1.1 Centralizzazione del capitale, altro che concorrenza!
Profezia minacciosa come poche altre, la legge di tendenza verso la centralizzazione dei capitali rappresenta un nucleo fondamentale dell’analisi di Marx. Nella visione marxiana, la lotta incessante tra capitali per la conquista dei mercati genera di continuo vincitori e sconfitti. Soprattutto nelle fasi di crisi, i capitali più fragili finiscono fuori mercato oppure, a colpi di fusioni e acquisizioni, vengono assorbiti dai capitali più forti. I piccoli padroni tendono quindi a scomparire dalla scena e il capitale si centralizza nelle mani di un ristretto manipolo di grandi capitalisti. Così, a lungo andare, il capitalismo si conforma alla cupa allegoria di Bruegel il vecchio: i pesci grandi mangiano i piccoli. Ovvero, per dirla con Marx, il grande capitale è un killer che “uccide” e fagocita il piccolo capitale.
Questa tendenza ha implicazioni colossali per l’evoluzione del capitalismo. Una delle conseguenze più rilevanti è che si viene a creare un sorprendente paradosso: a lungo andare, la concorrenza capitalistica crea il suo esatto opposto. Vale a dire, un sistema dominato da pochi giganti, dominatori della finanza e monopolisti dei mercati.
Per lungo tempo, la legge marxiana verso la centralizzazione capitalistica è stata solo una teoria, così articolata e complessa da risultare difficilmente verificabile. Con l’avvento però di nuove tecniche di ricerca, è diventato possibile mettere la tesi di Marx sul banco di prova dei dati. Queste nuove indagini, dette di network analysis, sfruttano la potenza di calcolo dei moderni processori per esaminare le complesse ramificazioni della proprietà globale del capitale. I risultati a cui giungono sono sorprendenti: la tendenza alla centralizzazione dei capitali trova riscontri, al di là di quanto si immaginasse un tempo. Alcuni nostri studi recenti segnalano, a questo riguardo, che oltre l’80 per cento del capitale quotato nelle Borse mondiali è controllato da meno del 2 per cento degli azionisti, un ristretto manipolo di grandi capitalisti che oltretutto tende a restringersi ancora di più a cavallo delle crisi economiche. Questa centralizzazione del controllo capitalistico si manifesta un po’ in tutti i settori, dai trasporti alla farmacia, dalla grande distribuzione fino ai media e all’editoria. Il fenomeno si verifica indipendentemente dall’alternarsi delle decisioni di conglomerare o di fare “spezzatini” dei comparti del business. Ed è una tendenza che si manifesta un po’ ovunque, negli Stati Uniti, in Europa e persino in Cina, al di là dei confini delle singole nazioni. Inoltre, è interessante notare che questo ristretto club di detentori delle quote di controllo del capitale mondiale risulta per molti versi stabile: una volta raggiunto l’olimpo, questa nuova oligarchia del capitale difficilmente viene scalzata14.
Una tale, immane concentrazione del controllo capitalistico ha ovviamente dei risvolti anche sulla struttura dei mercati, come ha notato il Fondo Monetario Internazionale. In un documento recente, condiviso anche dalla direttrice Kristalina Georgieva, il FMI ha lanciato l’allarme su uno degli effetti più devastanti della crisi pandemica: un’ondata di fallimenti tra le imprese più piccole e deboli è destinata a rafforzare il potere delle imprese leader dei mercati. In tutti i settori, banche, distribuzione, farmaci, la quota prevalente del mercato tenderà a concentrarsi nelle mani dell’1 per cento delle imprese dominanti.15 Stando al rapporto del FMI, questa ulteriore concentrazione monopolistica avrà pure risvolti negativi sul ritmo delle innovazioni scientifiche. Una volta liquidata la concorrenza, infatti, i giganti del mercato hanno ben pochi incentivi a finanziare le attività di ricerca e sviluppo. I loro sforzi si concentrano piuttosto nell’adozione di strategie che sbaraglino ogni residua concorrenza e consolidino il loro dominio sui mercati. Col risultato di arrecare danni ai consumatori, ai lavoratori, alla collettività. Insomma, alla fine i giganti del capitalismo diventano un po’ come dei vecchi signori medievali, comodamente seduti sul loro ormai indiscusso potere di mercato.
