
- 116 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Informazioni su questo libro
Lady Diana seppe conquistare i cuori di tutto il mondo, mostrandosi per quello che era: una donna straordinaria sia per generosità sia per fragilità . Lavinia Orefici offre un ritratto dalle mille sfaccettature di Lady D, in cui il lettore scoprirà i retroscena sul matrimonio con Carlo, i rapporti con la Corona, gli amori, i figli, la tragica morte, ma anche e soprattutto l'umanità autentica di una principessa in cui si sono identificati milioni di persone.
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HistoryCategoria
Historical Biographies1
Funerale
Il profumo acre di fiori che saliva dal cancello davanti a Kensington Palace e si infiltrava dalle finestre infastidiva la principessa Margaret. La sorella della regina Elisabetta era rientrata precipitosamente a Londra da una vacanza in Italia e non sopportava né l’odore né la vista di quei mazzi di fiori che a centinaia si ammucchiavano all’entrata del palazzo. Era la mattina di venerdì 5 settembre 1997 e la capitale si apprestava a dare l’ultimo saluto a Lady Diana, morta a trentasei anni in un tragico incidente sotto il tunnel de l’Alma a Parigi il 31 agosto.
In quelle stesse ore a Buckingham Palace si stavano svolgendo, in un clima surreale, i preparativi finali per il funerale in programma il giorno successivo. La notizia della scomparsa della principessa del Galles aveva sconvolto tutti, da cinque giorni erano in corso scene di delirio collettivo: pellegrinaggi davanti alle principali residenze della Corona, infinite code di fronte alle sedi diplomatiche del Regno Unito sparse per il globo e veglie nella capitale francese sulla sponda della Senna, là dove la principessa aveva perso la vita. A St. James Palace ormai si contavano quarantatré libri di condoglianze. Era lì, nella residenza ufficiale dei re d’Inghilterra fino al 1840, che riposava il feretro di Diana da quando era stato riportato in patria dalla Francia. La fila di persone intorno al Palazzo era cresciuta talmente tanto che fu necessario aggiungere altre transenne lungo il marciapiede.
L’ispettore di polizia Duncan Murray, incaricato di supervisionare l’ordine pubblico, ricorderà che quando, dopo circa otto ore di coda, arrivava finalmente il loro turno, le persone, frastornate dalla mancanza di sonno e dalle lacrime versate, impiegavano un tempo lunghissimo per decidere cosa scrivere su quelle pagine e salutare per l’ultima volta la principessa del Galles.
E mentre a Londra andava in scena il tributo a Diana, ottocento chilometri più a nord, in Scozia, si stavano aprendo i cancelli di Balmoral, la residenza estiva della regina Elisabetta, dove la famiglia reale era riunita per trascorrere le vacanze. Erano le 10.55 di mattina.
Il principe Carlo e i figli William e Harry erano diretti all’aeroporto di Aberdeen, dove un volo privato li avrebbe riportati nella capitale inglese. Per farli viaggiare insieme sullo stesso aereo, essendo il primo, il secondo e il terzo in linea di successione al trono, fu necessario un permesso speciale della sovrana.
Il decollo era previsto alle 12.10. Sessantasette minuti dopo toccarono di nuovo terra, nella base della RAF di Northolt, la stessa in cui cinque giorni prima era atterrata la bara di Diana avvolta nello stendardo reale.
Ma l’attesa a Londra era per il ritorno di Sua Maestà , che la sera avrebbe parlato alla nazione in diretta televisiva. Il suo silenzio e la sua assenza in quei giorni di lutto avevano fatto precipitare in picchiata la popolarità della monarchia britannica, mentre quella di Diana continuava a crescere sempre di più anche da morta. Secondo un sondaggio commissionato dal network americano ABC, tra il 4 e il 5 settembre la corona registrava un gradimento del 48 per cento, quasi la metà rispetto a quello della principessa del Galles, il 90 per cento.
L’erede al trono intuì immediatamente l’impatto emotivo e la portata mediatica della notizia arrivata nel cuore della notte del 31 agosto. Quando alle 3.15 di mattina ora di Londra, le 4.15 a Parigi, l’ambasciatore britannico in Francia, Sir Michael Jay, chiamò Balmoral per confermare il decesso di Diana, il principe Carlo, affranto per l’improvvisa scomparsa dell’ex moglie, disse al suo segretario privato Stephen Lamport: «Ce l’avranno tutti con me, vero? Il mondo impazzirà , non è così? Assisteremo a reazioni mai viste prima. Può distruggere tutto. Può distruggere la monarchia». La risposta fu premonitrice dei giorni che seguirono: «Sì, Sir, temo possa andare così. Ci saranno momenti molto difficili per vostra madre. Sarà costretta a prendere decisioni o fare cose che non sono in linea con la sua condotta, ma sarà necessario adeguarsi, altrimenti sarà la fine».
