Si è sempre ritenuto che nessun bianco sia sopravvissuto al massacro degli uomini agli ordini del generale Custer a Little Bighorn, il 25 giugno 1876. Ma è una credenza errata, ci fu un unico sopravvissuto. Era uno scout di frontiera, aveva ventiquattro anni e si chiamava Ben Craig. Questa è la sua storia.
Fu il naso sensibilissimo dello scout di frontiera a cogliere per primo il vago sentore di fumo di legna portato dal vento della prateria.
Cavalcava precedendo di una ventina di metri la pattuglia di dieci cavalleggeri, mandati in avanscoperta dal comandante della colonna che percorreva la riva destra del Rosebud Creek.
Senza voltarsi, lo scout sollevò la mano destra e tirò le redini; alle sue spalle, il sergente e i nove soldati lo imitarono. Lo scout scese da cavallo, che si mise tranquillo a brucare l’erba, e raggiunse di corsa un basso terrapieno che si apriva tra loro e il torrente. Poi si appiattì al suolo e strisciò, nascosto dall’erba alta, fino al margine del terrapieno dove si mise a scrutare.
Erano tra la cresta dei monti e la riva del torrente. Un piccolo accampamento di non più di cinque tende, un’unica famiglia allargata. Quei tepee, le tipiche tende dei pellirosse, erano della tribù dei Cheyenne del Nord. Lo scout li conosceva bene. I tepee dei Sioux erano alti e stretti mentre i Cheyenne li preferivano più larghi alla base, più tozzi. Tipiche dei Cheyenne erano anche le immagini policrome dei bottini di caccia che abbellivano i due lati delle tende.
Lo scout decise che il campo doveva essere abitato da ventiventicinque persone, ma gli uomini, circa la metà, dovevano essere a caccia. L’aveva capito dal numero dei cavalli che pascolavano accanto alle tende, soltanto sette. Ne sarebbero occorsi almeno una ventina per spostare quell’accampamento, per portare via gli occupanti, oltre ai tepee ripiegati e ai bagagli sistemati sui travois, specie di strette barelle che venivano montate sul dorso del cavallo.
Udì alle sue spalle il sergente avvicinarsi strisciando, e gli fece segno di tenersi basso. Poi scorse accanto a sé la manica blu con i tre galloni dorati.
«Che cosa vedi?» gli sussurrò rauco il sergente.
Erano le nove di mattina e faceva già un gran caldo. Cavalcavano da tre ore, perché al generale Custer piaceva togliere le tende all’alba. Ma lo scout avvertiva già a quell’ora l’odore del whisky nell’alito dell’uomo accanto a lui. Era pessimo whisky di frontiera dal tanfo pesantissimo che annullava il profumo di prugne selvatiche, di ciliegie e di quella profusione di rose canine che crescevano sulle rive del Rosebud Creek e dalle quali il torrente prendeva il suo nome.
«Cinque tende. Cheyenne. Nell’accampamento sono presenti soltanto donne e bambini. I guerrieri sono a caccia sull’altra sponda.»
Il sergente Braddock non chiese allo scout come facesse a saperlo, e si limitò ad accettare quelle informazioni. Si raschiò la gola, sputò un bolo di tabacco liquido e sorrise mettendo in mostra i denti giallastri. Lo scout si lasciò scivolare giù dal terrapieno e si alzò in piedi.
«Lasciamoli in pace, non sono loro che cerchiamo.»
Ma Braddock aveva passato tre anni nelle Grandi Pianure con il Settimo Cavalleria e di divertimento ne aveva purtroppo avuto poco. Un lungo e noioso inverno trascorso a Fort Lincoln aveva avuto come unico risultato un figlio bastardo avuto da una lavandaia, che a tempo perso faceva anche la puttana, ma lui era venuto nelle Grandi Pianure per uccidere indiani e non voleva negarsi quella soddisfazione.
Il massacro durò soltanto cinque minuti. I dieci cavalleggeri superarono il ciglio al piccolo trotto, poi lanciarono i loro cavalli al galoppo. Lo scout, risalito in sella, seguì disgustato la scena dall’alto.
Uno dei soldati, una recluta, cavalcava così male che cadde di sella. Furono quindi in nove i macellai. Le sciabole le avevano lasciate a Fort Lincoln, allora usarono i revolver Colt o i fucili Springfield ’73 ultimo modello.
Le squaw che rimestavano nei pentoloni sul fuoco, udendo all’improvviso avvicinarsi il veloce tambureggiare degli zoccoli dei cavalli, corsero a prendere i loro piccoli cercando poi di raggiungere il torrente. Ma non ce la fecero. I soldati le precedettero e caricarono in direzione delle tende, sparando contro tutto ciò che si muoveva. Alla fine, quando vecchi, donne e bambini erano tutti morti, si misero a rastrellare l’accampamento in cerca di qualche oggetto caratteristico da spedire a casa. Dall’interno delle tende giunse l’eco di altri colpi, segno che era stato trovato qualche bambino ancora vivo.
