Il Falco di Sparta
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Il Falco di Sparta

  1. 464 pagine
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Il Falco di Sparta

Informazioni su questo libro

Nel mondo antico, c'era un esercito più temuto degli altri.
Un esercito in grado di conquistare il mondo.
Ma la Storia è capace di ribaltare anche il destino più glorioso. 401 a.C. Artaserse, re di Persia, governa un impero che si estende dalle coste dell'Egeo all'India settentrionale. Il suo dominio è assoluto, e per cinquanta milioni di sudditi una sua parola può valere la vita o la morte. Un'ombra però si staglia all'orizzonte del suo regno apparentemente così saldo: il fratello Ciro il Giovane, che reclama il trono, in nome del loro defunto padre Dario II.
C'è un solo esercito che può aiutare Ciro nell'impresa: diecimila figli di Sparta i cui padri morirono alle Termopili o nelle guerre del Peloponneso, che adesso prestano il loro prezioso servizio come mercenari. I diecimila sono agguerriti, e Ciro è un generale generoso e intelligente. Al suo seguito gli spartani lottano con coraggio, finché Ciro compie un errore fatale e, nel tentativo di ammazzare il fratello con le sue mani, muore. Per i diecimila greci è l'inizio di un calvario: soli nel cuore di un impero nemico, senza un comandante, dovranno trovare la via per il mare, e per la libertà. Un uomo solo sarà in grado di condurli a destinazione, un ateniese, un uomo che non si riteneva, fino a quel momento, neanche un soldato. Senofonte. Solo grazie a lui il mondo moderno conoscerà la straordinaria storia dei leggendari diecimila e del loro ritorno a casa. Uno dei momenti più epici dell'intera storia greca prende vita meravigliosamente tra le pagine di questo romanzo, tra ferocia, eroismo, crudeltà, violenza e nobiltà.

