
eBook - ePub
Il sistema sanitario nei giorni del Covid-19
Cosa ha funzionato e cosa è andato storto
- 68 pagine
- Italian
- ePUB (disponibile sull'app)
- Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub
Il sistema sanitario nei giorni del Covid-19
Cosa ha funzionato e cosa è andato storto
Informazioni su questo libro
La cronaca di tutto quello che è successo durante i terribili giorni della pandemia si mescola alle voci e alla testimonianze struggenti dei protagonisti, medici in trincea, infermieri, ma anche alle analisi e alle interviste degli esperti, dei virologi, di chi aveva avvisato dei rischi e che non è stato ascoltato per tempo.
Domande frequenti
Sì, puoi annullare l'abbonamento in qualsiasi momento dalla sezione Abbonamento nelle impostazioni del tuo account sul sito web di Perlego. L'abbonamento rimarrà attivo fino alla fine del periodo di fatturazione in corso. Scopri come annullare l'abbonamento.
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Perlego offre due piani: Base e Completo
- Base è ideale per studenti e professionisti che amano esplorare un’ampia varietà di argomenti. Accedi alla Biblioteca Base con oltre 800.000 titoli affidabili e best-seller in business, crescita personale e discipline umanistiche. Include tempo di lettura illimitato e voce Read Aloud standard.
- Completo: Perfetto per studenti avanzati e ricercatori che necessitano di accesso completo e senza restrizioni. Sblocca oltre 1,4 milioni di libri in centinaia di argomenti, inclusi titoli accademici e specializzati. Il piano Completo include anche funzionalità avanzate come Premium Read Aloud e Research Assistant.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì! Puoi usare l’app Perlego sia su dispositivi iOS che Android per leggere in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo — anche offline. Perfetta per i tragitti o quando sei in movimento.
Nota che non possiamo supportare dispositivi con iOS 13 o Android 7 o versioni precedenti. Scopri di più sull’utilizzo dell’app.
Nota che non possiamo supportare dispositivi con iOS 13 o Android 7 o versioni precedenti. Scopri di più sull’utilizzo dell’app.
Sì, puoi accedere a Il sistema sanitario nei giorni del Covid-19 di Riccardo Iacona in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Scienze sociali e Studi sullo sviluppo globale. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.
Informazioni
Argomento
Scienze socialiCategoria
Studi sullo sviluppo globaleLa trincea
«Se mi chiede com’era la situazione all’inizio, dopo il primo caso di Codogno, le rispondo che non sapevamo proprio cosa stava succedendo. Sì, leggevamo le notizie che arrivavano dalla provincia di Lodi ma, nonostante fosse così vicino, sembravano cose lontane e comunque in ospedale non c’era un’idea chiara di quello che stava per succedere.» Chi parla è un’infermiera che lavora in un piccolo ospedale nella provincia di Bergamo. Mi ha chiesto di non rivelare il suo nome. Per essere intervistata avrebbe bisogno dell’autorizzazione della direzione sanitaria e non è sicura di ottenerla. Dopo le prime settimane sconvolgenti dell’epidemia in Lombardia, quando le cronache di giornali e tv erano piene di testimonianze degli operatori sanitari che stavano affrontando, a “mani nude” e senza l’adeguata preparazione, le migliaia di persone che si erano presentate ai pronto soccorso delle strutture ospedaliere della Regione, c’è stata una stretta sulla comunicazione e molti medici e infermieri sono stati richiamati per aver parlato con la stampa senza essere stati autorizzati. Il quadro che mi consegna l’infermiera è quello di un’assoluta impreparazione iniziale, dal basso e dall’alto: «Non sapevamo nulla, se stava per diventare un’epidemia importante o se sarebbe rimasta una cosa contenuta. Molti medici dell’ospedale ci rassicuravano perché, sostenevano, si trattava di una semplice influenza o poco più, mentre altri erano molto preoccupati ma, soprattutto, in ospedale non avevamo idea di cosa avrebbe portato il Coronavirus».
