Era un mercoledì. Quella mattina mia mamma mi ha chiamata per sentire come stavo, perché pochi giorni prima ero stata operata alla gamba.
«Amore, come stai oggi?»
«Eh mamma, insomma, fa un po’ male…»
«Senti, ma che ne dici se stasera io e papà veniamo da voi? Abbiamo voglia di vedere i bambini, porto la cena, così non ti stanchi a cucinare.»
Normalmente i miei genitori non vengono mai a Roma durante la settimana. Di solito vengono ad aiutarci se io devo andare via per lavoro, oppure nel weekend per farci uscire; a volte viene solo mia mamma, così lei può stare con i bambini e ci permette di passare una serata di svago.
Quel giorno infatti ero molto sorpresa e non sapevo cosa dirle: da un lato ovviamente mi faceva molto piacere vederli e avere un aiuto da parte loro, ma dall’altra mi dispiaceva che dovessero fare questo cambio programma per mettersi in macchina nel traffico dei giorni feriali. In realtà c’era anche un’altra ragione per cui non ero molto convinta che venissero proprio quella sera, ma era un argomento di cui io e Bernardo avevamo deciso di non parlare con loro per il momento, quindi non potevo dirle nulla e non mi restava che accogliere la sua proposta.
«Va bene, mamma, se vuoi venire lo sai che i bambini saranno felici e anche a noi fa piacere, però hai idea di cosa troverete di mercoledì sulla Pontina? Siete sicuri?»
Lei però non ci ha pensato due volte: «Ma sì, al massimo troveremo un po’ di traffico, che problema c’è? Vengo a darti una mano».
In effetti avevo ancora le stampelle, ero in riabilitazione e facevo fatica a fare tutto. Nove giorni prima avevo subito un intervento per una coxartrosi che mi faceva soffrire da tempo, perché avevo un osso a punta che spingeva sull’anca e mi bloccava i movimenti: dapprima era solo un fastidio quando facevo pilates, poi via via il dolore era diventato sempre più intenso e frequente, finché mi sono rivolta a un professore che ha deciso di operarmi.
Dopo tre ore di intervento, al risveglio il professore mi aveva detto: «Signora Santarelli, devo darle una notizia bella e una brutta. Quale vuole per prima?».
«Iniziamo con quella bella.»
«La coxartrosi l’abbiamo sistemata, almeno in parte.»
«E quella brutta?»
«Purtroppo aprendo ho trovato un tessuto molliccio che non mi piace, ho dovuto prenderne un pezzettino e adesso faremo una biopsia, per capire se si tratta di una massa benigna o maligna.»
In quel momento non potevo assolutamente immaginare quello che stava per succedere, né sospettare che nel giro di pochissimi giorni le sliding doors della vita mi avrebbero portata a entrare in un percorso da cui avrei imparato moltissime cose su quegli argomenti. Allora ero ancora del tutto ignorante in materia, non sapevo niente, e subito gli ho chiesto: «Ma scusi, ma allora perché non me l’ha tolta tutta, questa roba che avevo dentro?».
Ora lo so bene che era una domanda insensata, e infatti la sua risposta è stata netta: «Signora, ma sta scherzando? Non possiamo togliere tutto, prima va fatta la biopsia, perché se disgraziatamente fosse una forma maligna rischiamo di espanderla su tutta la gamba, sarebbe pericolosissimo. Quello che si fa è prelevare un pezzettino, capire di cosa si tratta e poi valutare».
La parola biopsia fino a quel giorno non era mai entrata nella mia vita, e naturalmente mi ero spaventata da morire, malgrado lui cercasse di tranquillizzarmi come poteva.
«Non si preoccupi, è solo un controllo di routine. Poi, una volta che arriverà il risultato, dovrò operarla di nuovo, e se ci sarà un risultato maligno, ovviamente…»
Da lì è partito con un discorso molto lungo che io ho ascoltato sì e no, perché avevo la testa piena di pensieri: “Oddio, e se ho davvero un tumore? Devo fare la chemio, la radioterapia, mi taglieranno la gamba? Morirò? Non starò più con i miei figli? Lascerò Bernardo da solo?”.
È incredibile oggi pensare che questa conversazione si sia svolta solo nove giorni prima di sapere di mio figlio, nove giorni prima che la nostra vita cambiasse completamente. Sliding doors.
E così quel mercoledì pomeriggio i miei genitori sono arrivati a Roma. Era il 29 novembre 2017. In effetti per strada hanno trovato un po’ di traffico, come immaginavo, e quando sono arrivati da noi, verso le sei e un quarto, hanno fatto giusto in tempo a salutare Bernardo e Giacomo prima che uscissero. Io avevo deciso di restare a casa, visto che ancora non mi sentivo bene, e a pensarci adesso forse è stato anche meglio che quella sera non sia andata con loro.
