«Ehi ragazzo, vuoi sapere quanto tempo ti stanno a sentire da casa mentre parli in tv? Ricordatelo bene: 10 secondi se parli, 20 secondi se piangi, 30 secondi se sanguini. Non un istante di più.»
È passata una ventina d’anni da quando un vecchio e supercinico regista televisivo americano mi impartì questa severa e brutale lezione. Lì per lì, con l’orgoglio del giovane innamorato del dibattito e del mito dell’agorà, feci finta di rimanere imperturbabile: ma la verità è che, se quel vecchio lupo di mare televisivo voleva scioccarmi e farmi riflettere assestandomi un pugno nello stomaco, ci era riuscito perfettamente. Tuttora non so dire se la sua fosse una citazione, una frase rubata a qualcun altro ancora più cinico di lui, o se fosse una sua invenzione, qualcosa di accuratamente preparato, o magari un’escogitazione del momento. Sta di fatto che anche adesso, ogni volta che metto piede in uno studio televisivo, mi tornano in mente il suo viso e quelle parole sferzanti, come un monito feroce.
Lo confesso: quando qualche pallosissimo professore, qualche borioso “esperto”, qualche prolisso politicante straparla in tv, si dilunga, si ascolta, pronuncia il suo tragico «mi lasci concludere» (e ovviamente non conclude mai!), non rendendosi minimamente conto della spaventosa noia che suscita, sogno che entri in scena – interrompendo la trasmissione – quel vecchio regista, e glielo dica in faccia: «10 secondi se parli, 20 se piangi, 30 se sanguini!».
Eppure, anche senza l’ansia devastante di chi vive ogni giorno stretto nella tenaglia tra una soglia di attenzione del pubblico sempre più ridotta e le spietate leggi dell’audience, basterebbe un minimo di buon senso, perfino legato alla vita familiare, a toglierti ogni illusione. Se mentre parli a casa tua, a cena, nemmeno tua moglie o tuo marito ti stanno davvero a sentire; se tuo figlio o tua figlia, mentre ti rivolgi a loro, stanno con la testa a due centimetri dallo smartphone, per quale misteriosa ragione dovrebbero ascoltarti per minuti e minuti persone a te estranee, nelle cui case ti sei infilato attraverso uno schermo senza neanche chiedere il permesso? Perché mai dovrebbero autoinfliggersi in religioso silenzio la tua predica, il tuo comizietto, le tue perle di presunta saggezza?
Sta qui, in questa presa d’atto, se vogliamo nell’elaborazione di questo lutto, il primo passo per capire come si comunica. Etologi tanto freddi quanto quel regista televisivo hanno affermato che la memoria di un pesce rosso dura circa 9 secondi, giusto il tempo di fare avanti e indietro in un acquario. Ecco, senza offesa (né per il pesce rosso né per noi), stiamo tutti diventando un po’ così. Ce ne rendiamo perfettamente conto quando siamo noi ad ascoltare (e ad annoiarci): ma, per un misto di orgoglio e autodifesa, ce ne dimentichiamo quando siamo noi a parlare, e ci illudiamo di essere così affascinanti da inchiodare gli ascoltatori. Ma non inchiodiamo proprio nessuno. E se già ai tempi in cui quel regista mi “svezzò” esisteva un’arma potentissima e implacabile, il telecomando, adesso tutti noi come esseri umani (come OGM in perenne trasformazione) siamo ancora più portati all’istantaneità, alla velocità, al cambio ultrarapido di stimoli-parole-immagini. Un colpo di mouse, o meglio ancora il movimento impercettibile di un polpastrello su un touchscreen: e – zac – facciamo sparire, “uccidiamo”, cancelliamo ciò che ci ha già annoiato, o che crediamo di aver già letto. I soliti temibilissimi neuropsichiatri sostengono che il tempo medio di visione di un qualunque contenuto online è di 17 secondi (e confesso che mi pare un tempo perfino elevato, quando frequento persone molto giovani!): giusto lo stretto necessario per leggere un titolo, un sottotitolo, per mettere un cuoricino o un like, o per lasciare a verbale un vaffanculo. Fine.
