Sono stato il primo rampollo di due famiglie contadine molto diverse e distanti tra loro: quella del babbo, originaria di Stigliano in provincia di Matera, e quella della mamma, originaria di Scandicci, alle porte di Firenze. Mia madre, classe 1920, era figlia di un ex contadino fuggito dalla campagna e trasferitosi in città, un ribelle come tanti giovani contadini toscani dell’epoca abituati, grazie alla mezzadria, a tener testa con dignità a padroni e fattori. Fu influenzato prima dalle idee anarchiche di Bakunin, allora di casa in Toscana, e in seguito, richiamato in guerra e mandato al fronte, dalle idee socialiste e protocomuniste che serpeggiavano nelle trincee. In ultima analisi, era un inquieto ribelle che non sopportava di essere soggiogato al potere dei preti e dei padroni. Una volta arrivato in città fece vari lavori molto umili finché alla fine riuscì a essere assunto come usciere alle Ferrovie dello stato. Le Ferrovie in quegli anni erano in grande espansione e si presentavano come l’unica azienda statale che avesse al suo interno un’importante presenza di classe operaia. Proprio per questo erano un terreno fertile per l’attività politica del sindacato socialista. Fu così che mio nonno entrò in contatto con le idee e l’opera del Partito socialista e del suo dirigente più noto, Spartaco Lavagnini. Questo significò un grosso salto nella sua elaborazione politica che sfociò, nel 1921, nell’adesione al nascente Partito comunista. Qualche anno dopo, la sua ormai dichiarata militanza politica che lo portò a rifiutare di prendere la tessera del fascio, gli causò il licenziamento dalle Ferrovie e il conseguente ritorno a Scandicci a fare il contadino. Fu in quel periodo che la sua figlia più piccola, mia madre, si fidanzò con quel carabiniere che sarebbe diventato mio padre.
Come ho già accennato, le caratteristiche umane e sociali di mio padre erano ben diverse da quelle della famiglia di mia madre: mio nonno paterno era analfabeta e viveva facendo il portatore di pietre nei mesi invernali e il bracciante agricolo in quelli estivi. Anche mio padre, mai andato a scuola, aveva iniziato a migrare fin da piccolissimo verso la Puglia per andare a guadagnare due lire tagliando il grano e facendo altri lavori agricoli. Nel profondo Sud dell’epoca, un giovane inquieto come mio padre per sfuggire a questa desolante povertà aveva solo due strade davanti: o il seminario o i carabinieri. La prima scelta era la più appetibile ma lui era troppo irrequieto e ricalcitrante per essere accettato e quindi dovette scegliere la carriera militare.
Una volta carabiniere cominciò a collezionare, non certo per sua scelta, guerre: prima in Spagna ad appoggiare Franco contro la Repubblica spagnola, poi in Etiopia e in Abissinia. Esperienze, soprattutto le seconde, terribili perché, come tutti i suoi commilitoni, fu costretto a macchiarsi di atti di spaventosa ferocia contro quei popoli aggrediti dall’Italia. Questa “campagna d’Africa” della quale si parla poco ancora oggi, aveva traumatizzato mio padre al punto che quando mia madre chiedeva a suo marito di raccontarle qualcosa dell’Africa, lui si metteva a piangere senza riuscire a proferir parola.
Naturalmente per mio nonno materno Ottavio (che come avrete già capito era un bel mangiapreti antimilitarista) il fatto che la figlia si mettesse con un carabiniere fu un dolore immenso, peggiore soltanto dell’ipotesi che si facesse monaca. Preti e carabinieri erano i suoi nemici pubblici, quelli che avevano il compito di giustificare (i primi) e difendere (i secondi) il potere padronale attuato attraverso lo stato.