Ero sul divano con la gamba distesa, stavo giocando con Greta, la mia piccolina, e quando avevo allungato la mano per prendere le stampelle mia madre non aveva voluto nemmeno che mi alzassi per salutarli, erano venuti loro verso di me ad abbracciarmi. Il bambino come al solito si stava attardando nella sua stanza, Bernardo era già alla porta con l’occhio all’orologio e le chiavi della macchina in mano, un po’ soprappensiero; quando gli ha detto: «Dai, Jack, sbrigati e vieni a salutare i nonni, dobbiamo andare, lo sai che hai la risonanza alle sette e dobbiamo essere lì già un po’ prima, non possiamo arrivare in ritardo», mia mamma è saltata in aria: «Ma come? Una risonanza magnetica? Per Giacomo?».
«Ma sì, mamma, è un controllo, bisogna capire se ha un ematoma, un’emicrania, non si capisce come mai il bambino continua a stare male anche se ormai la sinusite è passata.»
A mia mamma e mio papà non avevo detto nulla, ed era proprio per questo che non ero molto convinta che venissero da noi, quella sera; perché temevo la loro reazione e tra me e me mi dicevo: “Questi solo a sentire la parola risonanza andranno nel pallone, chissà cosa penseranno”. Comunque per abitudine i miei non fanno mai troppe domande, e anche quella sera sono stati lì ad ascoltare e non hanno commentato più di tanto, mentre Bernardo accompagnava Giacomo al San Camillo.
La risonanza l’avevamo prenotata perché da qualche settimana c’era qualcosa che non andava. Nell’ultimo periodo non riconoscevo il mio bambino, notavo che era strano, irritabile; da quando era piccolissimo, quando si stava per ammalare io ne ho sempre avuto il sentore, che fosse una tonsillite o una febbre alta lo dicevo subito a mio marito: «Lo vedo dagli occhi, dal colorito della pelle, a ’sto ragazzino fra due o tre giorni gli verrà la febbre».
Ogni volta Bernardo mi diceva: «Ma come fai?», ma io so che una mamma mi può capire, una mamma lo sa, perché i figli sono creature che sono nate nella nostra pancia e anche se il cordone ombelicale è stato tagliato faranno sempre e comunque parte di noi. Se mio figlio si trovasse a venti chilometri di distanza o anche a ventimila chilometri, se in futuro andrà a studiare all’estero, io sono sicura che sentirò qualcosa nella pancia quando lui emotivamente non starà bene, quando si sentirà giù di morale o anche quando sarà molto felice: pure adesso nelle piccole cose succede già tante volte, magari quando non ci troviamo insieme ha voglia di chiamarmi e io lo anticipo con una telefonata un minuto prima che lui alzi il telefono. È un legame speciale che molte mamme riescono ad avere con i propri figli.
Questo sesto senso mi aveva aiutato e sostenuto tantissimo nelle settimane precedenti a quel giorno: quelle settimane in cui mi ero trovata a insistere molto, con tanti dottori, affinché andassero a fondo, proprio perché intuivo che Giacomo doveva avere qualcosa; pur non immaginando nel modo più assoluto che un giorno si potesse arrivare a una diagnosi come quella che poi abbiamo avuto.
Quando visitavano Giacomo tanti mi dicevano: «Ma non ha niente, il bambino è in salute», e in effetti sembrava davvero così, guardandolo. Mio figlio era un bambino pieno di energia, che semplicemente lamentava un po’ di stanchezza dopo gli allenamenti di calcio, era spesso nervoso, rispondeva in malo modo. Ma io sapevo che tutto questo non era da lui. Per un po’ di giorni mi ero limitata a chiedermi: «Mah, come mai si comporta così? Ha tutto, una bella casa, una bella famiglia, giochi, sport, tutto quanto», come se fossero dei capricci. Poi avevo iniziato a preoccuparmi.
Non è una questione di sintomi, anzi tutte le volte che qualche mamma mi fa questo tipo di domande io consiglio sempre di consultare il sito del Bambin Gesù, nella sezione “Tumori cerebrali”, per capire quali siano tutti i sintomi da tenere sotto controllo, anche perché dare troppo peso alle situazioni degli altri rischia di creare ansia inutilmente. Ora che purtroppo mi è capitato di vedere e conoscere tanti casi di questo tipo, l’unica cosa che mi sento di dire è che davvero ogni caso è a sé stante.
La nostra storia era cominciata con un episodio di vomito ad aprile, che si è ripetuto poi ogni quaranta-cinquanta giorni. L’ultimo era stato un mese esatto prima di quel mercoledì.