Ecco, chiunque entri in uno studio televisivo, quando si accende la luce rossa che indica la telecamera, dovrebbe ricordarsi che dall’altra parte ci sono persone che si comportano esattamente così: un tribunale spietato che giudica in pochissimi inesorabili secondi. Giusto? Sbagliato? Non so dirlo, ma questa è la realtà: e chiunque lo neghi vive letteralmente in un altro mondo. Per questo, quando ti danno la parola in tv, sei chiamato a un compito titanico: in un ideale conto alla rovescia, hai pochissimi secondi (i 10 del regista americano, o qualcosa del genere…) per “prendere alla gola” i telespettatori, per conquistarti miracolosamente qualche altro istante di attenzione, per suscitare la loro curiosità e magari una punta di interesse e simpatia. Non di più.
E, reduci come siamo dalla lunga e durissima stagione del Coronavirus, suggerisco di non sottovalutare i “30 secondi se sanguini”. Il messaggio del vecchio regista non conosce eccezioni: anche una tragedia, anche una situazione al limite, anche un contesto ad alta intensità drammatica devono – televisivamente parlando – fare i conti con soglie di attenzione brucianti. Certo, dilatate rispetto ai 10 secondi “ordinari”, ma pur sempre ultrarapide, ad autocombustione superveloce. Il che – si badi bene – non significa che l’emozione provata dal telespettatore sia superficiale, a bassa intensità, insincera. Al contrario: è spesso profonda, intensissima, assolutamente autentica. Ma istantanea, cangiante, passeggera, destinata a lasciare spazio a un’altra emozione innescata dallo stimolo successivo. E immaginate la condizione – ci verremo capitolo per capitolo – di chi si trova a cucinare e servire in tavola spettacoli televisivi, di informazione e di intrattenimento (di infotainment, come si dice), che durano ore: dovendo indurre emozioni e inoculare vibrazioni per 120 o 180 minuti, più o meno spezzettati in un numero infinito di “blocchi”, di segmenti di trasmissione. Un inferno.
Siamo sempre lì: «10 secondi se parli, 20 secondi se piangi, 30 secondi se sanguini. Non un istante di più». So bene di scandalizzare qualche austero intellettuale, che vedrà in queste righe un’ennesima certificazione del degrado del nostro tempo. Non escludo che abbia delle ragioni, sia chiaro. Ma se qualcuno pensa di imporre al telespettatore l’equivalente di un saggio critico di 400 pagine, praticamente un mattone, all’ora di cena, dopo una sfibrante giornata di lavoro, allora è tecnicamente pazzo. Sarà pure un austero intellettuale: ma servirebbero due robusti infermieri per occuparsi di lui e portarlo via.
Dovreste vederli (confesso la malignità) questi professoroni al trucco, prima di un programma. La sola presenza di una truccatrice che si occupi delle loro guanciotte ha l’effetto del Viagra per loro… Maniaci sessuali pronti ad aggredire la truccatrice? Ma no, che avete capito! Semmai, maniaci egotici ed egoriferiti pronti ad aggredire voi, convinti di potervi infliggere una lezione, di potervi spiegare cosa dovete pensare. Poveri illusi (loro): se solo potessero sospettare la rapidità con cui saranno mangiati-digeriti-espulsi dall’immaginario tubo digerente del telespettatore, tornerebbero a casa gonfi di lacrime e d’angoscia.
Sorrisi a parte, il vero bivio a cui si trova di fronte chi è invitato – a qualunque titolo – in un programma televisivo è: voglio esprimermi o voglio comunicare? Occhio, apparentemente sembra la stessa cosa, ma sono due attività diversissime. Nel primo caso, e siamo in una dimensione simile all’arte, “parli di te”, e lo fai esattamente nella forma più soddisfacente e gratificante per te stesso. Nel secondo caso, invece, “parli agli altri”, e dovresti farlo nella forma meglio comprensibile per chi ti sta ad ascoltare, dimenticando gli standard a te più congeniali.
