
- 160 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Il Giorno della Memoria raccontato ai miei nipoti
Informazioni su questo libro
In un dialogo fatto di domande, curiosità e riflessioni, Lia Levi racconta il significato del Giorno della Memoria. Attraverso le date della Storia, a partire dal 27 gennaio 1945, ripercorre la sua infanzia segnata dalle Leggi razziali e dall'occupazione nazista. Ma lo fa in modo speciale, rivolgendosi ai suoi nipoti e a tutti i giovani lettori che negli anni ha incontrato nelle scuole d'Italia e che le hanno posto migliaia di domande. Un libro pieno di saggezza e di amore, che tutti i ragazzi dovrebbero leggere.
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Informazioni
PARTE SECONDA
LA MIA STORIA AL TEMPO DELLE LEGGI CONTRO GLI EBREI
UNA BAMBINA CACCIATA DA SCUOLA
La prima elementare l’avevo frequentata in una scuola pubblica di Torino. Ero molto timida allora, e parlavo con una vocina bassa bassa che nessuno riusciva a sentire. Avevo fatto amicizia solo con la mia vicina di banco, che si chiamava Marina. Se dovevo rispondere a una domanda della maestra, le parole gliele dicevo nell’orecchio e lei le ripeteva a voce più alta.
Un pomeriggio d’estate, mentre ormai con la mia famiglia ce ne stavamo tranquillamente al mare, mamma, con la faccia molto seria, mi ha spiegato che in autunno non sarei più potuta andare a scuola. Il capo del governo, di nome Benito Mussolini (ma si faceva chiamare “Duce”), non voleva più che i bambini ebrei frequentassero le scuole pubbliche.
In principio ho pensato che mia madre si sbagliasse. Essere ebrei voleva dire seguire una religione, e certe feste che si celebravano a casa con la scuola non c’entravano niente. In classe, anche se eri ebreo eri uguale agli altri, e con Marina, per sentirci più amiche, ci mettevamo spesso d’accordo per arrivare alla mattina in aula con il nastro che legava i capelli dello stesso colore.
La prima cosa che ho chiesto a mia mamma è stata proprio se anche Marina doveva andarsene via dalla nostra scuola, ma lei mi ha risposto: «No». Marina era cristiana, anzi ariana, era questa la parola che adesso bisognava usare per i non ebrei.
Di non vedere più Marina mi sarebbe dispiaciuto troppo, della scuola no, nessun dispiacere. Non la amavo per niente quella scuola. Esserne stata cacciata non era per me un problema, anzi era quasi una gioia.
A Torino la Comunità degli ebrei aveva poi avuto il permesso di aprire una scuola tutta per sé. La seconda elementare l’ho frequentata lì. In terza c’era una mia cugina che si era messa in testa di proteggermi e, siccome era molto ascoltata, tutti mi trattavano benissimo.
Ecco, questo della scuola è stato suppergiù il “primo atto” delle Leggi Razziali che erano state approvate dal governo fascista in Italia.
Vi ho appena detto che per me questo allontanamento dalla scuola pubblica non è stato una cosa grave, ma attenzione: è stato un mio caso personale. Ero piccola e non capivo cosa stesse succedendo.
Quando l’ho raccontato a mio nipote Giuliano ho cercato di spiegarglielo. «Vedi,» gli ho detto «il fatto che io non abbia sofferto non vuol dire niente. Per altri, con qualche anno in più, quello strappo che li allontanava dai compagni e da certi amati insegnanti è stata una sofferenza e un’umiliazione che non hanno mai più dimenticato per tutta la vita». È successo anche all’altro nonno di Giuliano, che allora frequentava la prima media. «Mi sono sentito cacciar via non solo dalla scuola, ma da tutta la società» ci raccontava molto spesso con angoscia.
E c’è un’altra cosa da aggiungere. Nelle grandi città, dove gli ebrei erano più numerosi, è stato possibile aprire delle scuole ebraiche, ma nelle comunità più piccole no. In tantissimi altri luoghi del nostro paese il diritto allo studio, uno dei punti fondamentali su cui si basa la civiltà, è stato calpestato e annullato.
Già che ci siamo, ricordo che, appunto, questo diritto allo studio fa parte dal 1948 della Dichiarazione universale dei diritti umani dell’ONU e, naturalmente, della Costituzione italiana. Per fortuna adesso viviamo in una democrazia; allora, purtroppo, da molte parti trionfavano le dittature.
L’unica cosa che voglio ancora raccontarvi di me e della mia vecchia scuola riguarda Marina.