Potremmo definirla, in un certo senso, una svolta “marxista” del dipartimento ricerca del Fondo monetario internazionale. Ma al di là dell’etichetta, lo studio del FMI fa riflettere e ovviamente pone un problema politico: “che fare” dinanzi alla tendenza verso la centralizzazione dei capitali e la connessa monopolizzazione dei mercati? Inutile girare troppo intorno alla questione: la risposta logica dovrebbe consistere nell’esproprio pubblico dei giganti del capitale privato. Soluzione che suona ereticamente comunista, ma che in realtà in passato caratterizzava le politiche economiche dell’Occidente capitalistico, inclusa l’Italia. Il FMI, però, non osa nemmeno accennare a una simile ipotesi. Opta piuttosto per una soluzione minimalista, che consiste nel ribadire le consuete ricette dell’autorità per la concorrenza. Ovvero, le autorità antitrust dovrebbero vigilare sulle acquisizioni delle piccole imprese a opera dei grandi gruppi e dovrebbero sanzionare le pratiche monopolistiche più sfacciate. Con un po’ di multe e reprimende, bisognerebbe cercare di ripristinare l’antico ideale della libera concorrenza.
Possiamo considerare l’antitrust una ricetta efficace? Sembra di no, visto che viene applicata ormai da anni e non pare affatto in grado di bloccare la tendenza verso la centralizzazione capitalistica e la monopolizzazione dei mercati. Del resto, già negli anni ’50 l’economista John Kenneth Galbraith – che non era marxista – considerava la politica antitrust un futile esercizio dinanzi allo strapotere delle grandi corporation16 . In fondo, è un po’ come se a un vigile urbano munito solo di fischietto e di taccuino delle multe chiedessimo di fermare un feroce killer professionista in azione. Al limite il vigile si fa corrompere, oppure si fa del male. Ma non è mai in grado di fermare il killer.
1.2 Non fateli scappare
In questo tempo di profonda crisi democratica, può accadere che i fatti politici più rilevanti si verifichino non nelle aule parlamentari ma nei comitati direttivi delle banche centrali. Un caso significativo, avvenuto durante la crisi pandemica, è la decisione della Banca centrale europea e della Federal Reserve di vietare alle banche ordinarie di distribuire dividendi e di effettuare il buyback, cioè il riacquisto delle loro stesse azioni17.
Il divieto è scaturito dal timore di un boom di fallimenti tra le imprese e di una conseguente difficoltà di rimborso dei debiti contratti con le banche. La sola BCE ha calcolato oltre 500 miliardi di crediti deteriorati nel 2020 e ne prevede ancor di più negli anni successivi, cifre che potrebbero surclassare i record negativi della grande crisi iniziata nel decennio precedente18. In questo scenario di potenziali tracolli finanziari, la BCE ha spinto le banche a non disperdere il capitale e a mantenerlo in cassa per fronteggiare ogni difficoltà. Così, se non saranno in grado di farsi rimborsare dalle imprese debitrici, le banche dovrebbero almeno disporre di denaro sufficiente per soddisfare i depositanti che volessero recuperare i loro denari dai conti correnti.
Come è facile intuire, il divieto posto dai banchieri centrali ha suscitato non poco disappunto nei circoli della finanza mondiale. Nei momenti di crisi, i proprietari del capitale bancario temono un crollo dei titoli di cui sono in possesso e per questo vengono presi da un’irrefrenabile preferenza per la “liquidità”. Essi cioè desiderano cautelarsi contro ogni imprevisto, vendendo azioni e altri titoli e accumulando solo moneta liquida. Il buyback rappresenta, in questo senso, una forma di assicurazione contro eventuali rischi futuri. Ecco perché, se le autorità impediscono questo meccanismo di liquidazione, i grandi proprietari possono prenderla molto male. E possono decidere quindi di esercitare pressioni politiche per metter fine alle restrizioni. Ecco spiegato il motivo per cui, al fianco dei piccoli esercenti scesi in piazza durante la pandemia per chiedere di riaprire le botteghe, anche i più influenti azionisti delle banche hanno cominciato a invocare: «Libertà!». Nel loro caso, la libertà di riprendere i soldi e magari scappare prima che l’intero edificio bancario crollasse sotto il peso della crisi.