Lo scout percorse a cavallo i quattrocento metri che lo separavano dall’accampamento per rendersi conto del massacro. Sembrava che nulla e nessuno fosse rimasto vivo quando i soldati appiccarono il fuoco alle tende. Uno di loro, poco più di un ragazzo e alla sua prima esperienza del genere, vomitò la sua colazione di gallette e fagioli sporgendosi dalla sella per non sporcarsi. Il sergente Braddock era al settimo cielo. Ce l’aveva fatta, aveva trovato un lungo copricapo di guerra piumato e l’aveva legato alla sella, accanto alla borraccia che avrebbe dovuto contenere soltanto acqua di fonte.
Lo scout contò quattordici cadaveri, che giacevano scomposti al suolo come bambole rotte. Scuotendo il capo, rifiutò un trofeo che un soldato gli stava offrendo e aggirò le tende dirigendosi verso la riva del torrente per abbeverare il cavallo.
Lei se ne stava seminascosta tra le canne, e lungo una coscia le colava del sangue per via del colpo di fucile che si era presa mentre scappava. Se lo scout avesse avuto maggiore presenza di spirito avrebbe voltato il capo dall’altra parte, tornando in fretta all’accampamento in fiamme. Ma Braddock, che lo teneva d’occhio, aveva seguito il suo sguardo e si era avvicinato.
«Che cos’hai trovato, ragazzo? Ma bene, un altro di quegli schifosi, e ancora vivo per giunta.»
Estrasse dalla fondina la Colt e prese la mira. La ragazza nel canneto girò il capo e li guardò con i suoi occhi che lo shock aveva svuotato di ogni espressione. Lo scout afferrò il polso dell’irlandese e lo torse, spostando verso l’alto la canna della pistola. La faccia di Braddock, rubizza per l’alcol, si fece scura di rabbia.
«Lasciala viva, potrebbe sapere qualcosa» disse lo scout. Braddock si fermò, ci pensò su e poi annuì.
«Bell’idea, ragazzo. La porteremo in regalo al generale.»
Rimise la pistola nella fondina e tornò a controllare i suoi uomini. Lo scout scese di sella e si dedicò alla ragazza tra le canne. La ferita, fortunatamente per lei, era pulita. Il colpo era stato esploso da breve distanza mentre correva e le aveva trapassato la coscia, si vedevano un foro d’entrata e uno d’uscita entrambi piccoli e tondi. Lo scout inzuppò il fazzoletto nell’acqua limpida del torrente e le lavò la ferita, poi glielo arrotolò stretto attorno alla coscia per bloccare il sangue.
Terminata quest’operazione, la guardò. Lei ricambiò lo sguardo. Una cascata di capelli, neri come l’ala di un corvo, le copriva le spalle; i suoi grandi occhi scuri erano velati dal dolore e dalla paura. Non tutte le squaw indiane erano belle secondo i gusti dell’uomo bianco, ma le più belle di tutte le tribù erano le Cheyenne. La ragazza tra le canne doveva avere circa sedici anni ed era di una bellezza stupefacente, eterea. Lo scout aveva ventiquattro anni, era stato allevato secondo i dettami della Bibbia e non aveva ancora conosciuto una donna nel senso del Vecchio Testamento. Sentì il cuore battergli nel petto e dovette distogliere lo sguardo. Se la caricò su una spalla e tornò all’accampamento devastato.
«Mettila su un cavallo» gridò il sergente, bevendo un altro sorso di whisky dalla borraccia. Lo scout scosse il capo.
«Il travois, altrimenti morirà» disse.
Accanto ai resti carbonizzati dei tepee si vedevano al suolo diversi travois. Composto da due lunghi bastoni ricavati da rami di pino flessibili e incrociati sulla schiena del cavallo, sopra i quali veniva tesa e assicurata una pelle di bufalo, il travois era un mezzo di trasporto particolarmente comodo e decisamente più indicato per i feriti rispetto al carro dell’uomo bianco, sul quale ogni buca era un supplizio.
Lo scout si avvicinò a uno dei due cavalli rimasti, visto che gli altri cinque erano fuggiti. L’animale indietreggiò e fece uno scarto quando lui afferrò le redini; aveva già avvertito l’odore dell’uomo bianco, un odore che riusciva quasi a fare impazzire i pony pezzati degli indiani. Viceversa, gli animali della cavalleria americana diventavano quasi ingovernabili se sentivano gli effluvi corporali degli indiani delle Pianure.
Lo scout soffiò dolcemente nelle narici del cavallo, finché la bestia non si calmò e l’accettò. Dieci minuti dopo, il travois gli era stato montato sul dorso e la ragazza ferita era stata avvolta in una coperta e sdraiata sulla pelle di bufalo. La pattuglia risalì il sentiero per ricongiungersi con Custer e il Settimo Cavalleria. Era il 24 giugno dell’anno di grazia 1876.
Le origini della campagna scatenata quell’estate nelle pianure del Montana meridionale risalivano a diversi anni prima. L’oro era stato finalmente scoperto nelle Black Hills, le colline sacre del South Dakota, e i cercatori si erano riversati nella regione. Ma quelle montagne erano già state concesse per sempre alla nazione Sioux. Infuriati per quello che consideravano un tradimento, gli indiani delle Pianure risposero tendendo agguati ai cercatori e assaltando le carovane di carri.
