Ho trascorso gli ultimi venticinque anni viaggiando in giro per il mondo e intervistando più di milletrecento grandi artisti, rockstar e musicisti ed è stato grazie al loro esempio e al loro successo che sono stata incoraggiata a scegliere la strada meno battuta, a credere nella magnificenza presente nella vita di ognuno di noi e a fare la mia parte per un mondo migliore, affinché la felicità sia realmente condivisa, perché non esistono esseri umani di serie A ed esseri umani di serie B. Nel 2009 la Commissione Europea mi ha nominato ambasciatrice per un nuovo protocollo sul clima dedicato ai giovani europei durante il Summit di Copenaghen, il COP15. Ed è stato lì, sotto il cielo terso e progressista danese, che ho capito che era arrivato il momento di uscire dalla mia zona di comfort. In prima persona, avrei provato a fare la differenza. Così, nell’ottobre del 2010, ho intrapreso, con la mia famiglia, un’avventura eccezionale con nel cuore un unico intento: quello di rendere il più possibile lieve l’impronta lasciata dai nostri passi su questo pianeta. Un pianeta martoriato che ci urla con voce sempre più forte la sua disperazione per essere così irragionevolmente calpestato da un’umanità che sembra non avere a cuore il suo stesso futuro. Il cambiamento climatico, la continua perdita di biodiversità, gli enormi problemi causati dall’inquinamento sembrano fandonie alle orecchie di molti potenti della Terra ma, grazie al cielo, sono sempre di più le coscienze che a gran voce chiedono di rimettere la salute del pianeta al centro di ogni programma politico ed economico.
La questione ambientale è un’emergenza da decenni e quando ho dato il via al mio audace esperimento ne ero perfettamente consapevole. All’inizio non sapevo proprio cosa aspettarmi, ma le intenzioni erano chiare: per sette mesi, da inizio autunno fino a primavera inoltrata, avremmo vissuto a impatto zero, e di questi sette mesi, tre sarebbero stati ripresi dalle telecamere (per un documentario trasmesso all’interno di un programma condotto da Alex Zanardi su Rai 3). Parlare di impatto zero è scientificamente scorretto, poiché in realtà ogni nostro gesto e ogni nostra azione hanno un impatto ambientale e già dopo quindici giorni avevamo compreso che dire “verso l’impatto zero” sarebbe stato più realistico, più onesto e soprattutto meno impossibile. Rischiavamo che la definizione “impatto zero” ci facesse sentire in difetto, con la sensazione di non fare mai abbastanza perché, di fatto, vivere a impatto zero è impossibile. Forse ci si riesce solo la notte, quando dormiamo, perché respirare dopo tutto non ha nessun impatto sull’ambiente… ma a ben pensarci il pigiama che indossiamo, le lenzuola, le federe dei cuscini, i calzettoni e le coperte ogni tanto andranno pure lavati e allora niente più impatto zero! Beh, allora, mettiamola così: solo dormendo nudi e sul pavimento compiamo una vera azione a impatto zero!
Senza quindi pretendere l’impossibile, ecco cosa chiedevo al mio esperimento: una rivoluzione della mia vita e un cambiamento del mio cuore. Rallentare e vivere più vicino ai ritmi della natura, andare solo in bici per gli spostamenti, aspettare l’approvvigionamento di cibo a chilometro zero, non comprare nulla che non fosse strettamente necessario e passare mesi e mesi a contatore spento hanno rappresentato una bella sfida, soprattutto perché vissuta in un appartamento di una grande città come Milano. Sono stati mesi faticosi, estremamente faticosi, ma meravigliosi. Tornare a casa alle quattro del pomeriggio in pieno inverno, quando fuori era già buio, e trovarsi a lume di candela, preparare la cena, giocare col mio piccolo, chiacchierare un po’ col nonno e, se c’era la possibilità, spedire ancora due mail di lavoro, con le dita veloci sulla tastiera nel timore che l’energia custodita nella batteria del pannello fotovoltaico non ti mollasse a metà, mi hanno fatto vedere la quotidianità da un’altra prospettiva. Tutto andava appreso di nuovo, anche i gesti più semplici e le azioni più ovvie richiedevano una rialfabetizzazione. In inverno, illuminate solo dalla luce delle candele, le giornate diventavano lunghissime, soprattutto la sera quando tutti già dormivano, il computer era scarico e i libri che tentavo disperatamente di leggere erano pieni di cera. A impatto zero diventiamo maldestri. Basta far saltare il contatore e improvvisamente siamo nudi, inermi, non sappiamo fare nulla senza protesi tecnologiche, la nostra protervia viene meno. Non conosciamo noi stessi, la natura, la nostra storia, la cultura dei nostri avi.