Ciononostante, come si dice, fece buon viso a cattiva sorte e lo ricevette in casa. Narrava mia madre che quando fu fatta la cosiddetta “presentazione” erano le tre di un pomeriggio estivo del 1939. Mio padre fece praticamente un soliloquio di fronte agli occhi scrutatori dei nonni con grande imbarazzo della promessa sposa, timida come poche. Poiché erano quasi le sette e non accennava ad andarsene ma anzi continuava tranquillo a raccontare aneddoti nel silenzio generale, la famiglia ospitante cominciò a preoccuparsi e a chiedersi se non fosse stato il caso di invitarlo a cena. Lo fecero e lui rispose con un deciso e tranquillo «sì» causando un piccolo dramma: in casa c’erano solo uova e i pomodori dell’orto. La cena non sarebbe stata luculliana ma le donne di casa si ingegnarono e poco dopo portarono in tavola una teglia con dodici uova al pomodoro. La offrirono a mio padre che se la pose davanti incominciando a mangiare direttamente dalla teglia. Gli altri componenti della mia famiglia si guardarono allibiti e, seguendo i dettami del grande Totò e di un certo sussiego altezzoso dei fiorentini, rimasero zitti per guardare fino a “dove voleva arrivare”. Mio padre arrivò fino all’undicesimo uovo e poi, scusandosi, con aria contrita disse: «Perdonatemi ma non ce la faccio proprio a finirli». Erano davvero due mondi con grandi difficoltà di comunicazione tra loro: uno quasi altezzoso nella ricerca di una propria signorilità e uno espansivo e stravaccato inconsapevole degli imbarazzi che creava. Ciononostante nel settembre dello stesso anno si sposarono.
Come da regola dell’Arma, subito dopo il matrimonio mio padre fu trasferito lontano dalla residenza della sposa. Nel suo caso, lontano fu Piancastagnaio sul Monte Amiata. Lì, l’8 giugno del 1940, sono nato io.
Due giorni dopo la mia nascita l’Italia entrò in guerra e mio padre fu inviato sul fronte francese prima e su quello greco poi: lo avrei rivisto e praticamente conosciuto nel 1945. Io rimasi in quel paesino di minatori con la mamma che avendo poche conoscenze si sentiva molto sola.
Per me invece furono 4-5 anni anni meravigliosi perché avere a disposizione la mamma per ventiquattro ore al giorno per un bambino è una gioia enorme. Fu in quel periodo inoltre che cominciò la mia avventura da disegnatore. Mia mamma, infatti, quando avevo tre anni, non sapendo più cosa leggermi o raccontarmi (in casa avevamo solo 3 o 4 libri di fiabe), incominciò a cercare della carta dove potessi disegnare. All’epoca nei paesini di montagna non esistevano cartolerie ed era assai difficile procurarsi della carta da disegno, così usavo il retro delle buste delle poche lettere che arrivavano o, ancor meglio, la carta gialla degli alimentari. Era un gioco veramente appassionante di cui non mi stancavo mai. Credo che in questo modo abbia identificato il disegno con quello che gli psicologi chiamano il “ventre materno”, cioè quella sicurezza e tenerezza che mi trasmetteva mia madre, e che da allora, forse proprio per questo, non ho più abbandonato. Da allora, ogni volta che avevo delle paure o delle angosce, l’unico modo per recuperare la serenità era, ed è ancora oggi, mettermi a disegnare.
Questa solitudine, consolata solo dall’amicizia con qualche famiglia Pianese vicina di casa, veniva interrotta a volte dalle visite saltuarie dei miei nonni materni. Una di queste visite coincise con il fatidico 25 luglio del 1943, quando il Gran consiglio del fascismo sfiduciò e fece arrestare Mussolini. Il giorno dopo anche a Piancastagnaio, come in tante altre parti d’Italia, ci fu una manifestazione di giubilo per la caduta del fascismo e un gran numero di persone scese in piazza. Tra questi c’eravamo anch’io e mio nonno che per l’occasione mi aveva confezionato una bandierina rossa usando una piccola canna e un rettangolo di carta velina di quel colore. «È importante,» mi disse «è la bandiera della libertà dei popoli.» Vista l’età non potevo certo capire il senso delle sue parole ma quella bandierina mi piaceva tantissimo ed era emozionante farla sventolare mentre sfilavamo in tanti per quelle antiche stradine medievali. Andammo insieme al corteo, mano nella mano, finché la folla non diede l’assalto alla Casa del Fascio portando via o gettando dalle finestre ogni tipo di suppellettili. Fu a quel punto che mio nonno decise di portarmi via. “Proprio sul più bello” pensai tra me.
