvisamente avvertii una fitta al cuore e, tutta bagnata e nuda, uscii dalle docce e corsi fino al mucchio di stracci, ma non lo trovai più. Mi si fermò il cuore. Fu a quel punto che vidi il soldato con cui avevo parlato: stava infilando il mucchio di stracci nell’autoclave.
Non so dire se avesse messo dentro anche il bambino intenzionalmente – voglio credere di no –, forse pensava si trattasse di stracci e nient’altro. Alla chiusura del coperchio il bambino iniziò a piangere. Io urlai come una pazza e allora lui riaprì l’autoclave, lo tirò fuori e me lo riconsegnò. Il mio povero bambinetto più tardi mi morì in braccio, provato dalla fame, dalla sete, dal freddo. E quando accadde, era solo una sembianza di bambino, solo ossicini, era magro, magrissimo, come un coniglietto. Non chiuse gli occhi per due giorni e infine morì. E dire che proprio quel giorno per la prima volta aveva bevuto un po’ di latte freddo. Lo portarono via, non so dove lo seppellirono, non mi avrebbero comunque lasciato andare al cimitero.
Poi arrivò la capitolazione dell’Italia. Aprirono le porte del campo e andammo dove ci fu possibile. Non sapevamo niente di ciò che era successo, ma capimmo che i militari italiani non c’erano più.
Chi in camion, chi a piedi, salimmo sui monti verso casa. Al nostro paese non trovammo altro che macerie e niente da mangiare. Era settembre inoltrato e da noi, in montagna, non cresceva più niente. Ognuno aveva i suoi problemi da risolvere, a me era morto anche l’altro figlio. Ricordo di averlo portato in braccio per sei ore fino al paese di Kočevska Reka per seppellirlo.
Nonostante questo, io non posso provare odio. So che c’era la guerra e che quel militare che aveva infilato il mio bambino nell’autoclave forse aveva dei figli, una famiglia, forse era buono con loro, forse amava qualcuno, altra gente. E che era stata la guerra a trasformarlo.

Terra di groviera

«È solo una formalità» dissero a sua madre quella notte, quando gli agenti dell’OZNA, il Dipartimento per la sicurezza del popolo, andarono a prenderlo a casa. «Solo una formalità.» Un minuto dopo erano già nel retro di un camion. Erano in tanti. «Ma quanti siamo?» pensò il ragazzo. «E tutti per una formalità?»
Gente mai vista prima, eppure tutta con la stessa espressione scura. Qualche chilometro e li fecero scendere. Con un filo di ferro legarono loro i polsi a due a due, li disposero in colonna e, a piedi nudi, li fecero avanzare spediti su per una stradina di campagna. Era notte fonda, perché nessuno doveva vedere, nessuno doveva sapere. Lungo il tragitto gli fecero ingoiare cartaccia, sassi ed erbacce spinose, e quando il soldato gridò «Stoj!», erano ormai giunti sull’orlo della foiba.
Come per istinto, con un filo di voce, tutti insieme i prigionieri iniziarono a pregare.
«Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome...»
Quand’ecco i primi spari. Alla sua destra, con la coda dell’occhio, lui riuscì a intravvedere i corpi che, come sacchi, cadevano nel vuoto, uno dietro l’altro.
«Sia fatta la tua volontà.»
Un soldato con la stella rossa sulla bustina gli si parò davanti e prese a fissarlo. Toccava a loro. Il soldato ringhiò una frase incomprensibile, puntò la pistola alla tempia dello sconosciuto compagno accanto a lui, che tremava.
«Dacci oggi il nostro pane quotidiano.»
Fu lui il prescelto. Quello fortunato. Fu lui a beccarsi la pallottola in testa.
«Ma liberaci dal male.»
E giù nell’abisso. Il ragazzo, che era lega...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Magazzino 18
  3. Dello stesso autore
  4. Prefazione di Gian Antonio Stella
  5. Premessa - Una terra a forma di cuore
  6. PRIMA DELL’ESODO
  7. L’ESODO
  8. I CAMPI PROFUGHI
  9. I RIMASTI
  10. I DISILLUSI
  11. Crediti discografici
  12. Fonti
  13. Ringraziamenti
  14. INSERTO FOTOGRAFICO
  15. Copyright