Traendo le redini, Lugorio forzò il suo pomellato a rallentare il passo, costringendo i tre uomini a cui fungeva da guida a fare altrettanto. «Ecco!» annunciò additando al gruppo una striscia di boscaglia che spezzava la monotona distesa dell’erba piegata dal vento. «La torbiera comincia laggiù, oltre quegli alberi.»
Valerio Metronio Stabiano gettò un’occhiata preoccupata alla cupa nuvolaglia che si andava rapidamente addensando sulle loro teste, quindi sollecitò in tono brusco il liberto e diede di sprone: «E allora affrettiamoci. Abbiamo poco più di un’ora di luce e oltretutto sta per piovere».
Quella giornata si era rivelata per lui sgradevole fin dal mattino, che lo aveva visto oppresso dalle noie derivanti dalla proprietà: dapprima l’appianamento di una lite fra due fittavoli della quale Lucio Emilio, il suo anziano intendente, non aveva saputo venire a capo; poi, gli era toccato accertare quanto a rilento stesse procedendo il lavoro degli schiavi che aveva incaricato di riparare il tetto di uno dei magazzini integrati nel complesso di Villa Metronia, sfondato pochi giorni prima da un nubifragio. Incombenze, entrambe, per il cui disbrigo aveva poca inclinazione ma dalle quali non poteva esimersi. Ma a rovinargli definitivamente la giornata era stato proprio Lugorio, che dopo aver galoppato a rotta di collo fino alla villa, aveva portato l’annuncio del ritrovamento dei corpi di tre uomini nella torbiera di cui era il soprastante.
In generale, il rinvenimento di corpi umani mummificati nelle torbiere non poteva sorprendere. Era anzi frequente, poiché era in quei luoghi che gli antichi Celti avevano per secoli effettuato i loro sacrifici umani o eseguito le sentenze di morte. A sentire il liberto, tuttavia, i tre cadaveri erano sicuramente recenti, e questo sollevava preoccupanti interrogativi. Era risultato inevitabile, a quel punto, farsi portare un cavallo e recarsi sul posto, che distava quasi due miglia dalla Domus. Considerata l’evidenza delittuosa di quel rinvenimento, Valerio si era fatto accompagnare da Decio Muzio, l’anziano soprastante, e da Gaio Rutilio Calidiano, il veterano responsabile della sua guardia personale.
Precipitandosi ad avvertirlo, il liberto aveva indubbiamente fatto il suo dovere, ma in quel momento, sferzato dal vento freddo, foriero di un imminente rovescio di fine stagione, Valerio non si sentiva troppo incline a riconoscerglielo. Fra l’altro, benché la torbiera appartenesse alla sua famiglia da almeno cinquant’anni, si era recato in quella zona soltanto da ragazzo, in un paio di remotissime occasioni, e ne riportava un ricordo vago ma deprimente, sicché l’idea di impelagarsi in quei paduli non gli andava per nulla.
Incolonnandosi sul sentiero che si restringeva, superarono la fascia di boscaglia e si trovarono in faccia a un succedersi di specchi d’acqua di varia estensione e profondità, intervallati da canneti e strisce di prateria e superabili in qualche punto attraverso marcescenti ponticelli di legno. Sugli isolotti più estesi, dove nidificavano gli aironi, si innalzavano boschetti di salici e ontani, le cui fronde stormivano al soffio della tramontana. Sotto nuvole plumbee in minaccioso movimento, stormi di uccelli volavano bassi in traiettorie rapide e quasi furtive, presaghi del sopraggiungere del temporale.
Lugorio, che aveva fatto strada, arrestò il cavallo in un ampio spiazzo erboso e avvertì Valerio: «Conviene smontare e lasciare qui i cavalli, domine, i sentieri sono angusti e i ponti non reggerebbero il loro peso».
Lasciati gli animali a pasturare nello spiazzo, Valerio e i suoi due sottoposti, che avevano le spade al fianco, lo seguirono su un tratturo fangoso. «Non è molto lontano,» assicurò il liberto, che percepiva l’impazienza del padrone «ma bisogna sapersi orientare, perché qui sembra tutto uguale ed è facile perdersi.»