Come sappiamo, quella gioia per la fine del fascismo durò pochissimo e quella pace che sembrava quasi raggiunta si trasformò invece in guerra ancora più terribile anche nel nostro paesello: da una parte nazisti e fascisti che imperversavano con ferocia, dall’altra tanti giovani contadini e minatori che salivano in montagna a ingrossare le formazioni partigiane.
Era sempre il 1943 e con la mamma e la nonna ero intento a giocare con un camioncino di legno nei giardinetti sotto il castello del paese quando si udirono spari e urla. Poco dopo due camion carichi di fascisti entrarono in piazza. Capii dopo, dai discorsi dei grandi, che venivano da Firenze ed era una cosa chiamata “spedizione punitiva” perché dei partigiani avevano ucciso un fascista. La vedova di questo fascista di nome Speranza precedeva a piedi i due camion, urlando tra le lacrime maledizioni e ignominie contro gli assassini. I fascisti sparavano in aria in ogni direzione urlando con forte accento fiorentino frasi del tipo: «Bucaioli, vi si ammazza tutti! Venite fuori pezzi di merda!» e cose simili. Fu la prima grossa paura della mia vita. Scappammo tutti e tre verso casa ma io ne rimasi così traumatizzato che per tanti anni, anzi tantissimi, non solo fui incapace di parlare con accento fiorentino ma addirittura mi assaliva la paura quando qualcuno lo usava in modo troppo accentuato.
Anche per questa piccola grande esperienza, è facile intuire come il colore rosso del comunismo, di fronte al nero di quei fascisti, avesse molte più possibilità di far breccia nel mio cuore.
Al momento di compiere 4 anni, i primi di giugno del 1944, i nazifascisti abbandonarono Roma risalendo verso il Nord. In quei giorni Pio XII parlò in piazza San Pietro a una folla enorme di popolo romano e di soldati delle truppe di liberazione. Noi a Piancastagnaio possedevamo una delle poche radio del paese e quella mattina la casa si riempì di tanti paesani venuti ad ascoltare la parola del papa. Il clima era teso e pesantissimo, si sentiva lontano un miglio la paura enorme del non poter immaginare cosa ci sarebbe accaduto. Dalla finestra io vedevo le truppe tedesche attraversare il paese con molti camion e moltissimi soldati con grossi fucili in fila ordinata e a piedi. Da alcuni altoparlanti fissati sui camion uscivano in continuazione canti militari tedeschi. Anch’io naturalmente morivo di paura e nella notte spesso mi svegliavo stringendomi a mia madre perché nel buio della camera mi sembrava di vedere i briganti assassini di Pinocchio che venivano a prendermi per impiccarmi.
Poco dopo iniziarono i bombardamenti alleati e tutta la popolazione lasciò per alcuni giorni il paese andandosi a rifugiare nelle grotte più alte del monte. Ore chiusi lì in attesa che gli aerei si allontanassero e che cessasse la caduta di sassi e pulviscolo dal soffitto della grotta a ogni esplosione che faceva tremare la terra. Quando finì andammo a salutare tutti insieme le vittime di quei bombardamenti e ricordo le tante bare sul piazzale del convento. Mi colpirono molto le piccole bare bianche dei bambini anche se la morte allora era una cosa che non era proprio una novità. Nei paesi più poveri dell’Italia di allora la morte era una presenza quasi quotidiana, quasi fosse una persona di famiglia, soprattutto la morte dei bambini. Lo si sapeva, era così: le famiglie facevano un po’ di figli ed era nel conto che qualcuno di loro morisse da piccolo. Anche la sorellina di Lorena, una bambina con cui giocavo e che per prima al mondo mi fece scoprire che non tutte le persone avevano il pisellino, morì da un giorno all’altro e nessuno di noi due pianse.