In quella solitudine e in quel buio e in quei mesi non potevo fare altro che pensare, e finalmente avevo tanto tempo per pensare. Mi sentivo diventare via via più introspettiva e più ricettiva. I sensi si risvegliano, muta la percezione dei rumori, degli odori. Si affinano il tatto e l’udito, va rimparato l’ascolto di piccoli suoni, la manualità e il saper fare ridiventano decisivi alla sopravvivenza. Da quella dimensione dilatata e profonda, la dimensione mercuriale del vissuto, quella non misurabile dall’orologio, ho ricevuto un regalo: il tempo. E da quel tempo non commerciabile, né vendibile o comprabile come orario di lavoro, ho potuto osservare la mia vita da un altro punto di vista. Un salto mortale. Riconsiderare molti gesti abituali ma soprattutto schemi di pensiero ricorrenti, quelli che ti zavorrano alla routine, le false certezze che t’impediscono l’apertura, tutti quei pensieri autolimitanti che ti minacciano nel cambiamento. Ebbene, nel momento in cui mi sono lasciata andare alla possibilità di rivedere quegli schemi, nel desiderio di superarli, ho avuto la grande certezza che almeno ci stavo provando e che un viaggio lungo mille chilometri parte da un singolo passo.
Così una mattina, all’alba, appena il sole ha fatto capolino, ho appoggiato, accanto al cartello con le tre “r” di RIDURRE, RIUSARE, RICICLARE che campeggiava sul frigorifero dall’inizio della nostra avventura, un altro grande foglio su cui ho scritto con una matita: SE NON FAI PARTE DELLA SOLUZIONE, FAI PARTE DEL PROBLEMA!
Tutti, se lo vogliamo, possiamo far parte della soluzione. So bene che in pochissimi possono concedersi il privilegio di fare lo stesso esperimento che ho fatto io anni fa, perché vincolati da un lavoro a orario pieno, magari anche lontano da casa, o semplicemente perché gravati da troppi impegni. Non importa, si può iniziare lo stesso, ognuno nel suo piccolo, a modificare le proprie abitudini e soprattutto quegli automatismi che non fanno che danneggiare noi stessi e l’ambiente, riuscendo così, gesto dopo gesto, a produrre una vera rivoluzione. Ecco, con questo libro intendo piantare un semino in tutti coloro che lo leggeranno, con la speranza che possano lasciarlo germogliare nella loro vita. Questo libro sogna di essere un seme di alfa alfa, il mio preferito da far germogliare e il cui nome, derivante dall’arabo al-fac-facah, significa: “padre di tutti i cibi”.
Per anni mi sono innamorata di uomini freddi come un’insalata a gennaio. Per buona parte della mia vita, ho amato uomini congelati e scostanti come lasagne precotte del supermercato. Uomini che ho cercato di rendere caldi, buoni e croccanti col mio cuore a forma di forno a microonde, fallendo come si fallisce quando, per troppa fretta, alziamo il fuoco, pur sapendo che è la cottura lenta e seguita con cura a fare la differenza. Soprattutto nelle passioni. Finché un giorno mi sono bruciata tanto, così intensamente, che ho deciso di guardare dentro la mia vita e di riscaldarla, invece che con un uomo, con un brodo caldo per l’anima. Ero finalmente intenzionata a comprendere il sottile meccanismo che mi portava a sopravvalutare la mia capacità di migliorare la vita degli altri sottovalutando la capacità di migliorare la mia. Da quel momento in poi mi sarei davvero presa cura di me stessa, della mia parte più intima e profonda. Avevo bisogno di rallentare e di dare un nome e una spiegazione a tutte quelle volte in cui mettevo in atto azioni che nel breve o nel lungo periodo mi avrebbero nuociuto anziché farmi del bene. Era arrivato il momento di comprendere chi io fossi veramente. Il mio personaggio godeva di stima e di credibilità, ma la mia persona languiva.
