La profezia dei Giudei si era compiuta. Il re del Nord aveva sconfitto il re del Sud. I confini di Roma diventavano sempre più numerosi, e sempre più instabili, quindi pericolosi. Io continuavo a pensare all’Hispania. L’oro e l’argento di quel territorio erano essenziali per la nostra economia, per poter finanziare gli enormi costi delle battaglie, come quelle in Grecia e in Macedonia, dove Flaminino aveva ottenuto una grande vittoria su Filippo V, a Cinoscefale. Il re di Macedonia era stato costretto a ritirarsi e a lasciare che instaurassimo i nostri domini in Illiria, ma il mondo continuava a essere nel caos.
Catone, da parte sua, continuava ad avanzare nel suo cursus honorum. Da questore a edile di Roma, da edile a pretore. Io potevo solamente evitare che gli venisse assegnata una provincia ispanica, ma Catone era tenace oltre l’immaginabile. Era deciso a diventare console e contava su molti appoggi in Senato. Tutti coloro che mi invidiavano si univano a lui, e Catone continuava a tentare in tutti i modi di essere inviato in Hispania. Dovevo evitarlo a ogni costo, ma la situazione stava diventando via via più complicata.
In quel momento, con mia grande ingenuità, mi concentrai sui confini di Roma con l’Hispania in Occidente, con la Gallia nel Nord, con Filippo in Oriente e con Cartagine nel Sud, senza rendermi conto che le frontiere più pericolose erano quelle interne: il Senato stesso e gli intrighi di Catone.
Nonostante ciò, mi sentivo forte. Perfino quando perdevo importanti dibattiti in Senato trovavo il modo di restituire il colpo e recuperare il terreno perduto. Credevo che ogni contrattacco mi avrebbe restituito la posizione di potere precedente, invece ogni votazione persa, ogni disputa che mi vedeva sconfitto, danneggiava non solo me, ma anche coloro che mi appoggiavano.
Intanto, Siria, Egitto, Cartagine, Pergamo erano nel caos, e noi non ce ne accorgevamo.
Cartagine
Gennaio del 196 a.C.
Sei anni dopo la sconfitta di Zama, Annibale era riuscito a essere eletto sufeta di Cartagine. L’elezione era stata complessa poiché il Senato cartaginese era profondamente diviso tra coloro che appoggiavano i Barca e i loro piani per restaurare la città, violando i limiti imposti da Roma dopo la guerra, e i senatori che insieme al Consiglio degli Anziani preferivano un recupero più lento ma volto a non riaccendere i dissapori con la città del Tevere. Comunque sia, Annibale era uscito vincitore dal Senato punico, grazie alla sua grande popolarità tra i cittadini stanchi di pagare le tasse esagerate imposte negli ultimi anni per racimolare l’immensa somma in oro e in argento da consegnare ai Romani per i risarcimenti della guerra.
Annibale assunse il nuovo incarico con l’attitudine che i suoi nemici politici temevano: come un torrente in piena che minacciava di travolgere tutto ciò che loro avevano realizzato negli ultimi anni di amministrazione controllata dal Consiglio, il quale, mediante manovre corrotte, aveva manipolato le finanze dello Stato a favore dei potenti oligarchi di Cartagine. Alcuni membri del Consiglio, durante i loro dibattiti segreti, avevano mostrato di confidare nel fatto che l’inesperienza amministrativa di Annibale lo portasse alla rovina, con la sua ingenua pretesa di scovare le falle del sistema che avevano impedito, anno dopo anno, di pagare completamente gli indennizzi a Roma. Ma altri Anziani, più prudenti, avevano evitato di pronunciarsi e preferirono aspettare di vedere come se la sarebbe cavata il capo dei Barca nella gestione del suo governo.
Con sorpresa di tutti, Annibale attese solo qualche giorno prima di convocare il questore generale di Cartagine.
Il nuovo sufeta attendeva dall’alba l’arrivo del contabile responsabile delle finanze dello Stato degli ultimi anni, ma questi, con un atto dichiaratamente ostile nei confronti dei Barca, decise di non presentarsi all’appuntamento richiesto da Annibale e inviò un messaggio carico di diffidenza e disprezzo. Un soldato nervoso recapitò al sufeta di Cartagine la tavoletta mandata dal questore.
Annibale la lesse lentamente e poi l’appoggiò sul tavolo situato alla sua destra, sul quale c’erano una caraffa di acqua e una coppa. Si servì e bevve tutto d’un fiato. Era una mattina calda nonostante fosse inverno e nella stanza assegnata al sufeta per ricevere i rappresentanti dello Stato, del Consiglio dei giudici o qualunque altro funzionario pubblico, non c’era un filo d’aria.