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Informazioni

PARTE PRIMA

I

La montagna cullava la città in grembo come una madre il suo bambino. Prima di salire sulla grandiosa piattaforma pianeggiante, Ciro decise di condurre la sua guardia personale al fiume. Gli spartani lasciarono le armi e le armature sulla riva e si gettarono in acqua, felici di lavarsi e togliersi di dosso la polvere e il sudore di quattrocento miglia.
Dall’alto del suo cavallo da guerra il principe sorrise nel vederli sguazzare e passarsi le mani fra i capelli e la barba. La marcia verso oriente aveva reso quegli uomini magri come cani da caccia, scuri di pelle e con i muscoli in rilievo. Non avevano mai ceduto, anche se qualcuno di loro aveva lasciato impronte insanguinate sulla polvere della strada.
«Mio signore, non vuoi cambiare idea?» gli domandò a bassa voce Tissaferne.
Ciro lanciò un’occhiata al suo vecchio amico e maestro seduto in groppa al castrone sauro che sbuffava e scalpitava, un cavallo della migliore razza persiana. Tissaferne continuava a fissare gli spartani con un’espressione truce.
«Dovrei salire lassù da solo?» replicò Ciro. «Dovrei tornare in patria come un mendicante? Non sono forse il figlio di mio padre e un principe? Questi sono gli uomini della mia guardia personale. I migliori.»
Tissaferne si tormentò la guancia con la lingua come se gli dolesse un dente. Il principe Ciro aveva superato i vent’anni e non era più un ragazzo sventato. E, sebbene il suo antico maestro gli avesse espresso chiaramente il suo pensiero in proposito, ora si trovavano sulle sponde del fiume Pulvar e ne sollevavano gli spruzzi. Il principe aveva portato l’antico nemico al centro stesso della Persia, nel suo cuore. Tissaferne aggrottò la fronte al pensiero. Aveva visto le mappe greche, dove non c’era quasi traccia delle città del grande impero orientale, e non aveva nessuna voglia di aiutare gli spartani a riempirne i vuoti con l’esatta ubicazione di Persepoli o, ancor peggio, con quella delle tombe reali lungo il fiume, soltanto a una mezza giornata di marcia da lì.
«Altezza, qualcuno potrebbe considerare un insulto portare qui gli uomini che hanno affrontato i vostri antenati e li hanno sconfitti sulla terra e sul mare. Gli spartani! Per gli spiriti divini! Qui, nel cuore del mondo! Se tuo padre fosse più giovane e ben...»
«Si congratulerebbe con me, Tissaferne!» scattò Ciro, infastidito. «Questi uomini hanno corso al mio fianco, non hanno mai esitato o chiesto di fermarsi. Mi sono fedeli.»
«Sono fedeli all’oro e all’argento» borbottò l’altro a bassa voce.
Ciro indurì i muscoli della faccia.
«Non possiedono nulla, perfino le armi le hanno avute dai loro padri o zii o per atti di valore. Ma ora basta, vecchio leone!»
Tissaferne accettò il rabbuffo e chinò il capo.
I greci erano stati rapidi nelle loro abluzioni, uscendo in fretta dall’acqua per asciugarsi al sole del pomeriggio, in piedi sulla sponda.
Alcune donne che lavavano i panni lì nei pressi lanciarono richiami e risate alla vista di tanti uomini nudi e uno o due dei guerrieri ricambiarono i sorrisi, mentre altri si scioglievano i muscoli con gli esercizi: non erano fatti per ridere o chiacchierare inutilmente.
Irritato con i suoi compagni, Ciro smontò di colpo, si slacciò l’elmo, si tolse la tunica e il pettorale, si sfilò gli schinieri, si liberò del mantello e dei sandali e, senza curarsi della sua nudità, entrò in acqua dopo aver fatto un cenno all’ufficiale spartano, Anassi, il quale lo osservava dalla sponda.
Le donne smisero di far chiasso quando videro quel giovane con la barba arricciata alla maniera dei persiani che aveva posato sul mantello un elmo adorno di piume d’oro. Non conoscevano il suo nome, ma in realtà non avrebbero osato chiamarlo. Ciro si lavò con lentezza, quasi come in un rituale, una purificazione per eliminare non solo il sudore e l’odore del cavallo, mentre sulla riva gli spartani restavano in silenzio, mostrando rispetto: il principe era tornato a casa per piangere suo padre, dopotutto.
Il messaggio aveva raggiunto Ciro quattordici giorni prima ed egli aveva costretto gli spartani a marciare quasi oltre le loro possibilità pur di arrivare in tempo, cambiando i cavalli nelle soste presso le taverne della corona sulla Grande Strada Reale o tagliando attraverso i campi di orzo e di frumento; ma quegli uomini avevano sempre tenuto il passo con lui, un giorno dopo l’altro, senza alcun lamento. Erano straordinari e il principe era fiero dei loro mantelli rossi e delle reazioni della gente quando scopriva chi fossero. Si erano ampiamente guadagnati la loro reputazione.
