Inutile girarci intorno: Bergamo, la città dove sono nata e cresciuta, è oggi l’epicentro italiano della pandemia di Covid-19. C’è solo una domanda che mi gira in testa: perché è diventata il lazzaretto d’Italia? Che cosa non ha funzionato? Osservando la mappa del contagio a livello provinciale ci si accorge che il focolaio lombardo (il secondo dopo quello di Codogno in ordine di tempo) è divampato da una zona ben precisa nella Val Seriana, da un piccolo comune che dista meno di sei chilometri da Città Alta. Si chiama Alzano Lombardo e insieme a Nembro detiene il triste record della più alta incidenza di contagi da Coronavirus di tutta Europa.
Ma andiamo con ordine. Domenica 23 febbraio, nel pomeriggio, due giorni dopo lo scoppio del primo focolaio di Codogno, vengono accertati due casi positivi di Covid-19 all’ospedale Pesenti Fenaroli di Alzano Lombardo. Almeno uno di loro passa dal pronto soccorso, un luogo angusto e affollato. L’ospedale viene immediatamente “chiuso”, per poi riaprire – inspiegabilmente – alcune ore dopo, senza che ci sia stato «nessun intervento di sanificazione e senza la costituzione nel pronto soccorso di triage differenziati né di percorsi alternativi», come denunciano due operatori sanitari che chiedono l’anonimato. «Nei giorni successivi si apprende che diversi operatori, sia medici che infermieri, risultano positivi ai tamponi per Covid-19, molti di loro sono sintomatici». Ma le disposizioni cambiano velocemente e pochi giorni dopo «tutti i contatti stretti delle persone accertate positive non vengono più sottoposti a tampone, se asintomatici». Come pensare quindi di delimitare il contagio, isolando i possibili vettori? Se lo chiedono i due operatori sanitari dipendenti della struttura ospedaliera, e ce lo domandiamo anche noi. Soprattutto perché la maggior parte delle persone transitate nell’ospedale e nel pronto soccorso quella domenica di fine febbraio, una volta uscite – senza avere una diagnosi né essere isolate, e ignare dei casi positivi riscontrati – sono tornate a casa dalle proprie famiglie, sono andate in ufficio, in fabbrica, a fare la spesa, in palestra, al parco, al bar per l’aperitivo, si sono mosse liberamente per il comune, per la provincia e la regione; altre sono andate persino a sciare, magari a Valbondione (località sciistica in provincia di Bergamo) dove, guarda caso, nei giorni successivi si sono registrate impennate di contagi da Coronavirus.
Le scuole sono già chiuse da alcuni giorni in tutta la Lombardia, ma la gente continua a lavorare e soprattutto a uscire.
Nel frattempo – in quei giorni tra il 23 febbraio e il 1 marzo – all’ospedale di Alzano Lombardo si ammalano un po’ tutti: dal primario ai medici, dagli infermieri ai portantini. Ci sono addirittura pazienti che entrano con una frattura ed escono morti, positivi al Covid-19. Ma chi ha ordinato, quella domenica 23 febbraio, la chiusura e la riapertura del pronto soccorso di Alzano Lombardo? Da chi è arrivato l’ordine di non sgomberare e sanificare immediatamente l’intera struttura ospedaliera? Chi ha lasciato che il personale medico, gli utenti e i loro familiari tornassero a casa quel giorno stesso senza essere messi in quarantena e senza una diagnosi?
Con l’aumento dei casi (nel solo mese di marzo, nella provincia di Bergamo, sono stati certificati 4.500 decessi per Covid-19) aumenta però anche la voglia di denunciare. Ecco che il muro di omertà inizia a sgretolarsi e alcune importanti risposte cominciano ad arrivare. In questo senso, una prima testimonianza chiave giunge da un impiegato dell’Azienda socio sanitaria territoriale (ASST) Bergamo Est, da cui dipende l’ospedale di Alzano Lombardo, che ha vissuto in prima persona quelle ore frenetiche.
«La riapertura del pronto soccorso è avvenuta per ordini superiori, perché il direttore medico di Alzano, Giuseppe Marzulli, era chiaramente contrario e si è espresso più volte in questo senso. Dal suo ufficio lo si sentiva urlare con la direzione generale, sanitaria e con la direzione strategica di Seriate. Dall’altra parte della cornetta poteva esserci il direttore sanitario, Roberto Cosentina, o il direttore generale, Francesco Locati, che gli hanno imposto la riapertura. C’è stata sicuramente una situazione di conflitto. Il direttore non era d’accordo con la riapertura del pronto soccorso, ma ha eseguito quelli che sono stati gli ordini superiori. Il pronto soccorso è stato riaperto senza che venissero predefiniti dei percorsi di sicurezza e senza nessuna sanificazione specifica. La riapertura è avvenuta semplicemente… con la riapertura. Non ci è stata fatta nessuna comunicazione. Non è stata allestita immediatamente la tenda di pre-filtraggio e il pronto soccorso è stato aperto accogliendo i pazienti presunti affetti da Coronavirus insieme agli altri.»