In linea con il suo rigore, la regina Elisabetta anche quella domenica mattina decise di proseguire con i rituali. Un convoglio di tre macchine, puntuale alle 11.25, lasciò Balmoral per dirigersi verso la Crathie Kirk, la piccola chiesa abitualmente frequentata dai Windsor.
Sulla prima auto viaggiavano la regina madre, il principe Andrea, duca di York, e Peter Phillips; sulla seconda il principe Carlo con i figli William e Harry e sull’ultima la regina e il marito, il duca di Edimburgo.
Da tutti i pulpiti del paese fu ricordata Diana, tranne che nella loro chiesa. Il reverendo Sloan disse che non erano state apportate modifiche alla funzione, ma durante la preghiera furono toccati temi come la perdita e il conforto perché, come sempre, si dedicava tempo a una riflessione su ciò che accadeva nel mondo.
La distanza tra Balmoral e Londra appariva siderale, in tutti i sensi. Nella capitale, abbandonato il british aplomb, si moltiplicavano manifestazioni di affetto per la principessa. Fuori dal cancello di Kensington Palace, la residenza di Diana in città , si contavano già oltre mille mazzi di fiori.
In questo solco che si stava aprendo tra la corona e i sudditi si insinuò abilmente Tony Blair, il quarantaquattrenne neo premier labourista, smanioso di imprimere un nuovo corso alla storia. A metà strada tra la capitale e le Highlands, da Sedgefield, dove si trovava il suo collegio elettorale, alle 10.15 il primo ministro parlò alla nazione. «She was the people’s princess». «Era la principessa del popolo», disse, battezzando così la formula con cui ancora oggi è universalmente ricordata Lady Diana. Il merito di questa definizione, che fece schizzare immediatamente il gradimento di Tony Blair nelle classifiche, fu attribuito per molto tempo al suo portavoce Alastair Campbell, un prestigiatore della comunicazione, ma più recentemente la teoria è stata smentita dai due protagonisti. Reduce insieme a Campbell da una notte insonne con telefonate che si rincorrevano tra le due sponde della Manica, il primo ministro scarabocchiò sul retro di una busta alcune delle parole che avrebbe pronunciato per il tributo a Diana. La definizione fu presa in prestito dal titolo del libro di Nicholas Owen: Diana, The People’s Princess.
In meno di ventiquattro ore divenne evidente che la morte della principessa del Galles non era un affare privato, né della famiglia Spencer, né della famiglia Windsor, ma si trattava di un affare di stato.
Era ormai un lutto globale; il mondo voleva essere consolato e pretendeva compassione dall’unica persona che non era disposta a concederla: la regina.
William e Harry, i nipoti di appena quindici e dodici anni, erano la sua priorità . A Balmoral fu creata una bolla per far sì che i ragazzi, come Diana chiamava i suoi figli, fossero protetti dal bombardamento mediatico di notizie sulla morte della mamma.
Alle dieci di mattina del primo settembre la macchina dell’organizzazione per i funerali guidata dal Lord Cancelliere, che sovraintende il cerimoniale del Palazzo, si mise in moto. Nella Chinese Drawing Room di Buckingham Palace, insieme a lui, erano riuniti Dickie Arbiter, Mark Bolland, rispettivamente portavoce di Sua Maestà e vice segretario privato del principe Carlo, Alastair Campbell per il governo e i delegati della Chiesa e delle forze dell’ordine. Da Balmoral erano collegati in vivavoce Sir Robin Janvrin, il vice segretario privato della regina e Stephen Lamport, segretario privato del principe del Galles. Si trattava di un funerale senza precedenti, vista la complessa posizione sociale ricoperta da Diana, ex moglie dell’erede al trono d’Inghilterra, ma non più Altezza Reale in conseguenza del divorzio, e tuttavia uno dei personaggi più popolari del pianeta. Serviva dunque la massima attenzione nel pianificare ogni dettaglio. Con un’opinione pubblica sempre più critica nei confronti dei Windsor, nessun errore poteva essere commesso.
Il primo punto all’ordine del giorno riguardava gli invitati al funerale. Ognuna delle due famiglie, Windsor e Spencer, aveva un elenco di nomi. Per Diana, invece, fu deciso di prendere come riferimento la sua personale lista di conoscenze a cui furono inviate le Christmas Card il Natale precedente.