Guardate che qui non occorre uno psicologo o un neuropsichiatra: basta un minimo di ragionevolezza. Quella domanda (voglio esprimermi o voglio comunicare?) è esattamente simmetrica e corrispondente all’altra domanda che – più o meno consapevolmente – si pone un telespettatore non appena vede comparire sullo schermo il faccione di un politico, di un giornalista, di un “esperto”: sta parlando di sé o sta parlando di me? Si sta esibendo o sta dicendo qualcosa che può riguardarmi? Si sta facendo gli affari suoi o vuole aiutarmi? Attenzione: non è detto che poi il telespettatore dia la risposta corretta (e qual è la risposta corretta? Chi mai potrà saperlo…), ma di sicuro la domanda è quella.
Ecco perché il comunicatore dovrebbe attenersi ad alcune regole precise ed elementari, mettendo da parte tutta la sua scorta di boria e presunzione intellettuale. Primo: usare parole comprensibili dal 100% di coloro che lo stanno ascoltando. Perché fare i fighi e avventurarsi sul sentiero di un linguaggio incomprensibile? Immagino l’obiezione: caro Capezzone, stai dicendo che in tv occorre usare un lessico povero e sciatto? No, assolutamente no: sto dicendo che occorre usare un linguaggio comprensibile, e a volte occorrono molta cultura e molta finezza per selezionare le parole giuste, per “arrivare” a chi ti sta sentendo. Molto meglio, naturalmente, se poi sei anche capace di far intuire che c’è dell’altro da studiare e da capire, che occorre approfondire, che non ci si può limitare solo a ciò che hai – appunto – “comunicato” nella tua prima risposta. Ma il tuo compito fondamentale è dare una risposta semplice e intellegibile.
In altre parole, devi offrirti (lo diceva il grande e compianto Luciano De Crescenzo, non a caso osteggiato dagli intellettualoni italiani e trattato da “divulgatore”, quasi fosse un’offesa) come uno “sgabello” per il telespettatore: l’equivalente di quelle scalette da libreria, a due gradini, che aiutano a cercare il volume che sta ai piani più alti. Ma tu, mentre parli in tv, devi ricordarti di essere solo uno sgabello, non un volume dell’ultimo scaffale.
Altra obiezione: caro Capezzone, ma allora ci stai dicendo che un politico e un opinionista devono sacrificare la complessità del loro pensiero? Un momento: intanto, è tutto da vedere che molti dei politici e degli opinionisti in circolazione abbiano un pensiero, ce l’abbiano pure complesso, e debbano sacrificare alcunché. Ma, battute a parte, sta proprio qui la diabolica difficoltà del compito a cui sono chiamati: non amputare le loro idee e le loro convinzioni, ma proporle in modo accessibile, accompagnare anche la persona più semplice tra quelle in ascolto, dando idealmente la mano a ciascuna, e provando a camminare insieme per un tratto di strada. Per 10 secondi, e magari, una volta stabilito un invisibile legame di fiducia, per altri 10, e poi per altri 10…
So bene che da alcuni anni in Italia c’è tutto un fiorire di intellettuali che, non sapendo più come spiegarsi l’avanzata dei politici populisti e sovranisti, non trovano di meglio che insultare il pubblico, prendersela con i telespettatori che diventano elettori. La loro tesi, che in realtà certifica solo l’inguaribile supponenza di questi sapientoni, è: molti italiani sono analfabeti (di andata o di ritorno) e tendono a premiare quei politici che, senza scrupoli, puntano sulla loro debolezza di conoscenze. Tornerò più avanti su questo punto, e vi anticipo che ho elaborato un “protocollo” (l’ormai famigerato “protocollo Capezzone”, cliccatissimo sui social network: ve lo presenterò nel capitolo 2) per riconoscere i tic e i processi mentali di questi superprofessori. Ai quali però sfugge un punto di fondo, che ha a che fare con l’essenza della democrazia: premesso che ogni politico è, a suo modo, un manipolatore, cosa c’è di male nel parlare dei problemi della gente con un linguaggio comprensibile alla gente? Per essere ancora più chiaro: perché colpevolizzare i politici di una certa fazione se loro sono capaci di comunicare, anziché prendersela con i politici dell’altra fazione, se non sanno farlo o hanno disimparato a farlo? Sta qui il punto.
