Paure e Buona Notizia
Che si arrivi a scrivere un libro sull’odio, proprio nella nostra era segnata dalla globalizzazione, e quindi dal mescolamento di etnie, religioni, culture e popoli diversi, può risultare parecchio strano, tanto più se l’autore è un uomo di Chiesa, cioè un uomo di Vangelo, di Buona Notizia. Vorrei rispondere a questo dubbio dichiarando subito le mie intenzioni: non intendo certo solo denunciare, mettere sull’avviso, magari minacciare chi cede all’odio perché si converta; mi interessa molto di più provare a costruire qualcosa, fare un passo in avanti con tutta la mia generazione e puntare sulle nostre risorse migliori, anche dentro noi stessi, per trattare problemi molto gravi e che non intendo minimizzare. Ma che non mi piace affrontare con odio.
Spiego il mio punto di vista con un’efficace parabola, raccontata da un grande testimone, François-Xavier Nguyen Van Thuân, un vescovo vietnamita, in seguito cardinale, che visse per tredici anni in carcere, di cui nove in isolamento, perseguitato dal regime comunista. Raccontava Van Thuân: «Si narra che due dipendenti di una grande fabbrica di scarpe furono inviati in alcuni paesi dell’Africa per sondare le possibilità del mercato. Ritornati al quartier generale dell’azienda, uno dei due disse: “Non c’è alcuna possibilità di mercato: in Africa vanno tutti scalzi”. L’altro disse: “Per noi si apre una grande possibilità di mercato: nessuno ha le scarpe”. Il secondo inviato non era semplicemente un ottimista: aveva gli occhi della speranza e sapeva riconoscere le messi che già biondeggiano anche quando mancano diversi mesi alla mietitura».
Ecco descritta la mia speranza: l’odio che si respira nella nostra società, l’odio che sembra diventato un’ovvia necessità – persino una virtù civile, almeno sulla bocca di qualche voce autorevole – potrebbe rivelarsi non solo una tentazione cui resistere, ma un’occasione preziosa per riscoprire con rinnovata energia il grande valore della fraternità, unico materiale che può rendere solida la nostra casa comune.
Ecco il tema. Vale la pena confrontarsi su questo, penso.
Una miscela esplosiva
Da dove nascono, dunque, queste pagine di riflessione e anche (perché no) di provocazione? In diverse occasioni mi sono sentito fare una domanda che, sul momento, mi ha spiazzato: oggi, intorno a noi, esiste più odio di ieri?
Sgombero subito il campo dall’ambiguità e provo a rispondere partendo da una mia sensazione, che mi piacerebbe fosse smentita dai fatti: sì! Forse davvero oggi abbiamo intorno a noi più odio. E azzardo anche una spiegazione: c’è più odio perché sono più diffuse molte paure (spesso giustificate) ed è maggiore l’ignoranza, due ingredienti che, miscelati insieme, ci tolgono la pace e ci spingono a sospettare, a criticare, ad attaccare (per difenderci) più di un tempo. Per questi motivi – e per altri che qualcuno potrebbe aiutarmi a identificare meglio – la nostra porta di casa è più chiusa, i nostri giudizi più netti e taglienti.
Certo, l’odio ha sempre accompagnato la condizione umana. Secondo la tradizione ebraico-cristiana si tratta del frutto del peccato originale, cioè del profondo sospetto nei confronti di Dio e dei fratelli che portiamo nella nostra anima: la paura che l’altro non voglia il nostro bene. Il male usa la paura per non farci amare il nostro prossimo, l’unico che ci porta alla felicità. Questa paura alimenta la nostra capacità di fare il male e questa scelta ci impedisce di essere pienamente come Dio, cioè di condividere con fiducia il suo amore assoluto. Tutto questo ci separa ancor più dall’altro e, in fondo, anche da noi stessi.
È la condizione umana, e tutti noi – anche tanti intellettuali e filosofi non credenti, laici – la riconosciamo in noi stessi e cerchiamo da sempre di superarla, di farla evolvere. Ma, come è accaduto per le armi, che hanno raggiunto potenzialità distruttive terribili, così anche l’odio, oggi, è un arsenale accumulato in abbondanza nelle relazioni tra gli uomini e custodito nei cuori con uno zelo degno di miglior causa: più ce n’è, meno ci si impegna a cercare di smantellarlo, ma lo alimentiamo e arricchiamo di motivazioni, così che ha raggiunto una capacità di offesa spaventosa. Per questo motivo mi sento interpellato come uomo di Chiesa: in una società in cui l’odio è più presente, anche la fraternità cristiana deve risultare più affascinante e capace di estinguere le contese, di disinnescarle, di renderle meno attraenti.