In realtà dovettero attraversare più di una macchia di salici e scavalcare più di un ponte traballante prima che il liberto, raggiunto l’ennesimo isolotto, annunciasse che avevano raggiunto la meta.
Due robusti uomini di fatica, con camiciotti di tela lordi di torba e col collare di ferro degli schiavi, erano in attesa in mezzo all’erba alta, fremente nel vento. Il più anziano dei due si fece loro incontro di qualche passo e lo salutò piegando per un momento il capo e ponendosi una mano sul petto.
«Olà, Bantone! Ne avete trovati altri?» lo interrogò Lugorio.
L’uomo scosse il capo in segno di diniego, ma rispose, con un accento alamanno, tenendo lo sguardo sul padrone: «No. Abbiamo cercato ancora, ma non abbiamo trovato nulla».
Valerio accennò con la mano: «Vediamo questi corpi, dunque!» e in pochi passi furono tutti sul posto.
Imbrattati di fango, i tre cadaveri giacevano sull’erba calpestata, a breve distanza dall’acqua e nelle posizioni contorte che avevano quando erano stati rinvenuti. Poco lontano, fra i canneti, si indovinava la prua di una piccola barca.
«Li avete trovati qui?» domandò Valerio, rivolto a Bantone.
Lo sterratore dapprima annuì, ma subito dopo scosse il capo in segno di diniego. «Non proprio qui, domine.» Tese il braccio verso lo stagno e precisò: «Erano lì, non lontani dalla riva, ma erano quasi del tutto immersi nella mota». Lanciando un’occhiata di sguincio al liberto precisò: «Tutti e tre a faccia in giù».
Valerio si accostò al più vicino dei tre cadaveri, lo esaminò brevemente, poi spostò lo sguardo sugli altri due. La prima cosa che lo colpì fu l’apprezzabile stato di conservazione di quei corpi, che poteva essere indizio di una morte relativamente recente, ma poteva anche attribuirsi all’immersione nel fango da cui erano ancora insozzati. Ma c’era dell’altro.
«Sono tutti nudi, e tutti e tre con i polsi legati» constatò Muzio.
«E hanno la gola tagliata» soggiunse Gaio Rutilio, che si era piegato sulle ginocchia per vedere più da vicino. «Dallo stato dei corpi, sembrerebbe che siano morti da pochi giorni. È anche probabile che siano stati uccisi insieme e allo stesso modo.»
Bantone avanzò di un passo. Tendendo una mano verso i corpi si rivolse di nuovo a Valerio e gli fece notare che a tutti erano state inferte tre profonde ferite al cranio. «Probabilmente con una mazza» aggiunse, indirizzando ancora una volta uno sguardo fuggevole e inquieto al soprastante, che probabilmente disapprovava quel suo volersi mettere in evidenza.
Valerio osservò: «Dunque, c’è un metodo particolare, in questa esecuzione».
Questa volta Lugorio, che peraltro non era stato interrogato, non consentì allo schiavo di rubargli la scena nel fornire una possibile spiegazione: «È un rito celtico, domine. Questi tre sono stati sacrificati».
Per Valerio il fatto era molto allarmante. Da tempo, in tutta la Gallia settentrionale, correva voce che alcune bande bagaudiche avessero richiamato in vita ancestrali riti sacrificali di origine celtica, ma era la prima volta che si aveva certezza che ciò fosse avvenuto nelle vicinanze di Vicus Beda, e per di più in un’area di sua appartenenza.
Tornando a piegarsi su uno dei cadaveri, Calidiano lo spazzò con l’orlo del mantello dal lerciume che lo insozzava. Per alcuni secondi si concentrò di nuovo in una scrupolosa osservazione di quel corpo, quindi ne sollevò di poco un braccio e richiamò l’attenzione di Valerio: «Guarda, comandante: questo era un legionario! E della Prima Minervia!».
La Minerva tatuata sulla spalla del morto costituiva un indizio più che eloquente, ma la conferma la ebbero riscontrando anche sulle braccia degli altri due un tatuaggio identico; uno, anzi, era integrato dalla scritta Leg. Ima pia fiedelis, che tolse ogni dubbio residuo.
Nel risollevarsi, Calidiano si strofinò l’una con l’altra le mani insudiciate. «Devono essere i tre legionari di Treveri che erano scomparsi il mese scorso. Erano di turno su una torre di guardia a poche miglia da qui.»