Ognuno di noi, nascendo, s’iscrive di diritto in una saga familiare che ha radici profonde. È sempre stato così e sempre così sarà, per ogni essere umano. Con il massimo rispetto per la mia genealogia, volevo fare chiarezza sulla saga familiare alla quale appartenevo. Sapere chi io fossi realmente, indipendentemente da mia madre e mio padre, dalla mia famiglia e dal luogo e dal modo nel quale ero cresciuta, era divenuto di primaria importanza. Come un cercatore d’oro che passa al setaccio il terriccio conservando solo le pepite, ero intenzionata a passare al setaccio la mia esistenza al fine di ripulirmi da tutto quel terriccio che non mi permetteva più di vivere come desideravo, di imparare a custodire e onorare tutte quelle pepite d’oro che erano i doni ricevuti dalla vita e dalla mia famiglia.
La famiglia, quel labile equilibrio di affetti e rancori. Per quanto mi riguardava, era fondamentale cominciare con le “lasagne precotte” di cui sopra. Perché m’innamorassi perdutamente di uomini che, anche se apparentemente molto diversi tra loro, nel giro di qualche mese avrebbero rivelato le stesse caratteristiche, le stesse difficoltà relazionali evocando le stesse sofferenze, per me era ancora un arcano. Gli attori cambiavano ma il copione che faceva declinare la relazione in un triste déjà vu restava identico.
È stato un percorso lungo, un itinerario doloroso in cui tutte le certezze sono crollate, per arrivare infine a capire che non sono mai gli altri, né le contingenze, i luoghi o le situazioni responsabili di come ci sentiamo e delle scelte che compiamo. Il problema non sono mai gli altri, gli altri non ci fanno mai il piacere di cambiare. Come quando da bambini ce la prendiamo con il tavolo o con la sedia sulla quale siamo inciampati, come a ritenerli responsabili della nostra caduta, per sbadataggine o irruenza infantili, così da adulti continuiamo a coccolarci cullandoci tra una situazione e un’altra, addossando la responsabilità delle nostre azioni o di come ci sentiamo a qualcun altro: alla nostra famiglia, alle persone che amiamo, ai nostri colleghi di lavoro. Raramente cogliamo l’occasione di renderci conto che la responsabilità della nostra vita e delle nostre scelte è solo nostra e allora, finalmente, si fa spazio nel nostro cuore incredulo la consapevolezza che abbiamo la chance di cambiare le cose proprio nel momento in cui ce ne facciamo totalmente carico. È liberatorio poter arrivare a crederci e anche estremamente potente: cominci a vivere diversamente e a sentirti protagonista di una vita che appartiene solo a te.
Per me è andata più o meno così e quello che riassumo qui è stato in realtà frutto di un lungo lavoro di introspezione e repulisti che ha portato la mia vita su un altro piano. Non avevo più scelta. O trasformavo le difficoltà o trasformavo me stessa per affrontarle.
Ma fino a quel momento non lo sapevo. Non l’ho saputo fino a quando, una calda sera di luglio, ho visto il padre di mio figlio preparare le valigie per lasciare la nostra casa e allora ho sentito dapprima qualcosa scricchiolare dentro di me e poi irrompere in tutta la sua violenza un dolore antico che chiedeva risarcimento e spiegazione, sovrastandomi.
Mi ero persa.
Era l’inizio.
Ho passato quattro anni senza avere una relazione e quando, una sera a una festa, mi resi conto di essere attratta ancora dalla stessa tipologia di uomini, ho deciso che avrei lucidato il mio specchio per far riflettere una nuova me. Non era più il caso di biasimare lo specchio se era la faccia a essere storta. Non ci sarebbe stato più posto nella mia vita per uomini tristi ed eleganti. L’unico uomo elegante e introverso dal quale ripartire era mio padre. Era lì, a portata di mano, ed era da lui che dovevo ricominciare.
