L'ultima ricamatrice
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L'ultima ricamatrice

  1. 176 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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L'ultima ricamatrice

Informazioni su questo libro

Appoggiata ai bordi del bosco, sulla via che dal paese va verso le montagne, c'è una piccola casa solitaria: è qui che vivono le ricamatrici. Ora è rimasta Eufrasia a praticare l'arte di famiglia, tesse, cuce, ricama leggendo in ogni persona che le si rivolge i desideri più inconsci. Accanto a lei come prima alla bisnonna, alla nonna e alla madre, da sempre, il telaio di ciliegio, rocchetti, stoffe, spole e spilli. Eufrasia ha settant'anni e ha quasi smesso di lavorare, le mani curvate dall'artrite e la modernità in cui tutto è fatto in fretta le avevano fatto pensare di non servire più a nessuno.
Ed è in quel momento che arriva Filomela, una ragazza giovane con il riso negli occhi oltre che sulle labbra, che le chiede di prepararle il corredo e di insegnarle a ricamare. Eccola, l'ultima occasione di fare ciò che Eufrasia più ama: rendere felice qualcuno, raccontargli la vita che verrà intrecciando trama e ordito. Le parole che ha risparmiato per tutta l'esistenza ora sgorgano come fiumi in primavera. Racconta di una giovane vedova di guerra gentile ed esperta nel taglio e cucito, di una splendida e coraggiosa ragazza troppo bella per non attirare le malelingue di paese, di un amore delicato come il filo di lino e tanto sfortunato, e di un ricamo tessuto da generazioni, in cui ognuna di loro ha scritto un pezzo della propria esistenza, una scintilla luminosa nel buio del mondo.

Elena Pigozzi in questo romanzo, ordito sapientemente come il ricamo più pregiato, ci fa vivere cento anni di storia in un battito di ciglia, a volte vento leggero e luminoso, altre cupo e foriero di sventura. Tante vite si intrecciano in queste righe, tanti amori, ma soprattutto l'amore per la vita stessa e per un'arte millenaria che sono la vera eredità dell'ultima ricamatrice.