Le parole che ci consegna questo testimone inchiodano alle proprie responsabilità la direzione generale e sanitaria dell’ASST Bergamo Est di Seriate.
La ricostruzione dei fatti sulla mancata chiusura dell’ospedale di Alzano Lombardo viene confermata anche da un’infermiera, che ha vissuto le prime drammatiche ore di quel 23 febbraio. E che ha deciso di vuotare il sacco e raccontare tutto a TPI.
«Il 23 mattina viene comunicato un caso sospetto di Covid-19 al pronto soccorso, su cui era stato effettuato il tampone. Si decide quindi di chiudere il ps nel primo pomeriggio e si invita l’utenza che si trovava nella sala d’attesa ad allontanarsi. Alcune ore dopo vengono trovati altri due casi positivi in Chirurgia. I due casi Covid-19 accertati erano ricoverati da alcuni giorni in ospedale, per questo bisognava svuotare subito i reparti e sanificare tutto. Ma questo non è stato fatto.
«Il 23 stesso abbiamo fermato tutti i colleghi, è stato transennato l’ingresso in entrata e in uscita, poi verso le dieci di sera, quando è arrivato l’ordine di andare, tutti sono tornati a casa, parenti compresi. È stato lì il casino. Lì non doveva uscire nessuno, né i parenti né i pazienti. Dovevano isolarci, farci i tamponi, impedirci di andare via. Il lunedì e il martedì l’intero ospedale è andato avanti con le normali attività. È stato questo il grosso errore. La mattina del 23 febbraio, il nostro medico ha chiuso immediatamente, ha avvisato i vertici, ha avvisato il 118 che non avrebbero accettato più nessun paziente e ha avvisato l’utenza che c’era in sala d’attesa, ma loro non hanno percepito la gravità della situazione. Eppure è stato detto chiaramente: abbiamo un caso sospetto di Coronavirus. Il pronto soccorso in questo momento viene chiuso a tempo indeterminato. Ai colleghi del pomeriggio abbiamo detto di non entrare, di tornarsene a casa, e nel frattempo ci siamo messi a redigere delle liste con i nomi dei pazienti transitati, dei loro parenti, del personale che è stato a contatto con gli infetti: tutte le persone che, secondo noi, andavano avvisate di essere venute in contatto con casi di sospetto Covid-19. Persone che andavano messe in quarantena. Non so che fine abbiano fatto queste liste. Il punto è che io per prima avrei dovuto iniziare la quarantena, invece, quella sera, tutti siamo andati a casa. E ci è stato detto, dal direttore e dal nostro responsabile, di tornare tranquillamente a lavorare il giorno dopo. So per certo che il pronto soccorso alle 22 era di nuovo aperto: gli utenti potevano entrare e le ambulanze arrivavano. Il pronto soccorso, nonostante la chiusura di alcune ore, nonostante l’allarme, ha accolto persone fino a tardi.
«I giorni successivi a quella domenica 23 febbraio è arrivata la richiesta, da parte dell’ASST Bergamo Est, di mantenere fermi al pronto soccorso i casi sospetti finché non fosse arrivato l’esito del tampone. All’inizio le indicazioni erano queste, tant’è che noi a un certo punto non avevamo più né attacchi liberi per le bombole d’ossigeno, né lettini dove mettere i pazienti. Alla fine, l’intero pronto soccorso è diventato “reparto Covid”. Abbiamo tenuto lì le persone anche 24-48 ore, aspettando i referti. Il numero dei pazienti Covid aumentava a una velocità impressionante. Sin dai primi giorni abbiamo dovuto eseguire gli ordini dell’ASST di Seriate che ci obbligava a tenere i casi confinati al pronto soccorso, senza trasferirli nei reparti o in altri ospedali fino alla conferma della positività. Li abbiamo sistemati ovunque: nei corridoi, nella shock room. Non avevamo stanze di isolamento e alla fine anche nel triage sono stati creati dei posti letto. Abbiamo chiesto subito che almeno uno dei reparti già infetti, tra Medicina e Chirurgia, fosse adibito solo ai casi Covid, perché il pronto soccorso si satura velocemente: già con venti persone allettate non si riesce più a fare niente. Ad Alzano non abbiamo nemmeno una terapia intensiva, perciò li mandavamo a Seriate, a Bergamo. Ma, a un certo punto, hanno iniziato a non accoglierne più, perché i reparti si stavano saturando. Infatti, dopo alcuni giorni, anche ad Alzano si sono creati dei reparti solo per pazienti Covid-19 con la terapia sub-intensiva, la cosiddetta CPAP. Noi, in pronto soccorso, abbiamo avuto una media di venti pazienti al giorno ricoverati, di più non potevamo tenerne.