Tali influenti rimostranze, in effetti, qualche risultato lo hanno ottenuto. Andrea Enria, capo della vigilanza della BCE, ha cercato di rassicurare i possessori di azioni, garantendo che presto la BCE avrebbe annunciato il “liberi tutti”, ossia la rimozione dei divieti e la possibilità per i proprietari di liquidare tutto il capitale e darsela a gambe. Se a causa di ciò le banche entrassero in crisi, poco male. Gli azionisti avrebbero almeno in parte salvato i loro denari.
C’è del fascino perverso in queste mutevoli forme che il concetto di “libertà” riesce ad assumere in regime capitalistico. Nel caso specifico, la libertà di abbandonare la nave del sistema bancario prima del naufragio, in modo da riversare i costi del salvataggio sul resto della collettività. Durante la grande crisi del 2007-2008 è andata più o meno in questi termini. Se le cose si metteranno male, tenteranno il colpo anche stavolta.
1.3 Non chiamatele “mele marce”
Fa parte del senso comune l’idea che le crisi bancarie siano semplicemente frutto di comportamenti criminali. I tracolli finanziari sarebbero cioè la mera risultante dell’azione di intermediari senza scrupoli, che in spregio a ogni regola vendono titoli “spazzatura” a vedove, orfani, e a tutte le vittime inconsapevoli che gli capitino a tiro, al solo scopo di intascare i loro risparmi e darsi alla macchia. Stando a questa narrazione prevalente, le crisi bancarie sarebbero dunque, banalmente, una questione di poche mele marce. Basta individuare i farabutti e spedirli in carcere per tutelare un sistema bancario che per tutto il resto è assolutamente sano.
Questo convincimento, per quanto diffuso, è straordinariamente infantile. Per comprenderlo basta notare un fatto conclamato. In Italia, come nel resto del mondo, gli atti che hanno alimentato le crisi e che possono esser definiti criminali in senso stretto sono una netta minoranza. I comportamenti dei banchieri che si sono effettivamente tradotti in capi d’accusa e magari in condanne sono rarissimi. La ragione non verte nella capacità di questi soggetti di farla franca. Il motivo di fondo è che, quasi sempre, i disastri finanziari avvengono nel pieno rispetto della legge.
Nella stragrande maggioranza dei casi, quelli che oggi definiamo “titoli spazzatura” un tempo non erano affatto considerati tali. Nel momento in cui venivano venduti, quei titoli erano solitamente valutati bene dal mercato finanziario, dalle agenzie di rating, dagli operatori della finanza. Dall’intero sistema.
In Italia, per esempio, in quel di Bari c’erano fior fiori di dirigenti bancari esperti che facevano acquistare i titoli rivelatisi poi “spazzatura” persino alle loro stesse famiglie, convinti che quegli asset avrebbero visto crescere il loro valore. Casi analoghi si sono verificati nelle quattro banche italiane sottoposte alla risoluzione del 2015. Ovviamente, il fenomeno non è solo circoscritto al nostro paese. A livello internazionale, basti ricordare un caso americano che ha fatto scuola. Alla vigilia del tracollo di Lehman Brothers il mercato finanziario e le agenzie di rating valutavano i titoli della banca d’affari con la famigerata “tripla A”, cioè nel miglior modo possibile19. Evidentemente, il problema non viene solo da quattro mele marce in un contesto altrimenti sano. Il problema, per dirla con Shakespeare, è che è difficile scegliere in mezzo a un sistema fatto di mele marce20. Il problema è il sistema.
Che dunque la giustizia faccia pure il suo corso per punire chi ha commesso reati finanziari e ha distrutto così anche i sudati risparmi di lavoratrici e lavoratori. Ma la si smetta ogni volta di ridurre tutto a una mera questione giudiziaria. Si cominci piuttosto a porre la questione in termini più generali. Il punto fondamentale è che il mercato finanziario è un sistema in ultima istanza irrazionale, dominato da ondate continue di euforia e di panico, che rendono i prezzi dei titoli altamente instabili. Quelle onde, presto o tardi, sommergono gli sprovveduti e favoriscono i pochi speculatori capaci di cavalcarle. Il marcio, in altre parole, è nella logica profonda dell’odierno capitalismo oligarchico. Per quanto sconcertante, è esattamente questa la conclusione di fondo della più avanzata ricerca scientifica in materia. Basti ricordare gli studi del premio Nobel Robert Shiller e di altri, da cui si evince che i prezzi azionari sono molto più volatili dei dividendi, e quindi non possono banalmente dipendere da questi ultimi21.