Ho passato quattro anni sola e non da sola, scoprendo la grande differenza che intercorre tra le due situazioni, riappropriandomi di quella solitudine buona che non conoscevo, crescendo mio figlio e scoprendo le grandi risorse che sappiamo tirare fuori noi donne nei momenti di difficoltà, la capacità di resilienza sconosciuta fino a quel momento, la scoperta di un mondo al femminile che da allora è una splendida realtà della mia quotidianità. Un gineceo di vissuti, sofferenze e gioie, di confronti, di scontri e slanci. Una sorellanza attraverso la quale ho imparato a cavarmela da sola, a diventare una mamma migliore e una donna più desiderabile.
Le amiche sorelle. Che grande risorsa e che grande fortuna averle. È stato a loro che ho telefonato alle tre del mattino quando Timo aveva un febbrone che non scendeva, a loro ho chiesto supporto quando le crisi di panico m’impedivano di uscire di casa e sempre a loro ho mostrato la mia vulnerabilità e le mie debolezze. Tate, doule, amiche, madri e sorelle: una famiglia elettiva con la quale festeggiare i primi passi di mio figlio, le sue prime parole e i primi tentativi d’indipendenza. Un confronto profondo e di leggerezza allo stesso tempo. Intenso e creativo. Noi donne governeremmo il mondo se tutti i giorni esercitassimo il potere di coesione che sa sgorgare dalle nostre vite nei momenti del bisogno. Se non sprecassimo tempo a guardare se il colore dello smalto di un’altra sia alla moda o no, saremmo le depositarie di un regno. Amo le donne per definizione e finalmente, con il cuore colmo, era giunto il momento di aprire la mente e il cuore all’amore vero.
“Diventa l’uomo che vuoi incontrare, fai crescere in te le caratteristiche che vuoi trovare nella persona da amare e vedrai che si manifesterà davanti ai tuoi occhi.” Non so quante migliaia di volte io mi sia ripetuta questa frase. Prima o poi l’uomo della mia vita sarebbe giunto. E, seguendo la mia antica passione di paragonare le persone a delle pietanze, ecco come lo immaginavo: generoso come un albero di frutti succulenti, dolce come un biancomangiare alle mandorle, caldo come una zuppa di miso in pieno inverno ed energizzante come quelle barrette di cioccolato da portare sempre in tasca. Raramente accostare le caratteristiche culinarie di un piatto a una persona mi aveva fatto sbagliare sulle sue qualità umane e questa volta, ne ero certa, il biancomangiare alle mandorle non mi avrebbe tradita!
Il cibo, nella mia vita, è sempre stato il collante, il collegamento tra il mio mondo interiore e il mondo esteriore. Il cibo è la chance per cambiare, per imparare a dare il giusto nutrimento al nostro corpo, il nostro tempio, l’unico che abbiamo in questa vita per evolverci e attraverso il quale diventare esseri umani migliori.
Quando ho deciso di provare a vivere verso l’impatto zero, la cura per me stessa e per il cibo, inteso come nutrimento profondo, sono stati il motore propulsore per realizzare questa esperienza. Intuivo che la possibilità di vivere più lentamente mi avrebbe permesso di tornare ad assaporare attimo per attimo quei tempi fisiologici e naturali necessari per far sedimentare la vita che sì corre in fretta, ma mai così in fretta da non lasciarci il tempo, se lo vogliamo veramente, di comprendere più profondamente chi siamo e in che direzione stiamo andando. Lavoriamo per vivere o viviamo per lavorare? Perché non abbiamo mai tempo da dedicare a noi stessi? E noi donne, apparteniamo davvero alla categoria delle multitasking, su più fronti contemporaneamente e sempre connesse? La mia mente affastellava mille domande, ma di una cosa ero certa: decidevo di scegliere e di credere in un mondo migliore attraverso l’azione, attraverso la consapevolezza che, ogni giorno, ogni nostro gesto e ogni nostro acquisto hanno un impatto sull’ambiente. Io avrei cominciato questa mia rivoluzione pacific...