In quel luogo e con il fresco della sera, Ciro si sentì rincuorato. Persepoli sembrava silenziosa ma non mostrava segni evidenti di lutto; lungo le vie che conducevano alla città non si allineavano i soldati, né si vedevano drappi funebri o bracieri dove ardeva legno di sandalo. E tuttavia, finché non avesse attraversato la porta sulla vasta piattaforma che dominava la città, non avrebbe potuto avere la certezza che il vecchio genitore fosse ancora vivo. Si girò a quel pensiero, facendo passare lo sguardo sulla montagna che suo nonno e suo padre avevano scavato e modificato e sull’immensa pianura imperiale, una linea verde e grigia a quella distanza. Falchi selvatici roteavano pigramente nell’aria calda, cercando di avvistare i piccioni ben pasciuti fra gli alberi da frutta. Sulla terrazza reale sorgevano palazzi, caserme, teatri e biblioteche, con il padiglione di suo padre al centro di un lussureggiante giardino che veniva chiamato “paradiso”, il cuore verde e segreto dell’impero.
Sulle sponde del fiume si contorcevano bassi cespugli dalle radici simili a sculture levigate, mentre lunghi rami di gelsomino carichi di fiori spandevano nell’aria un dolce profumo.
Il principe inspirò profondamente, in piedi con l’acqua fino alla vita e gli occhi chiusi. Era a casa.
Gli spartani finirono di asciugarsi, tamponandosi con i mantelli e passandosi le dita nelle chiome, rinfrescati nonostante il sole. Anche il principe si sentiva riposato mentre si rivestiva con cura. Si allacciò il pettorale a piastre sulla tunica e gli schinieri spartani di bronzo, perfettamente modellati sulle sue gambe. Erano più utili a chi marciava portando lo scudo che a chi cavalcava, ma a Ciro piaceva onorare così i suoi uomini. Tissaferne la considerava un’affettazione straniera e, naturalmente, indegna di lui.
Se non fosse stato perché stava tornando a casa per essere presente al letto di morte del padre, probabilmente Ciro si sarebbe divertito per il modo in cui la popolazione si adunava per vedere gli stranieri. Dal mercato della frutta si stavano avvicinando i mercanti incuriositi, mentre le guardie, pagate per proteggerli, guardavano corrucciate; la fama dei greci dai mantelli rossi era giunta fin lì, sebbene i territori di varie nazioni e un tratto di mare aperto si stendessero fra Persepoli e la valle dell’Eurota, distante tre mesi di cammino e un intero mondo. Oltre ai leggendari mantelli, gli spartani indossavano gli schinieri che coprivano le gambe dal ginocchio alla caviglia. Erano pronti per la guerra, anche se questa volta il loro compito era stato soltanto quello di scortare un principe fino a casa.
Avevano ammucchiato gli scudi in pile ordinate, lasciandole incustodite prima di entrare nell’acqua, come se non riuscissero a immaginare che qualcuno potesse derubarli. Sul lato interno di ogni scudo era inciso il nome del proprietario, mentre all’esterno una singola lettera – la lambda, iniziale della regione della Laconia – spiegava al nemico l’ubicazione di Sparta all’interno della Grecia. Ogni scudo era lucidato e trattato con cura, come un’amante.
Mentre saliva, Ciro si domandava se fra quegli spettatori vi fosse qualcuno che conosceva Sparta come lui. Per le madri che stavano indicando ai loro bambini i guerrieri stranieri, questi erano i soldati che avevano umiliato gli Immortali persiani ben più di una volta, diventando così una leggenda. Erano uomini come questi che avevano distrutto l’esercito di Dario il Grande a Maratona. Erano stati gli spartani a guidare le truppe greche contro il re persiano Serse alle Termopili, a Platea e a Micale. La Persia aveva sconfitto e occupato militarmente quasi trenta nazioni, ma era stata fermata dalla Grecia... e dai guerrieri dai mantelli rossi.
Quei giorni bui appartenevano al passato, anche se il ricordo era sempre presente. Ciro distolse lo sguardo mentre i suoi spartani si disponevano in formazione in una doppia fila perfetta, pronti ai suoi comandi. Quegli uomini, che avevano sconfitto Atene e dominato su tutta la Grecia, combattevano per lui perché li pagava. E perché comprendeva il loro punto d’onore: l’oro e l’argento che guadagnavano al suo servizio serviva per costruire templi, caserme e armerie nella loro patria. Non tenevano nulla per sé e Ciro li ammirava più di qualsiasi altro genere di uomini, fatta eccezione per suo padre e per suo fratello.
«Andiamo, vecchio leone,» disse a Tissaferne «ho atteso anche troppo: non devo diventare debole ora, anche se non riesco a non pensare che si tratti di un errore, nemmeno adesso. Mio padre è troppo forte per morire, non è vero?»
Sorrideva, ma la sua pena era evidente. In risposta Tissaferne allungò una mano e gli strinse la spalla, l’adulto che dava conforto al ragazzo.
«Prima che tu nascessi, trent’anni fa, sono stato al servizio di tuo padre. Aveva il mondo nelle sue mani, allora. Ma perfino ai re è concesso poco tempo sotto il sole. Tocca a tutti noi, anche se i tuoi amici filosofi metterebbero in dubbio perfino questo, ne sono sicuro.»
«Vorrei che tu avessi imparato il greco a sufficienza per poterli capire.»
Tissaferne sbuffò con disprezzo.
«È una lingua da pecorai. Che m’importa dei discorsi degli schiavi? Io sono persiano.»
Era a portata di voce degli spartani, i quali tuttavia non dettero segno di aver udito. Ciro guardò il loro ufficiale, Anassi, perfettamente bilingue e che non perdeva una sola parola di quanto veniva detto, che da tempo si era fatto l’idea che Tissaferne fosse una grossa vescica piena d’aria persiana. Per un attimo Anassi incrociò lo sguardo di Ciro e ammiccò.