«Sì, mi ricordo.»
«Si pensava che avessero disertato, e invece...»
«E invece... eccoli qui.»
Un sospetto si era già accampato nella mente di Valerio, che si rivolse al liberto con durezza: «Gli schiavi che comandi sono alloggiati qui vicino, immagino».
Trascolorando, Lugorio deglutì, nello sguardo un’espressione di allarme. Aprì la bocca per dire qualcosa, salvo subito richiuderla, e infine trovò le parole per rispondergli. «Sì, domine. E io con loro, o... per meglio dire, tu sai che abito con la mia famiglia nella casa vicina al loro dormitorio.» Sotto lo sguardo scettico del suo patronus, si affrettò a precisare: «Ma di notte sono rinchiusi, e di giorno sono sempre sotto la mia sorveglianza e quella dei miei figli. È impossibile che...».
«Potrebbero sapere qualcosa, però.» Nel dir questo, Valerio spostò d’istinto lo sguardo sui due sterratori, pur essendo consapevole che, per aver ritrovato i tre corpi, essi erano, tra i servi, i meno sospettabili.
Muzio, come soprastante alla servitù dei Metroni, era più di ogni altro interessato a chiarire la faccenda. Cogliendo il senso della frase del padrone, ammonì severamente i due schiavi a nome di tutti gli altri: «Se c’è qualcosa che sapete, un indizio, un dubbio, parlate ora, perché domani sarete tutti interrogati da me e dai miei uomini».
Valerio rincarò quelle severe parole: «Sapete che, se emergerà una responsabilità anche di uno solo di voi, la legge mi autorizza a mettervi tutti a morte».
In risposta a quella minaccia i due lo guardarono con spavento, ma assicurarono di non sapere niente.
Poco convinto, Valerio intimò a Lugorio di vigilare strettamente sugli schiavi a lui affidati e di metterli al lavoro, nei giorni successivi, in quella stessa parte della torbiera, onde accertare se altri corpi vi erano stati sepolti di recente.
«Metterò delle guardie per sorvegliare questa zona» aggiunse. «Ma ricordate: qualunque scoperta dovrà essere subito riferita a Decio Muzio, perché poi lui la riferisca a me.»
Un tuono risuonò in lontananza. Il vento rinforzava, scuotendo le fronde degli alberi e portando anticipatori spruzzi di pioggia. Ormai Valerio aveva visto tutto ciò che gli serviva, perciò ordinò a Lugorio di occuparsi con i due schiavi della rimozione e del seppellimento dei tre corpi, quindi si avviò con Muzio e Calidiano verso i cavalli. Era di umore nero: una giornata che già era cominciata male finiva decisamente peggio. In quel momento, sotto la sferza del vento, non vedeva l’ora di rientrare alla villa e ristorarsi con un bagno caldo.
Immerso fino al petto nella vasca del calidarium, le braccia distese sul suo bordo marmoreo, Valerio Stabiano si abbandonava con voluttà quasi colpevole al rilassante abbraccio dell’acqua. I suoi vapori gli avvolgevano la mente in una sorta di nebbia amica e soporifera, in cui fluttuavano immagini, sopite anche da gran tempo nella memoria, che incoraggiavano in lui pigre riflessioni. Da altri locali giungeva alle sue orecchie l’eco di voci infantili: Gaia, che di lì a pochi giorni avrebbe compiuto dieci anni, giocava col piccolo Marco Elvio, che a piedi nudi correva ridendo per le stanze, probabilmente insieme ai figli di Muzio e sotto lo sguardo vigile della fantesca. A tratti Valerio udiva anche, remote, le voci dei domestici intenti alle loro varie mansioni o, più vicino, il parlottio, nello spogliatoio, fra il suo massaggiatore e Simplicio, il suo domestico personale. Il fragore del temporale arrivava lì solo a tratti, quasi per fargli apprezzare ancora di più la pace della sua casa.