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Informazioni

eBook ISBN
9788858525043
Argomento
Literatura

L’ULTIMA RICAMATRICE

Questo romanzo è un’opera di fantasia. Personaggi e situazioni sono invenzioni dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, eventi, luoghi e persone, vive o scomparse, è puramente casuale.
A Mario, che rende veri i miei sogni
Confeziono abiti su misura. Cerimonie, feste, banchetti. Per ciascuno ritaglio l’abito adatto all’occasione. Ho mani d’oro, dicono in paese, e io mi difendo con un sorriso, schivo lo sguardo e afferro gli spilli.
L’arte mia è sistemare con l’ago, aggiustare, cucire ma non solo le stoffe. L’arte mia ricama parole, le taglia a misura perfetta del cliente che viene da me, per chiedermi il vestito con cui figurare. “Figurare”, mi dice, perché sentirà addosso gli sguardi degli altri. Me lo ripete più volte. Da quando gli prendo le misure a quando gli adatto le prove di stoffa imbastita. E parla, mi racconta di sé, di lui che era ragazzo e voleva un completo bianco, come quello dei padroni dei campi. E lui, contadino, le gambe arcuate di chi è cresciuto poco, il ventre solido, i palmi ruvidi di calli e le rughe orizzontali che gli tagliano il viso, ha messo da parte i risparmi e ora al matrimonio del nipote non può andarci senza l’abito adatto. Allora ricamo le frasi, le seguo con refe di seta e aggiusto la storia che quest’uomo si porta addosso. La sistemo in forma di abito bianco e do alla giacca il taglio che serve a sostenere l’eleganza di una vita.
Il mio laboratorio è al centro della casa, che è una fettuccia di raso da sposa, una stanza a fianco all’altra, infilata di seguito. La mia è nel mezzo, la finestra che scoperchia un angolo di bosco e il profilo delle montagne poco oltre. Vivo qui da cinquant’anni, e da cinquant’anni mi alzo appena prima dell’alba, aspetto che la luce scrosti il nero colloso della notte, apro bene le imposte e comincio il mio lavoro.
Ho un telaio che è regalo di nonna Clelia, una struttura in legno di ciliegio, con cui scriveva arazzi, oltre a tessere stoffe di broccato, di damasco, di seta e velluto. Anche mia madre Miriam è stata tessitrice, ma per campare faceva la sarta.
Clelia è stata maestra mia e di Miriam. Tesseva, cuciva, ricamava. I suoi tessuti erano una miniera di bellezza. Miriam raccoglieva brandelli di stoffa che avanzavano, orli aggiustati, bordi di arazzi. Raccoglieva quegli scampoli come conchiglie sulla sabbia e li custodiva in una scatola di latta, un tempo colma di biscotti alla cannella. La scatola è diventata il paradiso dei miei giochi.
L’ultimo lavoro porta il nome di una ragazza, Filomela. Ha bisogno del corredo da sposa. Abito, tovaglioli, tende e lenzuola. «Il necessario per abitare una nuova casa con il mio sposo» mi ha detto con una voce che è frullo d’usignolo. Erano anni che non mi chiedevano un corredo. Oggi, che è secolo pieno di zeri, la gente preferisce entrare in un magazzino e comprare roba già bellechepronta.
Ho guardato Filomela per capire chi fosse quella ragazza che nel Duemila fa richieste così strane.
Non l’avevo mai vista. Il paese è un piccolo borgo ormai quasi disabitato, siamo rimasti in un pugno di famiglie che possiamo contarci con le mani. «A me piace questo posto» mi ha detto modulando le parole con dolcezza. E mi ha raccontato che lei e Teodoro, il futuro sposo, hanno deciso di lasciare la città con il carico di frenesia e traffico.
«Amiamo la natura e gli animali» ha proseguito socchiudendo gli occhi che paiono mezzelune dorate. «Abbiamo comprato una casa nel borgo del forno» ha spiegato con una lentezza che è scegliere con cura le parole prima di pronunciarle. «Ne faremo un agriturismo e chissà cos’altro.» Ha guardato verso il corridoio, curiosa forse di conoscere la casa a striscia di budello, che serpeggia sul colle tra il verde della piana.
Sapevo di alcuni ragazzi arrivati dalla metropoli che hanno acquistato le case diroccate del borgo.
I loro genitori correvano in città spinti dal sogno di un futuro migliore, ho pensato, e i figli si riprendono ciò che i padri hanno abbandonato.
«Vorrei imparare il mestiere» mi ha detto. «Cucire, tessere, ricamare. Le darei una mano con il corredo.»
L’ho guardata senza dire una parola, finché si è fatta rossa in viso. «Può anche dirmi di no» ha aggiunto rapida.
Perché?, mi sono chiesta. Mio figlio chissà in quale angolo di mondo è finito, io sono vecchia, gli anni mi affaticano le gambe.
«Sì» le ho risposto. «Ma solo per qualche ora al giorno. Il mio tempo è poco.»
Filomela mi ha sorriso e allungato la mano.
«A domani» le ho detto guardandola negli occhi.
«A domani» mi ha risposto abbassando il capo, come a difendersi dal mio sguardo. Mi ha voltato le spalle ed è uscita.
L’ho osservata seguire la strada bianca che scivola tra la collina e fiancheggia il monte, quindi sbuca nel borgo.
Ci sono presentimenti che senti pulsare dentro di te e che cacci come una mosca che ti ronza intorno.
Mi dicevo che si sarebbe fermata e si sarebbe girata nella mia direzione.
Poco prima che la stradina segua il prato, si è voltata e ha alzato la mano. Poi ha proseguito con quel suo passo a ritmo di danza.