«Ma non erano arrivate indicazioni dalla direzione sanitaria?» le chiedo.
«No, non c’erano indicazioni chiare. E soprattutto la cosa che è mancata fin da subito è una logistica adatta, non c’erano due percorsi all’interno dell’ospedale, diciamo uno pulito e l’altro sporco per il Coronavirus, percorsi che tra l’altro non sono mai stati identificati, se non pochi giorni fa. Pensi che fino all’altro ieri, e ormai siamo a metà aprile, a un mese e mezzo dall’inizio dell’epidemia, ci siamo vestiti e svestiti nello stesso ambiente, e questa è la cosa più sbagliata che esista: ci vuole un locale pulito dove ci si veste e uno sporco dove si tolgono le cose sporche, e questo purtroppo non è mai stato fatto, anche se l’abbiamo segnalato più volte.» Nel pronto soccorso del piccolo ospedale, dove prima della comparsa del Coronavirus c’erano al massimo 40 persone, improvvisamente, sin dal primo giorno dell’emergenza, arrivano portate dalle ambulanze centinaia di persone contagiate, che invadono ogni spazio disponibile: «Nei primi giorni i malati arrivavano accompagnati anche dai parenti, poi, per evitare che si contagiassero tutti, abbiamo adottato la regola di far aspettare i pazienti fuori all’aperto e infine gli abbiamo detto di non venire proprio e anche i soccorritori che li andavano a prendere con l’ambulanza erano informati che non dovevano far salire i parenti con loro. Il problema, però, è che non avevamo posti dove ricoverare tutti i pazienti Covid che arrivavano,» continua il suo racconto l’infermiera «e quindi le persone restavano giorni e giorni nel pronto soccorso…».
«E voi avevate all’inizio i dispositivi di protezione individuale?»
«Sì, li abbiamo sempre avuti, ma misurati. Avevamo a testa un camice, la mascherina e i guanti che dovevamo far durare tutto il giorno. La regola invece vuole che se ti togli una mascherina durante il turno poi la dovresti cambiare, ma non ce n’erano altre. Solo nel mio reparto si sono ammalati di Covid-19 2 medici, 5 infermieri e un operatore sanitario.»
La situazione nel piccolo ospedale della provincia di Bergamo si aggrava giorno dopo giorno. Fino a metà marzo, mi racconta l’infermiera, arrivano ambulanze una dietro l’altra. Vengono chiuse tutte le specialità della struttura ospedaliera per ospitare i malati Covid-19 che sono dappertutto, nel pronto soccorso, dentro l’unico reparto di medicina, persino nei corridoi: «Mentre passavo in corridoio per andare da una sala all’altra per prendere del materiale c’erano decine di barelle ai lati del corridoio, a destra e a sinistra, e tutti mi fermavano perché avevano bisogno di qualcosa, chi l’acqua, chi non riusciva a respirare, e io non potevo rispondere a tutti, ci concentravamo sulle urgenze più importanti». Sono tanti i ricoverati in gravi condizioni, che non riescono a respirare e hanno bisogno di ossigeno: «Noi di prese al muro per l’ossigeno avevamo quelle che ci servivano nell’attività ordinaria, troppo poche per tutti quei malati con gravi insufficienze respiratorie, e quindi dipendevamo dalle bombole di ossigeno, ma eravamo sempre al limite. È capitato che ci restassero solo 2 o 3 bombole, mentre aspettavamo che arrivassero le altre. Ma dovevamo farcela lo stesso con quello che avevamo, perché non potevamo mandarli in altri ospedali di Bergamo o della regione, più grandi e attrezzati, perché anche quelli erano pieni».