Siamo quindi facilmente vittime della macchina dell’odio a causa della nostra istintiva paura dell’altro. Ma oggi abbiamo anche un secondo motivo per esserne vittime: esiste un modo preciso in cui il nemico viene costruito, descritto e denigrato davanti ai nostri occhi. A volte mi sembra che sia in atto un processo comunicativo che si svolge in due fasi: in un primo tempo il nostro rivale ci viene presentato in modo tale da farci sentire più fragili di quello che siamo. Ci viene indicato un nemico per allertare e confermare le nostre paure. Poi, una volta “messi sull’avviso”, ci vengono presentate alcune scorciatoie come soluzioni possibili, in alcuni casi addirittura doverose, per non essere annientati.
Sottoposti a questa insistenza, l’odio cresce in noi lentamente ma, facilitato dall’ignoranza che ne è una causa e allo stesso tempo una conseguenza, finisce per imporsi, perché genera un clima esasperato dalla convinzione di trovarci di fronte a una (terribile, ovviamente) “svolta epocale”. Fino agli eccessi di chi prospetta scenari apocalittici, in cui saremmo alle prese con una battaglia per la vita o per la morte, nostra e della nostra civiltà.
Persone responsabili o persone sole?
Un altro mio timore: è possibile che oggi siamo tutti più individualisti, al punto di pensare che tutto inizi e tutto finisca con noi stessi? Schierati in nostra difesa, forse più che mai vogliamo essere sicuri che stiamo facendo il possibile per affermarci, per non essere superati e calpestati? Se le cose stanno così, allora si spiegherebbe perché ci serve spesso un avversario: qualcuno che, secondo il meccanismo ben descritto dal celebre antropologo René Girard – l’individuazione di un capro espiatorio – diventi la causa di tutti, o comunque di molti nostri mali.
Luigi Zoja parla della “morte del prossimo” e Vincenzo Paglia della “crisi del noi”. Come questi acuti osservatori ci aiutano a capire, viviamo in una società in cui l’individuo fa fatica a pensarsi come un essere umano che può realizzare se stesso solo in relazione all’altro. Individui e non persone, in una società in cui il consiglio evangelico «fa’ agli altri quello che vuoi sia fatto a te» – principio di vera e concreta uguaglianza che ci spinge a coltivare relazioni aperte e coinvolgenti – è messo in discussione e viene posto in una luce addirittura sospetta da quella che chiamerei l’idolatria dell’io, l’io-latria, per cui tutto deve essere fatto in relazione a me.
Siamo persone che, oggi più che mai, dimenticano che l’altro è come noi: ha gli stessi sentimenti, le stesse aspirazioni, gli stessi timori, diritti e doveri. Dimentichiamo che possiamo comprenderci e condividere la stessa ricerca di pace, benessere e felicità. Non pensiamo affatto che quello che accade agli altri potrebbe accadere a noi, e dimentichiamo il consiglio evangelico – e umanistico – di preparare nel momento presente un futuro migliore per noi stessi, dando il nostro contributo per il futuro migliore di tutti.
Se confrontiamo quanto ci sta accadendo con le parole di Gesù nel Vangelo di Matteo (Mt 25, 31-46), ci rendiamo conto che forse stiamo vivendo davvero “il giorno del giudizio”, ma al contrario: non visitiamo chi è solo, e quindi restiamo soli. Non doniamo pane e acqua, perché pensiamo che non basti per noi, e per questo non siamo mai sazi. Non accogliamo: è facile che nessuno ci accoglierà quando saremo noi ad averne bisogno.
Invece, è possibile liberarci dall’egocentrismo, per realizzare davvero il nostro io e il suo futuro. L’individualismo esasperato, infatti, prepara un inferno. Con chiarezza l’Abbé Pierre insegnava: «L’inferno non è un tipo di castigo, una sorta di vendetta divina! Sono solo rappresentazioni. È molto peggio: è il momento di chiarezza, di luce piena in cui ognuno si vede così com’è fatto: in comunione o bastante a se stesso; in altre parole, amante degli altri o adorante di se stesso. Io! La mia carriera! Il mio successo! La mia fortuna! “Hai detto di bastare a te stesso? Soddìsfati!” Quella sarà la dannazione. L’inferno non è altro. È essere votati a guardarsi nello specchio così come si è per l’eternità».