In questa situazione di silenziosa tristezza in cui gli stessi disegni che continuavo a fare con la mamma non riuscivano più a tranquillizzarmi del tutto arrivò la bella notizia che mio padre era vivo e stava tornando. Si trovava a Brindisi, portato in aereo con tanti altri superstiti della divisione Venezia dal Montenegro. Dopo l’8 settembre del 1943 non si era consegnato ai tedeschi ma fortunatamente era salito in montagna aggregandosi alle formazioni partigiane iugoslave, i cosiddetti “titini”, dal nome del comandante partigiano futuro presidente della Jugoslavia Josip Broz Tito. Aveva gettato via la divisa da carabiniere, invisa ai partigiani, per vestirsi da soldato semplice con tanto di fazzoletto rosso al collo. Ne aveva passate di tutti i colori e si era salvato per la sua innata bontà.
Dopo l’8 settembre Tito offrì alle truppe italiane presenti sul suo territorio di passare al fianco delle formazioni partigiane iugoslave. Questo invito non era esteso ai carabinieri che seguivano i reparti dell’esercito. Questo diverso atteggiamento derivava dal fatto che i primi, i soldati, erano stati costretti ad andare in guerra, gli altri avevano scelto di fare i Carabinieri. Questo comportava l’immediata fucilazione di ogni combattente riconosciuto come ex carabiniere. Era successo però che prima di quel fatidico 8 settembre mio padre, che con un sidecar esercitava un servizio postale tra Bar e Pogradec, aveva incrociato in un paesino una bambina denutrita che lo guardava davanti a una casupola molto povera. Mi raccontò, una volta in Italia, che vedendo quella bambina gli ero tornato in mente io, quel bambino che aveva visto solo per poche ore e di cui non sapeva più nulla. Mi pensò denutrito come la bimba e sperò che se avesse fatto un atto di bontà nei confronti di lei, qualcun altro in Italia forse avrebbe fatto un simile atto nei confronti miei. Prese la pagnotta che gli era stata appena consegnata con il rancio e la diede a quella bimba. La bimba ammutolì e, afferrato il pane, scappò in casa. Subito dopo, sulla porta apparve il padre, un contadino che ringraziò e invitò il carabiniere a bere un bicchiere d’acqua. Mio padre accettò l’acqua ma la bevve senza entrare in casa per paura di qualche imboscata. Mesi dopo, quando si ritrovò travestito da soldato e confuso con altri italiani nelle zone controllate dai partigiani, fu con sorpresa bloccato da due di loro che avevano l’ordine di portarlo al comando. Lui e i suoi compagni si impaurirono molto temendo che l’avessero riconosciuto come carabiniere e che lo chiamassero per fucilarlo. La sorte volle che il comandante di quella formazione partigiana fosse il padre di quella bambina a cui aveva donato il pane. «Ti ho riconosciuto, carabiniere», gli disse con un sorriso «ma tu sei un uomo buono e ti accogliamo tra noi» e gli consegnò quel fazzoletto rosso con cui mio padre ritornò, pieno d’orgoglio, in Italia.
In effetti scoprii ben presto che quel padre che mi arrivava dal nulla, pur essendo assai diverso dal nonno, era pur sempre una persona che si meritava il mio affetto. Ad esempio, a differenza di mio nonno, non parlava mai di politica e aveva delle idee molto confuse sulla situazione sociale esistente. Le uniche sue sicurezze erano saldamente legate all’Arma e il suo motto era veramente diventato quel «Usi obbedir tacendo e tacendo morir» che era scritto in ogni angolo delle caserme.