A questa violenza, i bianchi reagirono con rabbia. Racconti di orribili barbarie, spesso inventati o vistosamente esagerati, portarono questa rabbia a un punto d’ebollizione, e le comunità bianche si rivolsero a Washington. Il governo revocò come se nulla fosse il Trattato di Laramie e confinò gli indiani delle Pianure in alcune povere riserve, una frazione della regione che era stata loro solennemente promessa. Queste riserve si trovavano nel territorio del North e del South Dakota.
Ma Washington autorizzò anche la creazione di un nucleo territoriale denominato Territori Non Ceduti, del quale facevano parte le tradizionali zone di caccia dei Sioux ancora fittamente popolate di bufali e cervi. Questo nucleo confinava a est con il North e il South Dakota seguendo una linea verticale. A occidente, invece, il confine era costituito da un’immaginaria linea nord-sud, duecentoquaranta chilometri a ovest di quello orientale, una linea che gli indiani non avevano mai visto e non riuscivano a immaginare. A nord i Territori Non Ceduti avevano come confine il fiume Yellowstone, che attraversava la terra chiamata Montana e proseguiva nei due Dakota; e a sud il fiume North Platte, Wyoming. Proprio qui, all’inizio, gli indiani ebbero l’autorizzazione a cacciare. Ma la marcia dell’uomo bianco in direzione ovest non si fermò.
Nel 1875, i Sioux cominciarono a spostarsi dalle riserve del Dakota dirigendosi a ovest, nelle zone di caccia dei Territori Non Ceduti. Ma verso la fine di quell’anno, l’Ufficio per gli Affari Indiani pose loro un ultimatum: entro il 1° gennaio avrebbero dovuto fare ritorno nelle loro riserve.
I Sioux e i loro alleati non contestarono questo ultimatum, ma più semplicemente lo ignorarono. Moltissimi tra loro, poi, non ne conoscevano nemmeno l’esistenza. Continuarono quindi a cacciare, e quando l’inverno cedette il passo alla primavera si misero alla ricerca dei loro tradizionali bottini di caccia, come lo splendido bufalo, il timido cervo, l’antilope. All’inizio della primavera, l’Ufficio passò la pratica all’esercito, incaricandolo di trovarli, raggrupparli e scortarli alle loro riserve del Dakota.
L’esercito ignorava però due elementi: quanti erano effettivamente gli indiani fuori dalle riserve e dove si trovavano. Sul primo punto, ai militari fu risposto con una bugia.
Le riserve erano gestite da agenti dell’Ufficio, tutti bianchi, parecchi dei quali imbroglioni. Da Washington questi agenti avevano ricevuto bestiame, granturco, farina, coperte e soldi da distribuire tra i loro amministrati. Ma molti di loro truffarono senza pietà gli indiani, affamando donne e bambini, costringendoli di fatto a tornare nelle pianure di caccia.
Gli agenti avevano anche un altro motivo, per mentire. Dichiarando che il cento per cento degli indiani delle riserve si trovava effettivamente nelle riserve, loro ricevevano il massimo dei contributi, mentre invece più calava il numero degli indiani e più si riducevano questi contributi e di conseguenza i loro illeciti guadagni. Nella primavera del 1876, gli agenti comunicarono quindi all’esercito che soltanto pochi guerrieri risultavano assenti all’appello. Mentivano, ovviamente. Erano migliaia e migliaia gli indiani che avevano abbandonato le riserve e attraversato il confine per andare a caccia nei Territori Non Ceduti.
Per quello che riguardava la loro dislocazione, poi, c’era un solo modo per scoprirla: mandare l’esercito nel Montana meridionale a cercarli. Fu allora deciso di creare un corpo di spedizione, composto da tre colonne miste di fanteria e cavalleria.
Da Fort Lincoln, nel North Dakota, il generale Alfred Terry avrebbe marciato in direzione ovest seguendo il corso dello Yellowstone, ossia il confine settentrionale dei territori di caccia. Da Fort Shaw, nel Montana, il generale John Gibbon avrebbe marciato in direzione sud fino a Fort Ellis, per poi deviare a est lungo lo Yellowstone fino a congiungersi con la colonna di Terry proveniente dalla direzione opposta.
Da Fort Fetterman, nel profondo Sud del Wyoming, il generale George Crook sarebbe andato verso nord attraversando le sorgenti del Crazy Woman Creek, poi il fiume Tongue e proseguendo fino alla valle del Bighorn, dove era fissato l’appuntamento con le altre due colonne. A un certo punto, si pensava, una delle tre colonne avrebbe dovuto sicuramente imbattersi negli indiani. L’operazione ebbe inizio a marzo.
Ai primi di giugno, Gibbon e Terry si incontrarono nel punto in cui il Tongue, che scorre verso nord, si getta nello Yellowstone. E non avevano visto nemmeno la piuma di un indiano. Sapevano comunque che almeno gli indiani delle Pianure dovevano trovarsi da qualche parte a sud. Gibbon e Terry ...