Alla ricerca di una via d’uscita
Quando l’uomo non sa più pensarsi “relativo”, cioè in relazione agli altri, e quindi arriva a credere che la soluzione di ogni suo problema consista nell’affermazione del proprio io e nella bulimia che soddisfa la necessità di nutrirlo, l’altro diventa una fastidiosa limitazione al proprio essere e agire, trasformandosi facilmente in un pericolo: cosa pensiamo di questa possibilità? Non dovremmo temere che l’unica modalità con la quale, a quel punto, ci si relaziona con l’altro diventi un rapporto di dominio?
Questi rischi riguardano tutti, credenti e non credenti. Anche la carità cristiana – se non stiamo attenti – può venire depotenziata. Con frequenza è ridotta a buona azione occasionale, senza quel fondamentale legame d’amore che unisce all’altro. Nella visione cristiana dei rapporti umani, infatti, l’altro non è più uno sconosciuto – per il quale si può fare ogni tanto qualcosa di positivo ma sempre, ovviamente, fino a un certo punto –, ma un fratello che non smetti mai di riconoscere e di sostenere con ogni mezzo possibile. Il povero non è un estraneo verso il quale si esercita un po’ di pur utile filantropia: è il “prossimo”, cioè il più vicino; è mio padre, madre, fratello, figlio, per i quali faccio di tutto perché li amo e considero il loro bene come il mio bene. Lo scopro amandolo, altrimenti egli è lontano. Ecco cos’è la carità cristiana ed ecco perché è sempre inquieta, attenta, sollecita. Ma nutre, perché è intelligente e semplice, possibile a tutti, capace di far compiere cose grandi agli umili; esigente e ripagante, coraggiosa come una madre che affronta il mondo intero per difendere suo figlio o come un’amante che non può fare a meno dell’amato. Ecco perché la carità rende dolce quello che appariva amaro, come ci racconta san Francesco a proposito del suo rapporto con i lebbrosi.
Sento il dovere di confermare l’annuncio evangelico fondamentale: senza carità, io credo, resta solo l’amaro della solitudine o l’ingannevole dolcezza di giorni spesi a perdere occasioni di bene.
L’indimenticabile don Camillo di Giovannino Guareschi pregava e dialogava con il crocifisso a proposito di tutti i casi che si trovava ad affrontare, e così insegnava a non dividere lo spirituale dal materiale, l’ortodossia dall’ortoprassi (che prezzo paghiamo quando questo avviene?). In uno dei suoi intensi e personalissimi colloqui, Gesù lo apostrofa dopo che don Camillo ha umiliato alcuni poveri trattandoli con studiata sufficienza perché amici di Peppone: «Carità cristiana non significa dare il superfluo al bisognoso, ma dividere il necessario col bisognoso. San Martino divise il suo mantello col poverello che tremava per il freddo: questa è carità cristiana. E anche quando dividi il tuo unico pane con l’affamato, tu non devi gettarglielo come si getta un osso a un cane. Bisogna dare con umiltà: ringraziare l’affamato di averti concesso di dividere con lui la fame».
La questione è particolarmente seria. E riguarda uno snodo decisivo in una generazione come la nostra, dove spesso il “soggettivo” è la regola: invece di porci il problema di chi sono io, cerchiamo di capire sul serio per chi sono io, per chi vivo, per chi è importante il mio esistere. Gesù ci invita addirittura a rinnegare noi stessi. Questo non significa affatto perdersi o annullarsi nella svalutazione del proprio io, ma affrancarsi dall’involucro appiccicoso, resistente e davvero limitante dell’egoismo, che tende a gonfiarci, a esaltarci, e a metterci in balia della paura di perdere. Liberati, potremo incontrare l’altro e pensarci con il prossimo per essere noi stessi.
Il vero nemico di una vita buona – a mio parere – è un individualismo che riduce ogni realtà alle personali convenienze, all’abitudine a pensarsi da soli, tanto che l’altro diventa a volte un pericolo e un fastidio.
Alle radici della paura: relazioni incompiute
So di non dire niente di particolarmente originale nell’esemplificare alcune conseguenze di un individualismo che rischia di diventare, nella nostra epoca, parossistico. Sono tante, però, le patologie che crescono in individui senza un “noi” e penso possa essere utile guardarci dentro.
Siamo la generazione più connessa della storia, ma anche la più sola. Che il governo britannico abbia scelto di istituire un “Ministero della Solitudine” la dice lunga sullo stato del nostro vivere sociale, così come il dato ISTAT secondo il quale in Italia un nucleo familiare su tre è composto da una persona sola ci parla di una condizione di isolamento reale.