Prima di essere imbarcato per il volo di rientro verso l’Italia aveva incontrato il sottosegretario alla difesa del governo Badoglio, Mario Palermo, comunista, che era andato in visita alle nostre truppe in Montenegro. Quel giorno il sottosegretario passando in rassegna i soldati schierati sull’attenti si fermò, chissà perché, proprio davanti a mio padre chiedendogli le generalità. Mio padre si presentò ufficialmente: «Carabiniere a piedi Staino Giovanni, agli ordini». L’aiutante del sottosegretario sorrise con un po’ di malignità: «Ah, carabiniere! Voi siete quelli che ci avete perseguitato per vent’anni». Mio padre si irrigidì e guardando solo il sottosegretario rispose: «Mi risulta però che siamo anche quelli che hanno arrestato Mussolini così come, se Sua Eccellenza me lo ordina, sono pronto ad arrestare il signore qui al suo fianco». Mi raccontò che Palermo, di fronte a questa risposta lo abbracciò dicendo al suo uomo: «Non scherzare, di questi carabinieri ha bisogno l’Italia».
Fu per questo che mio padre, una volta tornato a Firenze, entrò nella sua legione di riferimento vestito da carabiniere ma con il fazzoletto rosso al collo. Era la primavera del 1945 e solo sei anni dopo, nel 1951, questo gesto di presentarsi con il fazzoletto rosso al collo, entrò nel meccanismo dell’epurazione delle forze armate condotta dal ministro democristiano Scelba che allontanò mio padre dall’Arma costringendolo al pensionamento anticipato.
Agli inizi del 1945 tornammo a vivere a Firenze in casa dei nonni materni e, un anno dopo, ci spostammo tutti in una casa con tanto di podere vicino alla città, nella zona di San Quirico a Legnaia. Nel frattempo mio padre non aveva perso tempo e a nove mesi dal suo rientro in Italia, nacque mio fratello. Lui aveva un anno quando io cominciai a frequentare la scuola elementare Giovan Battista Niccolini di Legnaia. La mamma mi accompagnava e mi riportava a casa ogni giorno facendomi sedere su un’assicella di legno incastrata sulla V della struttura della bicicletta da donna. Lì a San Quirico esistevano due strutture per la collettività: la chiesa con l’oratorio e la casa del popolo dedicata al partigiano Bartolozzi. Insieme alla scuola furono i due ambienti che frequentai assiduamente.
La casa del popolo aveva anche una sala per il cinema e il mio sogno onirico fatto di tante immagini, ogni domenica si beava di quelle proiezioni. Era una casa del popolo ma non disdegnava i film di carattere apertamente reazionario. Ne ricordo uno in particolare, La primula rossa con Leslie Howard nel ruolo del protagonista che tentava disperatamente di salvare la famiglia reale di Luigi XVI dalla terribile ghigliottina dei facinorosi e indemoniati rivoluzionari. Quanto ho pianto sulla sorte dei due piccoli principini uccisi insieme ai genitori. Ma era storia lontana, mi diceva il nonno che si guardava bene dal raccontarmi della fine della famiglia dello Zar Nicola.
Fu lì in quella casa in mezzo ai campi che vissi le mie prime esperienze legate al forte scontro politico che seguì la fine della guerra. Comunisti, monarchici, ex fascisti, democristiani, si urlavano gli uni contro gli altri in ogni angolo della strada e poi il piano Marshall, l’aiuto peloso degli americani, la voglia di insurrezione, la Russia faro di civiltà per i popoli del mondo, i comunisti che avrebbero portato via le case a tutti noi… Dovevo avere una bella confusione in testa e la figura del nonno un po’ mi rasserenava e un po’ mi faceva paura.
La mamma e la nonna mi portavano in chiesa, “a dottrina”, come si diceva. Il prete di San Quirico era abbastanza giovane, molto sportivo e molto attivo. A me risultava simpatico e mi affascinava tantissimo quando ci raccontava le storie di Gesù e forse è stato proprio lì che quella bandierina rossa che il nonno mi aveva fatto fiorire nel cuore dovette fare un po’ di posto a questo signor Gesù altrettanto buono e generoso. Fino a quel momento Gesù lo avevo conosciuto soprattutto come bambino, quel tenero bambinello di gesso che a ogni Natale veniva sistemato nella mangiatoia del presepe. Quel presepe che la mamma metteva in piedi con tanta passione coinvolgendomi in...