C’è una candela sulla mia finestra. È tremolante. Emana calore. Minaccia di spegnersi.
Ma non lo farà . In vent’anni non lo ha mai fatto.
Le poso accanto un’altra candela e punto la bacchetta sullo stoppino… poi trattengo il fiato e spero nel fuoco.
Ecco spuntare la fiamma, calda sotto il mio palmo. E finalmente arrivano le lacrime.
È vivo, quindi. Jamie è vivo. Sì. Bene. Ottimo.
La fiamma è lunga e stabile.
Mio figlio è vivo.
Prendo il decanter di vino Madeira accanto al letto. Vetro intagliato. Un oggetto antico. Mio marito Andrew non approverebbe. Affidarsi così all’alcol. Lui però ha potuto affidarsi a me. Fino al giorno della sua morte. Ha avuto qualcuno con cui condividere il fardello delle proprie pene. Mai mi sarei aspettata di proseguire tanto a lungo questo cammino da sola.
Io non sono una donna malinconica.
E nemmeno vendicativa. Non serbo rancore, io. Non c’è tempo per il rancore… il rancore ti consuma l’esistenza finché, sul letto di morte, ti accorgi di non esserti mai goduta il sole né concessa una seconda fetta di torta.
Lascio entrare la luce, io. E mangio la torta.
Sono nata nel giorno del Signore. Sono tutta allegria, speranza e buonumore. Oh, ero una bambina d’oro, piena di vita… piena di magia. Sono venuta al mondo in cerca di felicità . E l’ho trovata! In mio marito e nei miei figli. Specialmente in Lucy.
La mia Lucy, mia figlia…
Dicevano tutti che era la mia fotocopia… ma io penso che fosse migliore di me. Con il senso del pudore ereditato dal padre e il mio vigore. Era forte e determinata e letteralmente traboccante di vita.
Finché non ha incontrato lui.
Il giorno in cui l’Arcimago è morto – quant’è passato, un anno? Due, quasi? – me ne sono scolata una bottiglia, di Madeira. E di quello buono, anche. Ho fatto pure il brindisi. «Alla tua, Davy. Bevo alla tua morte, lurido bastardo senza cuore.»
Quell’uomo gliel’ha strappata via tutta, la vita, alla mia Lucy. Le ha montato la testa finché non si è messa a scimmiottare la sua paranoia e la sua profezia.
Mi sono detta che è stata una fortuna che sia scappata, una benedizione che sia scomparsa senza lasciare traccia. Davy era l’uomo più potente, nel mondo degli arcimaghi. Quanto si sarà dovuta allontanare per sfuggire alla sua portata?
La immagino in California, sotto il sole. O in Siberia, al caldo di un focolare. Spero che stia percorrendo una strada sterrata senza lasciare impronte.
Immagino il bambino.
Credo ci sia un bambino. Lo spero…
Be’, mi auguravo che un giorno Lucy mi contattasse. Magari inviandomi una lettera. Un segno. (Ho scrutato il cielo in cerca di corvi, ispezionato il fondo di ogni tazza…)
Finora quando mai sarebbe stato sicuro farlo, però? Sono certa che anche Davy è stato all’erta per tutto questo tempo… La sua magia era più aggressiva della mia e molto più spietata. Nemmeno la forza dell’amore di una madre avrebbe vinto l’inclinazione di quell’uomo alla violenza e alla vendetta.
Il pensiero che potesse trovarla…
Che potesse trovarli entrambi…
Quante notti passate a questa finestra a lanciare incantesimi al cielo.
«Hey, you’ve got to hide your love away!
Tienilo segreto. E al sicuro!
Acqua in bocca, acqua in bocca!»
Ho immaginato che le mie parole raggiungessero mia figlia e il suo bambino e, avvolgendoli entrambi come una coperta, offrissero loro protezione.
Ma ora…
Ora Davy non c’è più. L’Arcimago è morto.
Adesso puoi tornare a casa, Lucy.
Sotto di me ho due candele, la vecchia tremola, la nuova arde intensamente. Mi verso un bicchiere di vino.