Quasi mezzo secolo era trascorso da quando suo padre, dopo aver acquistato quella che all’epoca era soltanto un comune casale di campagna, aveva dato il via ai lavori per trasformarlo nella sontuosa villa che intendeva edificare per sé e per la propria discendenza. Uno dei primi interventi era stato rivolto a ingrandirne i locali destinati ai bagni, e forse, all’epoca, il risultato gli era parso apprezzabile. Era stato però il suo figlio primogenito, Fabrizio, accorto amministratore, a trasformare quell’area dell’edificio in un vero, elegante locale termale. Adesso quel settore, con le pareti rivestite di marmi policromi, le belle sculture a bordo vasca e la raffinata pavimentazione a mosaico, con scene mitologiche e illustrazioni di segni zodiacali, suscitava l’invidia di molti nobiliores della Belgica, non meno del magnifico parco che, abbracciato da un colonnato corinzio, dava accesso alla pars dominica.
L’estensione crescente della villa, attraverso l’aggiunta di nuovi edifici, e i suoi abbellimenti avevano fornito in quegli anni visibile dimostrazione della ragguardevole condizione raggiunta dalla famiglia Metronia e della sua crescente influenza nella provincia, ma avevano anche attirato l’attenzione e la bramosia di personaggi importanti, che in anni non lontani non avevano perdonato a Valerio la sua fedeltà all’imperatore Probo. Un odio che era culminato nell’assassinio di Fabrizio Metronio e di sua moglie, stroncati, nell’atrio della loro casa, dalle lance dei miliziani di Marcello Bonoso. Un atto infame, perpetrato dall’usurpatore per colpire Valerio: la vile rivalsa di un uomo inetto e meschino, che pochi mesi dopo aveva pagato con la vita la propria ambizione. Quel giorno, la villa era stata devastata, l’intendente aveva subito una crudele bastonatura e alcuni servi erano stati uccisi. Se il complesso non era stato dato alle fiamme era stato soltanto perché aveva suscitato la cupidigia del tiranno.
Quanto tempo era trascorso da quei tragici eventi? Cinque anni? No, sei. Sei anni burrascosi che erano culminati nell’ascesa al principato di Diocleziano dopo la sanguinosa battaglia della Morava. Se le Gallie erano state toccate marginalmente da quella guerra civile, avevano però sofferto una recrudescenza della Bagaudia, soprattutto dopo il richiamo di alcune legioni ordinato da Carino onde raccogliere un esercito da contrapporre al suo avversario.
In quell’occasione, essere sostituito come legato imperiale nella Germania Superiore e privato del comando della Ventiduesima legione era stato per Valerio motivo di amarezza, tuttavia era pur vero che, alleggerendolo dal peso del governo, il sospettoso e ingrato imperatore gli aveva fornito l’opportunità di ritirarsi in campagna e assaporare in tranquillità le gioie della vita familiare e della sua agiata condizione. E così sarebbe stato, se i tempi che correvano non fossero stati funestati dall’incendio bagaudico.
Valerio conosceva bene le ragioni dei ribelli, che non erano solo disertori, resti di orde barbariche disperse dall’esercito, schiavi fuggitivi, ma anche e soprattutto contadini schiacciati dalle imposte, dall’usura, dallo sfruttamento spietato da parte dei proprietari e dal servizio obbligatorio nell’esercito su designazione del capo villaggio o del padrone della terra che lavoravano. Le rivendicazioni di quella gente oppressa non avevano mai trovato ascolto presso i generali che nell’ultimo decennio si erano succeduti al soglio imperiale, e la ribellione che ne era derivata, malamente contrastata dall’esercito, teneva gli aristocratici e i possidenti in uno stato di terrore e di continua emergenza, per non dire del decadimento di ogni attività produttiva e delle attività di commercio che derivava dai saccheggi, dalla fuga di molti schiavi e dall’insicurezza delle strade.
Dopo la battaglia della Morava, il compito non troppo onorevole di fare strage di contadini, disertori e tagliagole da strada era stato assunto da Marco Aurelio Massimiano. Munito da Diocleziano di pieni poteri e di un forte esercito, egli aveva ripulito dalla Bagaudia la zona del lago Lemano, ma, per quanto se ne sapeva, non si era ancora spinto nel Settentrione, e in particolare nella Belgica, dove le bande di Amando, Eustazio, Achillas e Carrubio Sirio ancora imperversavano saccheggiando i borghi, liberando gli schiavi, taglieggiando gli aristocratici e spingendosi addirittura ad assumere il governo di gran...