Siamo l’umanità che può scegliere con estrema facilità i propri interlocutori e stabilire senza difficoltà quali possono essere i propri partner (affettivi, relazionali, lavorativi, di relax), ma tutto questo avviene spesso all’insegna di passioni di superficie, cangianti, alle quali ci abbandoniamo davvero solo se pensiamo di poter controllare e limitare le conseguenze, cioè il “prezzo” che l’altro potrebbe chiederci di pagare per amarlo davvero.
Vogliamo essere liberi, ma siamo prigionieri dello spazio e delle cose, catturati dal momento, come nell’agone digitale. Sappiamo così poco andare oltre noi stessi ed entrare nel tempo e nelle relazioni, condotti come siamo dalle correnti emozionali, come se queste, vissute senza amore, non fossero a loro volta parte di un calcolo (fin dove lasciarci andare?) e frutto di convenienze. Vogliamo rapporti veri, ma nel contempo tutto attorno a noi ci spinge a misurare ogni cosa, e questo spegne ogni autenticità.
Nei decenni passati, quando esistevano appartenenze importanti, fisiche o ideologiche (i partiti, i sindacati, i “gruppi”, la famiglia), la regola era la militanza: grande impegno e coinvolgimento personale, abnegazione, sacrificio, desiderio di contribuire personalmente al bene comune, assieme al rischio della collisione con altre militanze. Oggi le appartenenze sono piuttosto digitali, comunque più individualistiche e frammentarie, condizionate da opportunità, affinità iniziali e non verificate, oppure contingenze. Cosa diventa un individualismo di questo genere se non crescono parimenti la responsabilità, la capacità di discernimento e di visione che sono possibili solo in un rapporto con il prossimo?
Anche la diffusa paura di donare vita e di generare deriva in larga parte, a mio modo di vedere, da una paura figlia dell’individualismo e dal timore di una responsabilità diversa da quella dell’attimo presente. L’inverno demografico in cui siamo immersi sconta, certo, la mancanza di servizi adeguati in una società frammentata, e lo spostamento nel futuro dell’assunzione della responsabilità e della limitazione delle proprie libertà personali. Ma è davvero espressione di un grande timore della responsabilità e del futuro.
Soli anche di fronte alle domande ultime
Pensare e parlare della vita oltre la vita, del “dopo di noi”, sembra essere un tradimento dell’io. Per questo la morte sembra ridotta oggi a uno spiacevole incidente da evitare. Pensiamo di allontanare la sua ombra, che rappresenta il più evidente limite del nostro io, semplicemente negandola, chiudendola negli ospedali e affidandola, come esclusiva materia professionale, ai medici e alla scienza. La camuffiamo come le salme abbellite dei funerali americani, cercando di esorcizzarla. Penso che sia urgente reimparare a parlare della vita oltre la vita nelle categorie dell’uomo contemporaneo, onnipotente e fragile. Non si è smesso di parlare del tutto della morte, anche perché comunque, lo si voglia o no, si impone da sola. Ma non sappiamo più parlare di un amore che la vince.
In realtà, forse anche questa è una fuga dall’altro (in questo caso dal nostro destino, che non siamo noi a decidere) e quindi da noi stessi, ed è una fuga che ci rende ancora più fragili. «Ogni volta che l’uomo nega la propria miseria e impotenza – ricordava ancora l’Abbé Pierre – e pretende di bastare a se stesso, egli uccide l’amore, perché ama se stesso. Con l’amicizia bisogna che finisca, che si spezzi, quest’aria di sufficienza, reale o apparente, che ognuno, nelle relazioni con gli altri, si sforza di mostrare per proteggersi. Non vi è possibilità di amicizia, come di amore autentico, se non là dove ci sia povertà di spirito secondo la formula evangelica, ovvero profonda “non sufficienza”».
C’è una solitudine strutturale che si presenta e si ripresenta nella nostra vita. «Quando si muore, si muore soli» cantava Fabrizio De André a una generazione piena di vitalità e di speranza che evitava però il confronto con la fine, e in più casi si è consegnata alla droga e alle tante dipendenze sue sorelle. Quando si muore, si muore soli: è amaramente vero. C’è una condizione di solitudine radicale dell’uomo della quale percepiamo, eccome, l’esistenza, ma alla quale cerchiamo di sfuggire. Non è affatto vero, però, che non ci pensiamo. Non possiamo non pensarci. Lo facciamo spesso in maniera confusa, intima, qualche volta aperta. Però non abbiamo categorie per affrontare questo pensiero con profondità, perché il problema della morte è molto umano, è vasto e spirituale, mentre noi dedichiamo energie inadeguate a queste dimensioni. L’egolatria ci fa sfuggire dalla debolezza e dalla nostra fragilità, perché questa rivela ...