Anche i pazienti meno gravi, che si sarebbe potuti dimettere, rimangono nel piccolo ospedale, perché fuori la rete sanitaria del territorio nel frattempo è completamente saltata. «Molti medici di base si erano ammalati di Covid-19 e non erano stati sostituiti e anche le cooperative che facevano l’assistenza a domicilio avevano il personale sanitario contagiato e malato. Persino i ricoverati che non erano così gravi, che avevano bisogno solo di due litri di ossigeno da usare a casa, non riuscivamo a mandarli via, perché di bombole di ossigeno sul territorio non ce n’erano più. Quindi, prima di dimettere un paziente dal pronto soccorso dovevo accertarmi che i suoi parenti trovassero una bombola di ossigeno o chiamavo io direttamente le farmacie del territorio, però tante volte la risposta era: “Mi dispiace, ma ho davanti a me una fila di 20 persone che chiedono l’ossigeno, quando le abbiamo vi chiamiamo” e dovevamo aspettare-»
Nel frattempo, nel piccolo ospedale ogni giorno si contavano i morti: «Non so dirle le cifre, ma morivano in tanti. Una notte nel reparto di Medicina ne sono morti 10 in poche ore. Il fatto è che da noi non ci sono le terapie intensive, potevamo al massimo intubare i malati più gravi e dargli l’ossigeno. Non potevamo nemmeno trasferirli tutti a Bergamo, perché anche lì le terapie intensive erano occupate. Ogni tanto si liberava qualche posto e allora eravamo costretti a fare una scelta su chi mandare, in base all’età. Una persona di 80 anni, magari con più patologie, non la trasferivamo a Bergamo. Ci andavano quelli più giovani, che avevano più possibilità di farcela».
Nell’ospedale dove lavora l’infermiera che ha parlato con me la pressione si è un po’ allentata solo da pochi giorni, ma quello che ha vissuto lei sono scene da medicina di guerra: come chiamarla altrimenti, quando sei chiamato a scegliere tra chi provare a salvare e chi abbandonare al proprio destino? E non è successo solo nei piccoli ospedali della provincia.
Il 21 marzo del 2020 su un’importante rivista scientifica inglese, «New England Journal of Medicine» esce una lettera firmata da un gruppo di medici dell’ospedale papa Giovanni XXIII3.
Nuovo di zecca, perché inaugurato nel 2012, l’ospedale è stato progettato dall’archistar Aymeric Zublena, ideatore anche dell’ospedale Pompidou di Parigi, ed è composto da 7 torri di 5 piani, ciascuna delle quali è unita a un’unica piastra centrale e ospita 36 sale operatorie, 226 ambulatori, con 900 posti letto e un eliporto. Senza dubbio una delle più grandi strutture ospedaliere di Regione Lombardia e punto di riferimento per tutte le specialità mediche per Bergamo e provincia. La lettera è così drammatica che tempo pochi giorni viene tradotta dall’inglese e finisce in prima pagina su tutti i giornali e le testate online italiane: «Lavoriamo all’ospedale papa Giovanni XXIII di Bergamo, una struttura all’avanguardia con 48 posti di terapia intensiva. Nonostante Bergamo sia una città relativamente piccola, è l’epicentro dell’epidemia con 4305 casi, più di Milano e di qualsiasi altro comune nel paese» comincia così lo scritto dei medici italiani di Bergamo. Poi prosegue: «Il nostro ospedale è altamente contaminato e siamo già oltre il punto del collasso. 