La seconda regoletta per chi parla in tv ha a che fare con una parola che i soliti intellettualoni amano pronunciare, ma non sanno più tradurre in pratica: l’“empatia”, la capacità di mettersi nei panni dell’altro, di capirlo anziché giudicarlo e dargli le pagelle. Già nell’introduzione, raccontavo che il pubblico di un talk show è estremamente diversificato, anche per età: c’è lo spettatore anziano, così come c’è invece quello giovanissimo che, mentre guarda la tv, è contemporaneamente scatenato a commentarla sui social network, ingaggiando battaglie con altri utenti di opinione politica opposta. Spettatori diversissimi, dunque, eppure uniti da una cosa: prima ancora di giudicare i concetti e l’articolazione dei ragionamenti dei diversi ospiti, la primissima sensazione che provano è quella emotiva, quella che viene dall’intelligenza del cuore.
È un grande classico per molti “esperti” che credono di padroneggiare i meccanismi della comunicazione, ma dimenticano un solo “dettaglio”: il fattore umano. E in particolare l’attitudine del telespettatore, davanti al mare di stimoli e informazioni che riceve, a proteggersi attraverso uno scudo essenziale: mi fido o non mi fido di quel tipo che sta parlando?
Prendiamo un caso da manuale, quello di un politico che, secondo l’opinione di molti addetti ai lavori (chi scrive – assai umilmente – ne dubita assai, invece), sa comunicare molto bene: Matteo Renzi. Ecco, effettivamente Renzi ha una gran parlantina, è abilissimo nel rispondere, è furbo come una volpe. Ma la sensazione è che di Renzi molti telespettatori non si fidino più, qualunque cosa proponga. Mi capita di pensare che, se anche andasse in tv a recitare l’Ave Maria, la stragrande maggioranza di quelli che sono in ascolto resterebbe diffidente. Di più: neanche il tempo di arrivare a «piena di grazia», e già molti telespettatori penserebbero a una fregatura in agguato.
Nulla di personale contro Renzi, che qui è solo citato come un esempio di comunicatore. Però nell’era dell’emozione mediatica, dell’emotività come fattore decisivo della comunicazione, puoi forse far dimenticare una notizia, un evento specifico, ma non il sentimento che susciti. Hai tatuato addosso l’«Enrico stai sereno» (mentre preparavi lo sgambetto), il «lascerò la politica se perderò il referendum» (mentre sei ancora lì). Eppure molti comunicatori, persi nella loro coazione a ripetere, faticano a fare i conti con questa evidenza. Non comprendono che, in alcuni momenti (e magari per un periodo non breve), sarebbe utile prendersi una pausa, esercitare l’arte della sparizione, per magari riproporsi – dopo qualche tempo – in una veste diversa, e nuovamente credibile. Invece, confidare nell’“auto-ostensione”, nella continua riproposizione della solita maschera, nell’eterno ritorno del sempre uguale, potrà solo peggiorare la situazione. E confermare l’immediata sentenza di antipatia da parte del telespettatore, un pollice verso istantaneo e inappellabile.
Siamo davanti a qualcosa di profondo, che non cambierà. Chi ha la fortuna di vivere in questo tempo assisterà, nel corso della sua vita, a mutamenti spettacolari, che in altra epoca avrebbero richiesto il passaggio di intere generazioni: soprattutto grazie all’intelligenza artificiale, che allargherà inevitabilmente lo spazio delle cose governate da robot, computer, algoritmi. Solo una sfera resterà intatta: quella – umanissima e dunque inaccessibile alle macchine – dell’emotività, dell’emozione collegata alla memoria, dei sentimenti provati e suscitati da ognuno di noi, dal mistero del páthos / anti-páthos / syn-páthos.
Ricapitolando. Prima regola: farsi capire. Seconda regola: ricordarsi del fattore emotivo. La terza e ultima regoletta – ma solo per questo primo capitolo – complica e scombina le cose anche per il comunicatore più accorto, anche per chi, con grande sforzo, sia riuscito a stare attentissimo ai primi due precetti. Per spiegarmi, devo fare ricorso a un’analisi eccezionalmente lucida di Allister Heath, il brillantissimo direttore del londinese «Sunday Telegraph», a mio avviso il più interessante commentatore politico ed economico che scriva da questa parte dell’Oceano Atlantico. Heath ha parlato di una pick and mix political age, cioè di un’era politica, quella in cui viviamo, in cui gli elettori scelgono e mescolano gli ingredienti in modo confuso e compulsivo.