Un giorno ho chiesto a mia mamma se potevo almeno telefonarle per salutarla. E mamma mi ha detto l’ennesimo «no». «Ma perché? Non è stata lei a mandarmi via dalla scuola!» ho mormorato. Mia madre, con la faccia triste, mi ha spiegato che non sapeva se i genitori di Marina volessero ancora che la loro figlia fosse amica mia. Ma come? Una volta mi avevano anche invitato a casa loro per la festa di compleanno di Marina!
«C’era una volta…» Mamma ha cercato di scherzare fingendo di raccontarmi una favola. Ma dopo «C’era una volta» non ha aggiunto più niente.
PAPÀ PERDE IL POSTO DI LAVORO E LA CASA VOLA VIA
Il secondo atto di queste ingiustissime Leggi è stato mandar via da tutti i posti di lavoro i cittadini ebrei, compreso, naturalmente, mio padre.
Papà lavorava in un ufficio chiamato “Assicurazioni” e ci diceva sempre che il suo impiego gli piaceva molto. In principio mamma non aveva voluto dirlo a noi bambine che nostro padre era stato cacciato dal suo ufficio come era successo a me con la scuola, ma, vedendolo sempre a casa, alla fine lo abbiamo capito da sole.
Perdere il lavoro è una cosa molto triste, lo sappiamo tutti, ma nel nostro caso era diverso. È proprio questo che ho spiegato a un ragazzino di prima media che, sentendo la mia storia, mi aveva timidamente confidato che anche suo padre era appena rimasto senza lavoro.
Anche qui, ricordiamolo ancora una volta, la sofferenza è uguale per tutti, nessuno si può permettere di fare una classifica. Ma una differenza “storica” c’è.
Il papà di quel simpatico ragazzino stava affannosamente cercando un altro impiego, e tutti speriamo che nel frattempo lo abbia trovato (spero proprio che sia così). Ma nelle Leggi contro gli ebrei non si trattava solo di licenziamento. Un secondo articolo stabiliva infatti: “È assolutamente vietato assumere un ebreo”.
Avete capito? Gli ebrei un altro lavoro non potevano neanche cercarlo. Perdere il posto valeva per sempre.
***
È stato per questo motivo che, quando avevo ancora sei anni, la mia famiglia ha deciso di andarsene in un altro paese, e precisamente in Francia, dove già abitava una mia zia.
Ma la Storia ti obbliga a fare certe capriole!
I miei genitori avevano deciso di fare il trasloco in estate. Noi bambine ce ne stavamo tranquillamente al mare con la nonna, mentre i genitori erano a Torino a sorvegliare la partenza per la Francia dei nostri mobili con quello che c’era dentro. Erano volate via tutte le nostre cose, compresi i libri, i vestiti, le scarpe da pioggia e i giocattoli. Noi al mare avevamo solo i vestiti estivi e qualche giocattolo preferito.
Io e le mie sorelle ce ne eravamo accorte che ormai era arrivato settembre. Gli altri bambini se ne erano andati e solo noi restavamo al mare con la nonna. Quando ci hanno spiegato il perché, abbiamo spalancato la bocca dalla meraviglia.
Era scoppiata la guerra, e la Francia aveva chiuso i propri confini. Niente trasferimento. I nostri mobili e tutto il resto erano rimasti di là (cioè in Francia, in un magazzino), e noi di qua, solo con i nostri costumi da bagno e qualche bambola ormai malridotta.
***
Riflettiamo insieme. Questa “avventura” ha a che fare con le Leggi Razziali che vi sto raccontando?
Io direi di sì, e vi confido una cosa: malgrado mi siano poi successe cose molto più gravi, quello degli oggetti perduti è uno degli avvenimenti che più ha colpito i ragazzi a cui l’ho raccontato, specie i piccoli. Mia nipote Penelope non faceva che chiedermi: «Ma una bambola ce l’avevi? E un altro paio di pantofole? E la tazza per il caffellatte?».
La cosa più strana è successa con una ragazzina che piccola non era (l’ho incontrata in una scuola media). Dopo la lettura del mio Una bambina e basta, la professoressa di quella scuola aveva assegnato come tema in classe: Fra i tanti fatti raccontati in questo libro, quale vi avrebbe fatto soffrire di più? Di cose drammatiche me ne sono capitate tante. Ma la ragazzina di cui vi sto parlando ha scritto: Non avere più un cassetto in cui trovare subito la mia T-shirt preferita.
Vedete come siamo tutti diversi? E non ci sono regole fisse per giudicare le differenti sensibilità degli esseri umani.
***
Tornando agli avvenimenti di allora, per tranquillizzarvi vi racconto che, rientrati a Torino, abbiamo abitato qualche settimana in un albergo, e poi i miei genitori hanno preso in affitto la casa di una famiglia che si stava trasferendo in Africa. E, prima di andarsene, i proprietari ci hanno venduto tutti i loro mobili.