Torna a casa, piccola, ho bisogno del tuo aiuto.
Torna da me.
Aiutami a trovare tuo fratello.
«Ma… non è giusto. Io l’ho ucciso, l’Arcimago.»
Sono seduto nello studio del dottor Monamour. Quando Agatha ha avvisato i genitori che stava tornando a casa, hanno insistito che venissi anch’io per cena… e finora è stato il massimo dell’imbarazzo.
A tavola io e lei ci siamo seduti l’uno accanto all’altra come un tempo, e sua madre continuava a fissarci, indecisa se sentirsi dispiaciuta o sollevata che non stiamo più insieme.
Che io e Agatha dovessimo fare coppia era una certezza. Sua madre aveva già organizzato il matrimonio, secondo me.
Ma la cosa era una certezza quando io ero una certezza, quando avevo ancora la magia – tutta la magia – e una missione da compiere.
E prima che mi ritrovassi addosso queste cazzo di mega ali di drago.
La signora Monamour ci è rimasta di sasso quando le ho dato la giacca e ha visto quello che nascondeva. Almeno si è risparmiata la vista della coda, che mi ero preso la briga di infilare nei jeans. (Che fastidio! La gamba si irrita tutta, la coda si intorpidisce, e mi tocca indossare dei jeans larghi che mi invecchiano da matti.)
La cena è stata interminabile. Agatha si è rifiutata di parlare del più e del meno e i suoi non sapevano da dove iniziare. Quando si tratta di me, a chiunque passa la voglia di parlare. È difficile ignorare l’argomento, se l’argomento in questione è seduto al tuo stesso tavolo.
In tre bocconi ho finito il dessert, Eton mess, e il dottor Monamour mi ha invitato nel suo studio. È lì che gli piace fare i discorsi seri. I Monamour sono stati un surrogato di famiglia per me (magari qualcosa di un po’ più alla lontana, tipo il surrogato di un surrogato di famiglia) da quando ho lasciato il mondo degli arcimaghi. Mi invitavano qui nei periodi di interruzione della didattica e durante le vacanze scolastiche, anche prima che io e Agatha ci frequentassimo. E il dottor Monamour ha sempre cercato di affrontare con me i classici discorsi padre-figlio. Quando avevo dodici anni, mi ha fatto sedere in questo stesso studio per rivolgermi il discorsetto sulle api e i fiori. (Anche se a questo punto ho il sospetto che abbia tralasciato qualche informazione cruciale.)
Questa sera, si è seduto dietro alla sua grossa scrivania con il piano di vetro e ha estratto dal cassetto una pila di documenti. «Simon, aspettavo a parlartene finché non fossero state espletate le pratiche legittime riguardanti il patrimonio dell’Arcimago…»
Le pratiche legittime? «Signore… sono in arresto?»
Il dottor Monamour ha alzato gli occhi dalle carte. «In arresto?»
«Per la morte dell’Arcimago.»
Si è tolto gli occhiali da lettura. «Simon, no. Qui nessuno è in arresto. La morte dell’Arcimago è stata un incidente.»
«Più o meno…» ho commentato io.
«Di certo è stata legittima difesa.»
A quel punto ho annuito mestamente.
Il dottor Monamour si è rimesso gli occhiali ed è tornato a fissare i documenti. «L’Arcimago… Davy… David…»
«David?»
«Il suo patrimonio è stato finalmente accertato.»
Ho scrollato la testa. «L’Arcimago si chiamava David?»
Il dottor Monamour mi ha guardato e si è schiarito la voce. «David Cadwallader.»
«Ah.»
«Ci sono dei parenti, naturalmente, ma le disposizioni del suo testamento sono chiare: il grosso del patrimonio è destinato a te.»
«A me?»
Monamour si è schiarito di nuovo la voce. «Sì.»
«Ma… non è giusto» ho obiettato. «Io l’ho ucciso.»
«Be’,» ha replicato lui, riordinando le carte «questo potrebbe anc...