Filomela è arrivata che l’alba era srotolata in un drappo rosa e copriva ogni traccia di buio rimasto nel cielo. Aveva raccolto i capelli in una treccia morbida, sul viso nemmeno un poco di trucco, e reggeva una cesta di vimini.
«Ho portato ago, ditale, forbici e spolette» mi ha detto, con un trillo di fiato.
Mi piace la puntualità, che è rispetto del tempo dell’altro. Che è dire avevo voglia di stare con te, spero di non darti disturbo, è così breve il tempo che abbiamo per noi, che, se lo sciupiamo, è sprecare ciò che c’è di più prezioso.
Lei non è di tante parole, sembra tenerle in una custodia, ne ha cura come oggetti rari e le sceglie al momento propizio, quando incrocia il mio sguardo che le chiede qualcosa.
In silenzio siamo entrate nel laboratorio, le ho mostrato il telaio, i manichini, la scatola di latta e i modelli da ricamo e le ho indicato dove sedersi.
“C’è qualcosa di lei che mi appartiene”, ho avvertito in uno spazio tra il diaframma e il costato. Quando ho osservato come afferra l’ago, prepara il canestro, passa il cotone nella cruna e affonda la punta su tela di lino. Un qualcosa che mi appartiene e che è delle donne prima di me.
«Mi racconti la sua vita» mi ha chiesto sollevando il viso, la mano che tirava il filo e io che sentivo il calore di un fuoco accendersi nel fiato.
«C’è poco da dire» le ho risposto. E ho iniziato il ricamo.
Lavoro di ago e filo da più di sessant’anni. Ho viaggiato poco, se viaggiare è spostarsi da un luogo all’altro, cambiare paese, gente, città. Se questo è viaggiare, il mio è stato uno spostarsi da un paese a quello vicino per fare subito ritorno nel luogo in cui sono nata, che è sulla sponda del fiume che scorre proprio sotto la mia finestra. Di viaggiare non ne ho bisogno, sono i viaggiatori che vengono da me e mi portano i luoghi che hanno visitato, i sogni e i desideri che rendono rapido il cammino.
È quando stringo l’ago, ci passo il filo, afferro la stoffa, che inizio il viaggio. Allora ricamo o tesso le storie che sento dentro e sono certa di imprigionarle nella seta e di ripetere i giorni, i mesi, gli anni. Ripetere finché li ho cuciti nella tela e il ricamo parla di me. Ripetere ciò che vedo attraverso la finestra, il bosco che è macchia di verde, la forma dei rami e dei tronchi, la luce che filtra tra le foglie.
Ripetere perché sono vecchia e certa di essere giunta al fondo, di avere quasi terminato la spola. Quando si arriva al bordo del tessuto e bisogna aggiustare di smerlo, puntare la seta e rendere prezioso l’orlo, che ogni cosa va finita, perché spesso è la fine che dà senso all’inizio.
Ho fatto una pausa, girando lo sguardo verso Filomela. Ricamava con gli occhi socchiusi, come se stesse seguendo un disegno e per vederlo dovesse guardarsi dentro.
«Hai la mano sicura» ho detto.
«A sei anni ho imparato a reggere un filo» mi ha risposto.
«Si vede» le ho confermato.
Mi sono alzata dalla sedia e avvicinata alla finestra. Il sole aveva raggiunto la metà del cielo e nessun’ombra si proiettava a terra.
«Che strano, per una ragazza così giovane,» ho commentato «amare il cucito.»
«Forse non sono una ragazza di questi tempi» ha replicato sostenendo il mio sguardo.
«Forse» ho accennato, curiosa di conoscere chi è questa giovane così diversa dalle altre che ho incontrato.
«Ora devo andare» mi ha preceduto Filomela, sistemando il tombolo nella cesta, con l’ago, il ditale e la spola di cotone.
«Saranno cuscini da culla» le ho detto, scorgendo nel suo volto come un cenno d’intesa, la conferma di un’intuizione.
«Allora a domani» mi ha salutato, mentre si muoveva con gesti eleganti.
Non l’ho seguita alla soglia. Sono rimasta nella stanza e mi sono seduta.
Ho ripreso a ricamare, accompagnata da un refolo di vento che entrava dalla finestra e dal rumore dei suoi passi.
Silenzio e voci. Fare spazio dentro e farci entrare la luce, il vento, le nuvole. Farci entrare la vita che è fatta di gesti che si rincorrono e si perdono. Che si rinnovano e che tornano in uno sguardo, un volto, un suono.
Sarà un vestito bianco a forma di calle l’abito da sposa, con il corpetto di pizzo e la gonna di raso che cade sui fianchi. Filomela sarà la margherita sbocciata tra i sassi. L’abito rifletterà la sua forza, in una linea che è bellezza di corolla.
Niente fronzoli: avrà un taglio raffinato, uno strascico leggero e appena un velo corto a raccogliere i capelli.
Lei mi ha sorriso. «Vorrei aiutarla a imbastirlo» mi ha detto mentre le prendevo le misure.
È una richiesta che non mi ha stupito. «Cucire appartiene al rito della sposa» le ho detto. «Anch’io ho cucito la mia veste. E così mia madre e le donne prima di lei. Ricameremo insieme, un poco al giorno, finché l’abito sarà ultimato.»
Filomela è rimasta in silenzio a guardare il bozzetto del suo abito. Un cartamodello da cui taglierò raso di seta e mussola leggera. Le ho mostrato i ricami del corpetto e lei ha passato l’indice sulla carta a seguire il tracciato, come a leggere la storia che era scritta nel ghirigoro del disegno.
«Mi racconti di quando s’è innamorata» mi ha sussurrato, senza staccare lo sguardo dal modello.