In quel periodo, ogni sera andavamo a cena da diversi parenti. E ognuno ci regalava qualcosa: uno schiaccianoci (ce l’ho ancora), delle tazze da caffellatte e altri oggetti utili.
CAMBIARE DUE CITTÀ
A Torino, come già vi ho detto, ho frequentato la scuola ebraica mista e paritaria “Colonna e Finzi”. Ma c’è una cosa che è meglio spiegare ancora.
Quelle scuole non erano un’impresa privata, per fortuna erano riconosciute e autorizzate dal governo, perciò seguivano le regole del ministero. E i libri di testo, i sussidiari (gli stessi del resto del paese) contenevano in ogni pagina parole di elogio ed esaltazione del Duce, proprio quel Benito Mussolini che aveva emanato le Leggi contro di noi!
Anche per le pagelle valeva la stessa cosa: accanto al nome dell’alunno, nel nostro caso era obbligatorio aggiungere Razza ebraica (se non ve ne siete già accorti, guardate la mia pagella riprodotta sulla copertina di questo libro).
Mi sono soffermata su questo particolare perché molti si sono stupiti. Fra gli altri è successo proprio con mio nipote Giuliano che, quando lo ha scoperto, mi ha guardato con aria interrogativa. «Ma come? C’è scritto Razza ebraica?» mi ha detto. «Questa parola ve la dicevate da soli?»
No, nipote mio, quella non era una scelta. Era lo Stato che obbligava le vittime a far uso del linguaggio dei persecutori. Figurati che il governo fascista aveva creato un ufficio apposta, la “Direzione generale per la demografia e la razza” (la chiamavano Demorazza), dove aveva raccolto tutti i nomi e gli indirizzi degli ebrei italiani.
***
Le classi che avevo frequentato alla “Colonna e Finzi” di Torino erano state la seconda e la terza elementare.
Mio padre continuava a essere senza lavoro, e l’avevo capito anche io: i soldi messi da parte in banca stavano per finire. E come si fa a sopravvivere se non puoi mettercene degli altri?
Un giorno mamma ha chiamato noi tre figlie e ci ha detto con la faccia contenta che nostro padre aveva finalmente trovato un impiego nascosto (dalla polizia, s’intende), ma in un’altra città. Era per questo che tutta la famiglia doveva spostarsi. A Milano saremmo arrivati alla fine dell’estate, in tempo per iscriverci alla scuola ebraica di quella città. Ho capito così che la quarta l’avrei frequentata in una classe diversa con nuovi compagni.
Ho usato apposta il condizionale “avrei” perché non è andata così. Della quarta a Milano ho seguito solo un pezzo. Deve essere successo qualcosa che non mi hanno mai spiegato. Il posto di lavoro per mio papà a Milano non c’era più.
C’era già pronta una soluzione, ma dovevamo cambiare di nuovo città. Questa volta, l’offerta di un lavoro nascosto per mio padre arrivava da Roma.
Io ci sono rimasta molto, molto male. A Torino avevamo lasciato tanti cuginetti, a Milano qualcuno ne avevamo trovato, ma Roma era lontanissima, e sapevo che là non conoscevamo assolutamente nessuno. «Ho capito» ho detto con voce triste. «Farò la quinta alla scuola ebraica di Roma.»
No che non avevo capito. Dovevamo partire subito. A Roma avrei frequentato l’altra metà della quarta!
Metà anno qui e l’altra metà chissà dove non mi era mai successo. Questo era davvero troppo, anche per una figlia obbediente come me. Quella volta ho pianto.
***
Vi prego, ragazzi, di scusarmi. Nella storia che tra poco percorreremo insieme sono accadute vere tragedie (anche se noi personalmente le abbiamo solo sfiorate). Lamentarsi per cose minori come il cambio di città può suonare una mancanza di rispetto.
Ma riflettiamo. La vita è fatta di tanti momenti, e anche la sofferenza si adegua a quei momenti. Mentre li vivi non sai che, purtroppo, potranno arrivare tempi peggiori. Insomma, un piccolo dolore non lo sa di essere “piccolo”.
E così io e le mie sorelle ce ne siamo andate a Roma sentendoci sbatacchiate come pacchi postali buttati nell’angolo di un capannone.
A Roma di parenti abbiamo poi trovato una cugina grande di nome Giacinta.
...Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Prefazione dell’Autrice
- PARTE PRIMA. IL GIORNO DELLA MEMORIA, MA PERCHÉ?
- PARTE SECONDA. LA MIA STORIA AL TEMPO DELLE LEGGI CONTRO GLI EBREI
- PARTE TERZA. MOLTI ANNI DOPO, GLI INCONTRI NELLE SCUOLE
- Referenze bibliografiche
- Copyright