Tissaferne, in groppa al suo cavallo, notò che l’espressione del principe si era fatta divertita e si girò di scatto, cercando di vedere che cosa avesse causato quel mutamento di umore, chi avesse osato farsi beffe della sua dignità. Vide soltanto che gli spartani erano pronti a muoversi e scosse il capo, borbottando qualcosa a proposito di contadinacci e di stranieri.
Gli spartani portavano lo scudo sulla schiena durante le lunghe marce e, sebbene non vi fosse alcun pericolo, Ciro dette l’ordine di marciare in stile di parata; per attraversare una delle tre città capitali dell’impero persiano, avrebbero portato lo scudo rotondo di legno e di bronzo sul braccio sinistro, stringendo la lunga lancia nella mano destra. Al fianco avevano la spada corta e il micidiale kopi pendeva su una coscia; quella lama pesante e ricurva che incuteva tanta paura era considerata indegna di un vero combattente, ma gli spartani se la ridevano di quei giudizi.
Gli elmi di bronzo coprivano anche la barba, non solo le grosse trecce che scendevano sulle spalle, nascondendo il viso che poteva mostrare i segni di sfinimento in chi li indossava, dando al guerriero l’aspetto gelido di una statua: questa era una delle ragioni per cui quei soldati erano così temuti. Li temevano ancora di più per la loro reputazione. E il fatto che le armi da cui non si separavano mai fossero appartenute ai loro padri e ai loro nonni era forse la cosa che faceva più effetto.
Lasciandosi alle spalle il fiume, Ciro e Tissaferne portarono le loro cavalcature attraverso la città lungo vie che si vuotavano al loro passaggio mentre un silenzio strano scendeva sulla folla e sugli uomini in marcia.
«Continuo a pensare che non avresti dovuto portare con te i mercenari, altezza» mormorò Tissaferne. «Che cosa dirà tuo fratello quando vedrà che hai preferito i greci ai persiani?»
«Sono un principe e il comandante dell’esercito di mio padre. Se mai mio fratello dirà qualcosa, sarà che la mia dignità costituisce l’onore della nostra stirpe. Gli spartani sono i migliori del mondo. Chi altri avrebbe potuto tenere il passo con noi queste ultime settimane? Vedi qualche Immortale qui? Vedi qualche mio servo? Uno dei miei schiavi è morto cercando di starmi al fianco durante la marcia. E gli altri sono rimasti indietro. No, questi uomini si sono guadagnati un posto accanto a me.»
Tissaferne chinò il capo come in un cenno di assenso, pur provando una grande rabbia: Ciro trattava gli spartani come veri uomini e non come i cani rabbiosi che erano. Non aveva bisogno di voltare il capo per sapere che alcuni di loro non perdevano di vista Ciro mentre marciavano; non si fidavano di nessuno che si avvicinasse troppo al loro padrone, proprio come i cani da guardia, che guaiscono e ringhiano. Ma ormai quella marcia era quasi conclusa. I due cavalieri condussero gli spartani verso l’imponente scalinata che li avrebbe portati ancora più in alto, fino alla piattaforma del re persiano.
Ciro e Tissaferne, seguiti dai ranghi risuonanti degli spartani, guidarono le loro cavalcature su per i monumentali gradini, che erano ampi e bassi per permettere al sovrano di rimanere a cavallo al ritorno da una caccia. Ciro sentiva su di sé gli occhi degli Immortali di suo padre mentre si avvicinava alla stretta porta che si apriva nelle mura esterne. Suo padre aveva speso le ricchezze di intere nazioni per quella grandiosa piattaforma, sia per scavare ulteriormente la parete della montagna, sia per i tesori che adesso si potevano ammirare all’interno. Sebbene fosse il giardino di un impero, era pur sempre una fortezza difesa da una guardia permanente di duemila uomini.
L’ultimo gradino finiva sulla soglia, così che un nemico non avrebbe potuto radunarsi là e attaccare. Ciro avvertì un mutamento nella luce quando gli ufficiali persiani coprirono il sole guardando in giù verso di lui e soprattutto verso la massa degli spartani sulla gradinata alle loro spalle, irta di armi. Ciro mostrò loro un volto sereno e impenetrabile, fissando le mura illuminate d’oro dal sole al tramonto.
«Io sono il principe Ciro, figlio del re Dario, fratello del principe Artaserse, comandante dell’esercito persiano. In nome di mio padre, aprite questa porta perché io possa vederlo!»
Trascorse un istante di troppo prima che la richiesta fosse eseguita, tanto che il rossore salì alle guance di Ciro, ma la collera si attenuò quando si udì lo stridio di catene e di sbarre e la porta si aprì, rivelando un lungo cortile interno. Deglutì con sforzo, ma era deciso a non mostrare paura, in quello simile ai suoi spartani.
Senza smontare, Ciro e Tissaferne portarono i loro cavalli nel cortile illuminato dal sole, i cui raggi piano piano diminuivano d’intensità, lasciando spazio alla morbida l...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. IL FALCO DI SPARTA
  4. Prologo
  5. PARTE PRIMA
  6. PARTE SECONDA
  7. Note storiche
  8. Copyright