Nel giro di poche ore vennero sciolti molti nodi: la bara sarebbe sfilata su un affusto di cannone e alla funzione avrebbero partecipato i rappresentati delle varie organizzazioni benefiche che Diana supportava. Rimaneva, tuttavia, ancora un’importante incognita: a chi sarebbe spettato il compito di camminare dietro al feretro lungo il percorso verso l’Abbazia di Westminster.
Mentre la quiete della residenza reale scozzese continuava a proteggere la famiglia, nel mondo si era innescata una contagiosa catena di manifestazioni di lutto in tributo alla principessa del Galles. Da Londra a Oslo, fino a Monza, sul circuito della Formula Uno in occasione del Gran Premio, si moltiplicavano i minuti di silenzio per Diana.
La casa automobilistica Mercedes posticipò addirittura il lancio della nuova macchina, perché quella su cui viaggiava Diana al momento dell’incidente era una berlina Classe S della marca tedesca.
All’imbrunire il viale d’accesso a Kensington Palace si era trasformato in un tappeto di fiori e stavano spuntando anche i primi sacchi a pelo di chi, arrivato da tutto il paese, voleva vivere in prima persona, da spettatore, questa tragedia che andava in scena sulle strade e nei palazzi di Londra. C’era un non so che di apocalittico nell’aria, come se la morte di Diana avesse segnato un prima e un dopo.
I giornali americani titolavano: Sopravvivrà la monarchia?, quasi che l’evento luttuoso potesse segnare il passo della più antica istituzione del Regno Unito.
L’assenza della bandiera a mezz’asta su Buckingham Palace divenne il simbolo tangibile di questa crisi. Il popolo e l’opinione pubblica pretendevano un gesto senza precedenti nella storia della Corona. Fino ad allora solo lo stendardo reale veniva issato sulla residenza ufficiale della regina, esclusivamente quando Sua Maestà si trovava in casa. In sua assenza nessun’altra bandiera sventolava sul Palazzo. Lo stendardo reale può essere issato o ammainato, ma mai a mezz’asta, nemmeno dopo la morte di un re, perché c’è sempre un sovrano sul trono d’Inghilterra.
La frattura tra la regina e il suo popolo sembrava insanabile. Il 4 settembre i titoli dei tabloid erano rivolti direttamente a lei: Show us you care (Dimostraci che ti interessa); Speak to us Ma’am (Parlaci, nostra signora!); Where is our Queen? Where is her flag? (Dov’è la nostra regina? Dov’è la sua bandiera?); Let the flag fly at half mast (Fate sventolare la bandiera a mezz’asta).
Fu necessaria la mediazione di Tony Blair, che ormai macinava consensi con un gradimento pari al 70 per cento, per far piegare Sua Maestà alla volontà del popolo. Il giorno dei funerali su Buckingham Palace venne issata la bandiera a mezz’asta, come chiesto dai sudditi, ma era la Union Jack, il vessillo del Regno Unito e non quello della regina Elisabetta.
A questo tributo a Diana si deve il fatto che ancora oggi, quando la sovrana è assente, sul Palazzo sventoli la Union Jack.
Non solo: nel tentativo di tornare in sintonia con il popolo, lo stesso giorno della rivolta dei tabloid i Windsor ricomparvero sulla scena e mandarono in avanscoperta, a Londra, i principi Andrea e Edoardo, i due fratelli minori dell’erede al trono. Algidi e composti, fecero una breve passeggiata da Buckingham Palace a St. James Palace, che non scaldò il cuore dei sudditi. Molto più scaltro fu Mohamed Al-Fayed, il miliardario egiziano padre di Dodi, morto con Diana nell’incidente del tunnel de l’Alma. Da tempo inviso alla casa reale e in attesa di riscatto, non perse l’opportunità di inviare gli inconfondibili furgoncini verdi con la scritta HARRODS, i grandi magazzini di sua proprietà , davanti a St. James Palace, per offrire ogni genere di conforto alla gente in coda. La miglior manovra pubblicitaria possibile, la più sfrontata.
Un’operazione di empatia era in corso anche a Balmoral, dove ormai i mazzi si fiori si ammucchiavano ai due lati del cancello. Il pomeriggio dopo la messa nella Crathie Kirk, sulla collina di fronte al castello, la regina Elisabetta, con il figlio Carlo, i nipoti William e Harry e altri membri della famiglia reale si mostrarono al pubblico. Era la prima volta dal 31 agosto.