Heath, che è un intellettuale sofisticato, parte da lontano, cioè da com’erano e come vivevano i nostri papà e i nostri nonni, abituati in tutto a scelte ultrasemplici e binarie: alla sera, la scelta tra uno o al massimo due canali televisivi; quando si poteva, l’acquisto di uno fra pochissimi modelli di automobili, e così via. Oggi, nell’era di Amazon e Netflix, siamo portati – anche come consumatori e utenti – all’opposto di una scelta semplificata: davanti a migliaia di opzioni teoricamente possibili, vogliamo una cosa ritagliata sulla nostra precisa esigenza, vogliamo una specifica sfumatura (e non siamo disposti a ripiegare su un’alternativa!), vogliamo un prodotto in tutto e per tutto adatto e adattato al nostro desiderio di quel momento. E lo vogliamo subito: consegnato in mezza giornata! Ecco, spiega mirabilmente Heath: era impensabile che questa stessa rivoluzione psicologica non arrivasse alla politica e alla comunicazione. Anche in questi ambiti, i gusti del “consumatore” sono vari e variabili, difficilissimi da soddisfare, lontanissimi dalle scelte semplici di un tempo (nel Regno Unito: laburisti contro conservatori; in America: repubblicani contro democratici). Sì certo, i “contenitori” sono rimasti spesso gli stessi: ma dentro, puoi trovare ingredienti di tutti i tipi, mescolati in modo pazzotico, come in un frullatore.
Parlando di politica, per esempio, non è detto che il candidato di sinistra sia quello più vicino ai ceti medio-bassi, come saresti stato naturalmente portato a credere un tempo; non è detto che chi si dice liberale lo sia davvero; puoi trovare un candidato che due minuti prima elogia il mercato e due minuti dopo invoca l’intervento dello stato; e così via, in un caos in cui è difficile districarsi, e in cui le bussole tradizionali non sono necessariamente affidabili.
Ecco, proviamo a proiettare questa confusione dentro lo studio di un talk show, o magari nei brevissimi 20-25 minuti di un “blocco”, come viene chiamato ogni segmento di una trasmissione. Sarebbe folle chi pensasse di trovare, nello scambio di opinioni in studio, assoluta coerenza ideale (e perfino ideologica); chi pretendesse assoluta razionalità e consequenzialità dei ragionamenti. Perfino il meccanismo degli applausi del pubblico (quando è prevista la presenza fisica degli spettatori, spariti per ovvie ragioni nella lunga stagione del Coronavirus) può sottolineare e punteggiare interventi di segno opposto, tesi lontanissime una dall’altra.
Immagino – anche qui – l’obiezione: caro Capezzone, ma dove ci vuoi portare? Stai facendo uno strampalato elogio dell’irrazionalità, della casualità? Proprio tu, che invece, quando sei invitato in tv, cerchi di procedere per punti (“uno, due, tre”) proprio per dare una parvenza di geometria ai tuoi pensierini? No, infatti non sto elogiando proprio niente: sto semplicemente descrivendo il frullatore impazzito in cui siamo immersi. E che ci impone – se non vogliamo essere degli alieni incapaci di comunicare – di far prevalere la flessibilità sulla rigidità, l’adattamento continuo e progressivo delle ricette sulla fissità schematica delle soluzioni. Il buon comunicatore, come un bravo navigante, deve sapere dov’è la meta, dov’è il porto, dove vuole arrivare: ma deve anche essere capace di adattare la rotta e il percorso per arrivarci. A maggior ragione, devi tenerlo presente in tv: non sei a un seminario di filosofia teoretica, ma in un circo, fra trapezisti, lanciatori di coltelli e leoni (a volte un po’ sdentati). Per arrivare al cuore (e piano piano anche alla mente) del pubblico, non devi avere paura di qualche fuori programma e di qualche deviazione da una perfetta consecutio logica.