Me lo ricordo perfettamente: era il 31 ottobre 2017 e tornavamo da Milano, dove eravamo passati a trovare mio fratello. A casa Giacomo non si era sentito bene e aveva rimesso pesantemente. A me, non so perché, questo vomito a getto non era piaciuto per niente, mi ero resa conto che era un po’ diverso dal solito, ma all’inizio pensavo che fosse un semplice virus intestinale, anche perché sfortunatamente questo malessere era capitato in una settimana in cui nelle chat delle mamme era venuto fuori che molti dei suoi compagni di scuola avevano vomitato, così la prima cosa che veniva da pensare era: “Vabbè, in classe si sono passati il virus”.
Però c’era comunque qualcosa che non mi faceva stare tranquilla. Quando ho chiamato il nostro pediatra e lui non mi ha risposto ho continuato a insistere, cosa che normalmente non è da me. Quel giorno l’ho chiamato tre volte. Lui magari era impegnato in aula, visto che insegna anche all’università, ma quando si è liberato mi ha cercata immediatamente, perché sa benissimo che io non sono per niente una persona ansiosa, non sono proprio quel tipo di mamma, quindi ha capito subito che per chiamarlo tre volte di fila doveva essere successo qualcosa di particolare.
Quando è squillato il telefono ero a casa mia, appoggiata alla finestra. Mentre accettavo la chiamata ho sentito qualcosa, come una pinzata nella pancia, un pizzico, un toc toc; anche se naturalmente non c’era nessuno che mi pizzicava, ma solo una vocina dentro che non mi faceva stare tranquilla e mi diceva: “Elena, mi raccomando, qua c’è qualcosa che non va”.
Gli ho detto: «Giacomo non sta bene…»
«Ma ha la febbre?»
«No.»
«Gli ultimi allenamenti li ha fatti?»
«Sì.»
«A scuola sua gira il virus?»
«Sì, il virus sta girando, però lui lamenta anche un po’ di mal di testa, è sempre stanco», e così, grazie al mio pediatra, finalmente siamo arrivati a fare una visita da un altro specialista: lui ha scoperto che Giacomo aveva una fortissima sinusite, che in effetti quando è ad alti livelli scatena dei mal di testa atroci. Dopo tre settimane la sinusite era ormai ben curata, ma quando siamo tornati da lui a fare un controllo io vedevo che mio figlio non stava ancora bene, non era al top della sua solita forma fisica, e mi dicevo: “Mah, forse sarà stato il cortisone, le terapie antibiotiche, sarà stanco, probabilmente questa sinusite così forte può portare spossatezza».
Il dottore gli controllava le narici con le telecamere ed era felicissimo quando gli ha annunciato: «Giacomo, la sinusite è passata! Basta, non devi più prendere tutte quelle medicine, hai finito di fare quei lavaggi fastidiosi, sei libero!».
«Grazie!», gli ha risposto il bambino, ma aveva gli occhi stanchi.
«Tu come stai adesso, ti senti bene?», gli ha chiesto lui, e Giacomo: «No, io mi sento proprio un peso alla testa, qui», portandosi la manina sulla fronte.
A quel punto il dottor Savastano ha alzato subito il telefono per prenotare la risonanza. Aveva già capito di cosa si poteva trattare, ma non poteva dircelo, anche perché per un dottore è difficile dire a dei genitori che si sono rivolti a lui per una sinusite: «Vi devo far fare una risonanza al più presto, perché penso che il bambino potrebbe avere un tumore».
E così arriviamo a quel mercoledì che non si può dimenticare, il 29 novembre 2017.
Oggi non posso fare a meno di pensare che quella mattina è come se mi fossi portata sfortuna da sola, quando ho detto a mio marito: «Berny, perché non ci vai da solo stasera? Tanto vedrai che Giacomo non ha niente».
Io non mi sentivo bene, avevo la gamba piena di lividi, la notte dormivo malissimo per i dolori, e infatti lui anche mi ha detto: «Amore, ma figurati, non ti preoccupare, vado da solo, certo che non ha niente. Al massimo avrà una forte emicrania, magari è per questo che continua ad avere questi mal di testa».
Allora gli ho raccontato che un paio di giorni prima avevo parlato a lungo con una mia amica che soffre di mal di testa da sempre. L’avevo chiamata per chiederle: «Michela, scusami, una volta mi avevi detto che avevi spesso mal di testa fin da piccola. Ma anche allora era già così forte?».
E lei mi aveva risposto: «Sì, sì, mamma mia, questi mal di testa non mi hanno mai lasciato, è da quando sono bambina che soffro di quest’emicran...