Con la manina avvolta in quella del papà Carlo, Harry si abbassò per leggere alcuni biglietti che spiccavano in mezzo a quel tappeto di fiori. Il principe, nel 2017, in occasione del ventesimo anniversario dalla morte di Lady Diana, avrebbe ricordato quel terribile momento affermando che l’ultima cosa che gli interessava era leggere frasi sulla sua mamma scritte da perfetti sconosciuti. Ma allora, in quella tragica settimana del 1997, quell’immagine era esattamente ciò che l’opinione pubblica desiderava, e Sua Maestà fu costretta a cedere per la ragion di stato.
Furono i due piccoli principi a pagare il prezzo più alto. Nei giorni che precedettero il funerale la pressione del governo affinché i ragazzi camminassero dietro il feretro della mamma lungo il percorso che l’avrebbe portata da Kensington Palace all’Abbazia di Westminster divenne sempre più insistente. A nulla servì la sfuriata del duca di Edimburgo per impedire che ciò accadesse.
Durante una conference call il team della comunicazione di Tony Blair, ignaro del fatto che il marito della regina fosse in ascolto da Balmoral, insistette per la presenza di William e Harry al corteo, quando a un certo punto l’apparecchio del vivavoce posizionato in mezzo al tavolo della Chinese Drawing Room di Buckingham Palace iniziò a trasmettere urla e insulti contro quell’idea priva di umanità per due adolescenti che avevano perso la mamma. Il principe Filippo parlava da nonno, per difendere il dolore e la privacy dei suoi nipoti, ma per il governo era una questione fondamentale e così, ancora una volta, la ragion di stato ebbe la meglio sui sentimenti. Fu proprio il nonno, tanto severo con la nuora Diana, a chiedere a William se se la sentisse di compiere questo gesto, e per incoraggiarlo disse: «Se cammino, cammini con me?».
Il 5 settembre pomeriggio le telecamere di tutto il mondo erano puntate su Londra. La regina Elisabetta sarebbe tornata nella capitale e alle 6 di sera avrebbe parlato alla nazione. C’era una domanda che intanto rimbalzava da una televisione all’altra: «Come sarà accolta Sua Maestà ?».
Alle 16.30, davanti ai cancelli di Buckingham Palace, arrivò la risposta. La sola presenza della regina tra i suoi sudditi bastò per annullare l’ostilità dei giorni passati. Accompagnata dal marito, si fermò di fronte alla distesa di fiori deposti e al popolo per offrire la sua presenza. Nel frattempo, al 10 di Downing Street, la sede del governo britannico, era arrivata una copia del discorso della sovrana e Alastair Campbell era impegnato nelle ultime limature per renderlo perfetto.
Alle 18 dalla Chinese Drawing Room di Buckingham Palace, il salone con affaccio sul Mall diventato un fiume di persone, Elisabetta II parlò alla nazione in diretta televisiva. Era la seconda volta nei suoi quarantacinque anni di regno che la sovrana si rivolgeva al popolo oltre al tradizionale messaggio di Natale. Cinque minuti in cui Sua Maestà parlò da regina e, grazie alla penna di Campbell, da nonna per ricordare dal profondo del cuore che essere umano eccezionale fosse Diana. Si dice che, una volta spente le luci delle telecamere, ad attendere la regina ci fosse un bicchiere di sherry.
A questo punto tutto era pronto per l’indomani, per l’ultimo saluto alla principessa del popolo. La quantità di persone arrivate nella capitale costrinse il cerimoniale a un nuovo cambio di programma. Fu allungato il percorso del corteo funebre per far sì che il maggior numero di individui possibile potesse assistere al suo passaggio. Il feretro di Diana venne trasferito da St. James Palace a Kensington Palace, la residenza della principessa nella capitale. Avrebbe trascorso lì, a casa, l’ultima notte prima del funerale, previsto per le undici di mattina del 6 settembre.
Data la fretta e l’incertezza del ruolo ricoperto da Diana in seno alla famiglia reale, fu deciso che il suo funerale sarebbe stato ispirato a quello previsto per la regina madre, il Tay Bridge.
All’alba del D-Day le strade di Londra erano disseminate di tende e sacchi a pelo di persone arrivate da ogni dove: avevano trascorso la notte accampate al freddo per non perdere il posto in prima fila. La BBC si preparava a iniziare la lunga ed emozionante maratona televisiva che sarebbe partita al...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- DIANA. La principessa del popolo
- Introduzione
- 1. Funerale
- 2. Althorp e gli Spencer
- 3. Dodi
- 4. L’ultima estate
- 5. Il Tunnel de l’Alma
- 6. L’intervista
- 7. Divorzio
- 8. La suocera
- 9. Filippo
- 10. Le donne
- 11. Una personalità complessa
- 12. Moda
- 13. Beneficenza
- 14. Love affairs
- 15. I figli
- 16. Matrimonio
- Ringraziamenti
- Copyright