300 letti su 900 sono occupati da malati di Covid-19. Più del 70 percento dei posti in terapia intensiva sono riservati ai malati gravi di Covid-19, che abbiano una ragionevole speranza di sopravvivere. La situazione è così grave che siamo costretti a operare ben al di sotto dei nostri standard di cura. I tempi di attesa per un posto in terapia intensiva durano ore. I pazienti più anziani non vengono rianimati e muoiono in solitudine senza neanche il conforto di appropriate cure palliative. Le famiglie non possono avere alcun contatto con i malati terminali e sono avvisate del decesso dei loro cari per telefono, da medici benintenzionati ma esausti ed emotivamente distrutti. Nelle zone circostanti la situazione è anche peggiore. Gli ospedali sono sovraffollati e prossimi al collasso, e mancano le medicazioni, i ventilatori meccanici, l’ossigeno e le mascherine e le tute protettive per il personale sanitario. I pazienti giacciono su materassi appoggiati sul pavimento…». La lettera continua denunciando che sono bastate poche settimane di emergenza perché il Covid-19 dilagasse anche all’interno delle stesse strutture sanitarie che erano deputate a contenerlo, curarlo, combatterlo: «Stiamo imparando che gli ospedali possono essere i principali veicoli di trasmissione del Covid-19, poiché si riempiono rapidamente di malati infetti che contagiano i pazienti non infetti. Lo stesso sistema sanitario regionale contribuisce alla diffusione del contagio, perché le ambulanze e il personale sanitario diventano rapidamente dei vettori. I sanitari sono portatori asintomatici della malattia o ammalati senza alcuna sorveglianza». E la lettera si chiude con questa frase: «La catastrofe che sta travolgendo la ricca Lombardia potrebbe verificarsi ovunque».
Mirco Nacoti, rianimatore anestesista dell’ospedale papa Giovanni XXIII è uno dei firmatari della lettera. «Lei consideri che fino a fine febbraio ero in sala operatoria nel mio reparto, io stavo in pediatria. Poi, improvvisamente, mi hanno detto di rientrare nelle terapie intensive, che si stavano riempiendo di pazienti Covid. Vado lì. Dopo dieci minuti ho cominciato ad avere il terrore perché era pieno di pazienti arrivati con le ambulanze e tutti lavoravano in modo improprio. Mi ferma un medico e mi dice: “Sai che un nostro collega è già a casa per il Covid?”. Era il 25 febbraio e stava già a casa perché aveva contratto il virus?! Mi sono detto: Mamma mia, ma cosa sta succedendo? È chiaro che la situazione era già fuori controllo, l’epidemia era cominciata molto tempo prima, e anche la consapevolezza dei miei colleghi sul pericolo del contagio era totalmente assente.»
«Io mi rendo conto della gravità di quello che sta succedendo, dai messaggi che mi arrivano da dentro gli ospedali da parte di medici, anestesisti e primari che stanno in prima linea e che sono disperati,» mi dice Giorgio Gori, sindaco di Bergamo «mi scrivono che la situazione è disastrosa e che non ci sono neanche più le condizioni per lavorare in sicurezza. E capisco che negli ospedali succedono cose che tutti noi fuori non sappiamo e neanche ci saremmo immaginate possibili nel nostro servizio sanitario, il fatto, cioè, che tante persone non vengano neanche più curate. È successo qui a Bergamo, ma in tutta la Lombardia» continua il sindaco. «Non c’erano mezzi per curare tutti, e quindi i medici sono stati costretti tragicamente a scegliere chi curare e chi no: sulla base dell’età dei pazienti, del loro quadro clinico complessivo e delle aspettative di vita. Scelte drammatiche, ma necessarie perché non c’erano ventilatori polmonari per tutti quanti…»
«Lei ha testimonianze precise e circostanziate su quello che mi sta dicendo?» lo interrompo.
«Sì, me lo comunicano i medici ma anche persone che conosco che m...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Il sistema sanitario nei giorni del Covid-19
- Covid-19, una malattia orribile
- Il virus “bastardo” ferma il Nord
- Il Coronavirus sfida la politica del mondo intero
- La sindrome cinese
- Chi ci doveva pensare prima che scoppiasse l’epidemia, il governo o le regioni?
- Il Piano pandemico “fantasma”della Regione Lombardia
- La trincea
- A Bergamo e provincia i conti non tornano
- Conclusione? No, questo è solo l’inizio!
- Copyright