«Qui ad Alzano le decisioni vengono prese dal direttore medico, Giuseppe Marzulli. Se il direttore riceve degli ordini da persone che non sono lì sul posto, ma dietro a una scrivania, può sempre decidere di non ubbidire. È come se un mio superiore mi chiedesse di dare del cianuro a un paziente; ecco, io non lo faccio, perché altrimenti il paziente muore e sarò io a risponderne. Marzulli doveva rifiutarsi di eseguire gli ordini di Seriate, doveva prendere tempo, non riaprire e stabilire dei percorsi, isolare tutti, fare i tamponi a pazienti, parenti, infermieri e medici e dire: “Quando avremo un percorso sicuro, riapriremo”. Tant’è che i reparti poi li hanno svuotati e sanificati, ma quattro giorni dopo. Il danno ormai era già stato fatto. Avrebbero dovuto fermare tutto almeno per 24-48 ore, solo così si sarebbe limitato il contagio. Anche i sindaci, se avessero voluto, avrebbero potuto imporsi: “Io Alzano lo chiudo”, “Io Nembro lo chiudo”. Conte ha dato le direttive e nessuno avrebbe impedito a nessuno di istituire zone rosse, l’esercito era in giro, chi l’ha chiamato? E chi gli ha detto di tornarsene indietro? Chi aveva il potere per farlo, doveva creare una zona rossa, senza aspettare ordini superiori. Perché la zona rossa non c’è stata? Perché c’è la Persico, Radici… Il sindaco di Alzano poteva chiuderlo, il suo comune. Hanno questo potere, i sindaci, sono lì apposta, è il loro lavoro, nessuno avrebbe chiesto loro di rispondere su un’epidemia del genere se avessero peccato in eccesso. Non si sono presi le responsabilità, non hanno avuto il coraggio di chiudere i loro paesi? Ora stessero zitti tutti quanti.»
Quella che segue è la testimonianza di un’operatrice socio-sanitaria (OSS) che ha prestato servizio nell’ospedale di Alzano Lombardo proprio nella notte precedente al 23 febbraio. La donna stava seguendo un paziente ottantenne ricoverato per un check-up nel reparto di Medicina generale, in una stanza condivisa con un altro paziente di sessant’anni affetto da una grave polmonite.
«Il nostro vicino di letto aveva la febbre alta, non riusciva a respirare» racconta l’assistente sanitaria «e chiamava l’infermiera in continuazione, perché era evidente che stesse soffrendo molto; indossava il casco dell’ossigeno, che però continuava a cadere, era agitato, sudava e lo sentivo ripetere: “Non riuscite a capire che io sto morendo, sto morendo”. Queste parole mi sono rimaste impresse nel cervello. Gli infermieri, tra l’altro, avevano iniziato a indossare le mascherine con il filtro, quelle buone, mentre fino a qualche giorno prima li avevo visti solo con quelle chirurgiche e questo dettaglio mi aveva allarmato.»
Il giorno dopo, nell’ospedale di Alzano Lombardo, che dista appena cinque chilometri da Bergamo, vengono diagnosticati due casi di Covid-19, uno di loro è transitato dal pronto soccorso e un altro dal reparto di Medicina generale. L’assistente sanitaria viene a sapere che il paziente in camera con il suo assistito è morto e che l’ospedale è stato chiuso e riaperto alcune ore dopo la notizia delle infezioni da Coronavirus. Nessuno, però, la contatta, né la sottopone a tampone, così come non vengono contattate le sue colleghe che avevano prestato servizio nella struttura ospedaliera infetta e che nei giorni a seguire si sono spostate liberamente per tutta la provincia di Bergamo.
Il paziente che la donna aveva in cura muore una decina di giorni dopo. Lei, invece, si ammala: febbre, raffreddore e tosse, e mentre la intervistiamo al telefono ha grosse difficoltà a parlare, a causa della forte tracheite che ancora la tormenta. «Ho cinque figli» dice «e nessuno in quell’ospedale ha pensato di proteggermi e di tutelarmi, ci ho pensato io a mandare i miei figli da un’altra parte per non contagiarli, perché sono sicura di aver contratto il Coronavirus. Lo hanno preso tutti qui, se hai l’influenza è quasi sicuramente Covid-19, ma ormai il tampone non lo fanno quasi più a nessuno.»
Questa storia si aggiunge alle decine di testimonianze che stanno emergendo in questi giorni, come quella di un uomo di Villa di Serio, che nell’arco di due settimane, a febbraio, ha perso entrambi i genitori, transitati per motivi diversi dall’ospedale di Alzano Lombardo. I sintomi prima di morire erano sempre gli stessi, tutti riconducibili al Coronavirus. Ma nessuno potrà mai dimostrarlo, perché sono morti senza che venisse fatto loro il tampone. Contagiati molto probabilmente dentro all’ospedale. Da altri pazienti o dagli stessi operatori sanitari. Un disastro, insomma.
Ci sono centinaia di storie così in questi comuni della bergamasca. Storie di abbandono, di disperazione, di rabbia e di solitudine. E sono molte le famiglie che stanno pensando di riunirsi in un c...