Nell’odierno dibattito politico, ben pochi osano fare i conti con queste evidenze. Quando mi capitò di enunciarle durante un convegno a Roma, ricordo che il moderatore, il giornalista Claudio Cerasa, mi guardò smarrito, come se avesse visto il diavolo danzare. Dovette intervenire un ex banchiere centrale, Lorenzo Bini Smaghi, per spiegargli che le questioni che ponevo sono reali. Ma il problema non riguarda solo i giornalisti che ignorano. In Italia, persino i presidenti della Repubblica, da Ciampi a Mattarella, sono apparsi talvolta sedotti dalla falsa ideologia dei mercati “efficienti”, e per questo addirittura elevabili al rango di giudici imparziali della politica economica di un paese. Altrove non va molto diversamente. Purtroppo, i tempi per una critica del regime finanziario vigente sono ancora di là da venire. Nell’attesa, se non altro, sarebbe il caso almeno di tenere lontani i piccoli risparmiatori dagli azzardi del mercato. Anziché fingere di “educarli” a giocare in borsa, bisognerebbe tenere coloro che vivono solo del proprio lavoro alla larga dalla gigantesca roulette finanziaria che guida il mondo. Una roulette che funzionerebbe male anche se nessuno barasse.
1.4 Il bluff della finanza “verde”
Terrore del cambiamento climatico e della crisi ecologica? Niente paura, la “finanza verde” ci salverà. Larry Fink, general manager di Blackrock, una delle più grandi società di investimento al mondo, sostiene che le trasformazioni del clima stanno determinando una profonda rivalutazione dei rischi economici connessi al mutamento ambientale. Il mercato finanziario, a suo avviso, è in grado di prevedere in anticipo tali rischi e per fronteggiarli sta già determinando un cambiamento profondo nell’allocazione dei capitali22.
Fink prevede che sui mercati finanziari assisteremo presto alla svendita di titoli di quelle attività finanziarie che sono situate in aree a forte rischio di siccità e di desertificazione. Inoltre, si verificherà una svalutazione dei titoli delle aziende che operano nel campo dei combustibili fossili, mentre andranno sempre meglio le aziende che operano nel settore delle energie alternative. Molto richiesti saranno anche i cosiddetti green bonds, ossia titoli che consentono di investire in attività sostenibili dal punto di vista ecologico.
Nell’ottica di Fink, il mercato finanziario viene inteso come un infallibile demiurgo del futuro: non solo capace di vedere in anticipo i cambiamenti climatici, ma anche di promuovere gli investimenti ecosostenibili necessari a fronteggiarli. Il racconto è accattivante, e guarda caso circola con sempre più insistenza nei club ecologisti d’alto bordo. Persino all’interno del World Economic Forum, nel famigerato documento The Great Reset. Si sono dette varie cretinate su quel rapporto, ma una cosa è vera. Come sostenuto da Carlo d’Inghilterra, considerato dai più un irreprensibile ambientalista e fervido sostenitore del “reset”, il documento teorizza che «il settore privato detiene la chiave» per risolvere la crisi climatica, basterà solo che le autorità pubbliche diano qualche incentivo per orientare la finanza privata verso gli investimenti ecologici. Questa idea, beninteso, non è accarezzata solo da nobili e finanzieri ma seduce anche i massimi rappresentanti dei governi. Essa ha trovato pure Mario Draghi tra i suoi più autorevoli sostenitori, quando al G20 ha dichiarato che «le più grandi istituzioni finanziarie private hanno manifestato in varie occasioni un impegno», contribuendo con le loro capacità di analisi e di previsione alla causa ecologista. E soprattutto, è un’idea mutuata dalla gran mole di letteratura accademica ortodossa che decanta le virtù premonitrici del mercato finanziario. La q...