«Sono vecchia» mi sono difesa per cacciare l’imbarazzo.
«Di com’è che è stato. Di com’è che è capitato» ha insistito.
Difficile parlare di quanto nasce nella carne e non ha parole, ma altre forme. Difficile dire ciò che porto dentro da anni e proteggo da ciò che potrebbe rovinarlo. Se penso a quando è stato che mi sono innamorata, ricordo uno sguardo, un gesto, un volto che mi dice una frase, ma bene com’è stato non lo ricordo più.
Perché è nato da un punto tra le pieghe del respiro e del cuore. È da lì che ho sentito il battito incepparsi, saltare un tempo e riprendere più veloce. Il perché me lo sono chiesta, guardando intorno cos’era cambiato. E niente, era tutto come prima. Gli alberi, le case, il cielo azzurro e le nuvole bianche. C’era un ragazzo che parlava a un bambino. Era concentrato su di lui, io gli ero seduta accanto.
E osservavo l’uomo che nemmeno mi degnava di uno sguardo. Lo guardavo e mi chiedevo perché aveva voluto che mi sedessi con lui e perché avessi accolto quel suo invito come fosse l’invito per una festa. E mi dicevo: “Smettila di prestare ascolto al tuo fantasticare”.
È in quell’istante che mi sono innamorata. Lo ricordo con certezza perché poco prima che accadesse ero lucida. Come lo è chi avverte il pericolo poco prima di fermarsi. È stato l’istante in cui ho sentito tirare una corda interna e lo strappo mi ha stordita.
È successo in quel momento. Che sì, mi piaceva quel ragazzo. Che forse mi piaceva anche prima, ma cacciavo il pensiero ogni volta che si presentava. Non può essere, mi ripetevo prima che capitasse. Invece lì seduta, sfiorando con gli occhi il suo profilo, ho sentito che la carne mi parlava e ho intuito cosa mi volesse dire. Ma ancora ho aspettato che la vita accadesse. Che le parole accompagnassero i gesti. Perché innamorarsi è movimento, ci si finisce dentro e ci si cade. E non resta che affidarsi, abbandonarsi all’incontro.
«E poi?» mi ha domandato Filomela, la voce delicata di chi si avvicina sulle punte.
«Ricordo che Felice mi ha chiesto di incontrarci ancora. “Vediamoci” mi ha detto, una frase che aveva il tono del comando, non della proposta. Così mi misi a ridere per l’imbarazzo, perché non ero abituata a un uomo che volesse passare del tempo con me. Gli ho detto sì, e me ne sono andata, quasi di corsa. Così, senza dirgli né dove, né quando. Semplicemente un sì, che m’è partito dalle labbra, che avevano iniziato a tremare.»
Infilato l’ago, ho terminato il punto e guardato Filomela.
Siamo rimaste in silenzio per un poco. La luce filtrava dalla finestra e si appoggiava sui disegni, le cicale suonavano la stessa nota, da ore. Io e Filomela immobili ad ascoltare il giorno.
Il matrimonio sarà tra un mese, a metà luglio. Filomela arriva all’alba, appena un cenno di saluto, quindi mi segue nella stanza. Si siede al mio fianco e infila la seta nell’ago.
«Cominciamo con il punto catenella» le ho detto, e le ho mostrato come inanellare il filo. È brava, impara presto. Ha dita rapide e precise.
«Mi piace ascoltarla» mi ha detto senza giri di parole. «Mi parli ancora.»
«Di cosa?» mi sono schermita.
«Di lei e di Felice» mi ha precisato.
Le interessa il mio mondo, ha aggiunto. Io ho sorriso perché l’ho trovata un’espressione con dentro i monti che spuntano dalla finestra, i noccioli della riva del fiume sotto casa, i pomodori dell’orto, i gerani rossi della cucina, l’odore di aglio e prezzemolo con cui friggo il sugo.
Mi piacciono le sue domande. Non le sento invadenti e non mi danno fastidio.
«Mi racconti l’amore» mi ha chiesto ancora, sollevando appena il mento, con quel modo di guardarmi che è fare attenzione all’altro.
«La sua storia d’amore» mi ha detto, con il viso di una madonnina di porcellana.
«Una storia come tante» ho cominciato.
Lui si chiamava Felice, ed era il primogenito della famiglia più ricca della vallata. L’avevo conosciuto alla festa di paese. Chiunque sapeva chi fosse, tranne io che ero vissuta con nonna Clelia e quella era la prima volta che andavo da sola a una festa, perché lei era malata. Aveva un abito bianco, sgualcito, ma di buona fattura. Si capiva dalla giacca, dal taglio dei pantaloni, dai gesti eleganti, che era ricco. A me avevano colpito il completo di lino, i capelli ricci arruffati e gli occhi curiosi.
Non avevo mai ballato con un uomo. Non avevo mai ballato con nessun altro che non fosse Clelia e, quando lui si avvicinò per invitarmi, mi sembrò di essere entrata in un film. Felice era impacciato più di me. Stare vicini ci metteva addosso la risata. Una ridarella per ogni cosa, come un passo che inciampa nell’altro, il gesto strampalato di un vecchio, la parola pronunciata storta. Finita la musica ha voluto accompagnarmi a casa, perché una ragazza sola non poteva girare la notte senza accompagnatore.
Le regole di allora appartenevano alla generazione di Clelia, perché di padri e madri ce n’erano pochi, vuoi per la guerra che li aveva divorati, vuoi per la corsa al benessere che li aveva trascinati nelle grandi città. Si dovevano tenere le distanze, stare riservati. Si dovevano evitare le c...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. L’ULTIMA RICAMATRICE
  4. Ringraziamenti
  5. Copyright