L’acqua gli fece bene. Insieme ad Annibale c’erano Maarbale, in piedi, a un lato della sala, e, in fondo, una mezza dozzina di soldati armati selezionati dallo stesso Maarbale tra i veterani sopravvissuti alle campagne in Iberia, Italia e Zama. Non erano in molti a essere scampati a un più comune destino di morte, ma quel centinaio di uomini, tra Cartaginesi, Numidi, Iberici e Galli, si era costituito nella guardia personale del sufeta e lo scortava in ogni suo spostamento per la città.
Annibale appoggiò la coppa vuota sul tavolo e si rivolse a Maarbale.
«Il questore non verrà.»
Maarbale si sentiva obbligato a dire qualcosa, soprattutto perché la voce del generale trasmetteva una profonda delusione.
«È questo ciò che il messaggio trasmette?»
Annibale annuì, aggiungendo una spiegazione.
«Il questore si difende affermando di essere responsabile solo di fronte al Consiglio degli Anziani.» E sorrise mentre si versava un’altra coppa d’acqua. «Scrive che se voglio convocarlo devo fare richiesta al Consiglio.»
«Il Consiglio non intercederà mai.»
«No.» Il sufeta bevve la sua seconda coppa d’acqua. «Non lo convocheranno affinché risponda davanti a me per non aver fatto altro che evitare che i membri del Consiglio e i suoi senatori pagassero le imposte per soddisfare i pagamenti che si dovevano a Roma e, piuttosto, aumentare le tasse al popolo per compensare la mancanza di denaro.» Sospirò. «Non credo che otterremo granché in questo modo.»
Annibale si sedette di fianco al tavolo.
Maarbale non sapeva cosa dire, così rispose con un banale commento per rompere il silenzio.
«Devono essere giorni che l’aria non circola in questa stanza.»
Annibale, seduto, immobile, guardandolo dall’unico occhio sano gli rispose chiaro e risoluto: «L’aria, Maarbale, non circola né in questa stanza né in tutta Cartagine da anni. È aria malsana, corrotta e ci sta asfissiando tutti, non conta quante finestre si aprano. Ma questa situazione deve cambiare, da oggi stesso.» E sollevò lo sguardo, senza muoversi di un millimetro, guardando Maarbale di sbieco. «Prendi con te alcuni uomini e va’ ad arrestare il questore.»
L’altro deglutì.
«Con quale accusa? La legge è dalla sua parte, se non si è presentato…»
Annibale, senza distogliere lo sguardo, lo interruppe bruscamente.
«Accusa di malversazione di denaro dello Stato…» Ma poi, non soddisfatto, rincarò la dose: «E accusa di tradimento».
La pena per il tradimento era la morte. Maarbale guardò Annibale con gli occhi spalancati. I soldati sulla porta, udendo la conversazione, si fecero ancora più immobili di quanto già non fossero, trattenendo il respiro.
Il sufeta di Cartagine, dopo che Maarbale si fu congedato da lui militarmente per andare a eseguire l’ordine, cominciò a riflettere tra sé e sé, consapevole di aver dato il via a una nuova guerra, una guerra civile celata, non dichiarata, senza alcuna concessione e dal finale incerto. Ma qualunque cosa fosse successa, sarebbe stato meglio che rimanere con le mani in mano.
La reazione del Consiglio dei Cento non si fece attendere e già la mattina seguente gli Anziani convocarono il Senato della città. Vari senatori, sostenitori del Consiglio e della loro forma di governo dopo la sconfitta contro Roma, si lanciarono all’attacco imprecando contro il nuovo sufeta. Annibale ascoltava in silenzio, seduto su una delle panche laterali del conclave. Attendeva con pazienza che tutti terminassero i propri discorsi di rito contro i nemici politici. Lo accusarono di tutto: di alterare le finanze statali e di voler mettere il popolo contro il Consiglio imputando al questore malversazione e tradimento. Gli intimarono inoltre di ritirare le accuse e di liberare il responsabile delle finanze, un venerabile funzionario che l’anno seguente, in accordo con le leggi della città, sarebbe entrato a far parte del Consiglio come membro a pieno diritto e con carattere vitalizio, come tutti gli Anziani che godevano dei privilegi della carica a vita.
Durante quella sfilza di attacchi alla sua persona, Annibale non replicò mai, non lanciò nemmeno un’occhiataccia; ascoltò con attenzione mantenendo un’espressione seria, ferma, risoluta. Alla fine, prese la parola. Si alzò e si situò al centro del grande Senato di Cartagine. Girò su se stesso a 360 gradi passando lo sguardo su ognuno dei volti dei senatori. Molti dei quali nemici.
«Senatori di Cartagine» cominciò con il tono potente di chi è abituato a impartire ordini militari ai soldati prima di una battaglia. «Senatori di Cartagine, io servo la mia patria dalla nascita. Prima in Iberia, dove ho prosciugato le miniere d’oro e d’argento per riempire le arche dello Stato; poi in Italia, dove ho causato talmente tanto danno al nostro eterno nemico che questi ancora ci teme e ci nega la possibilità di disporre di una flotta o dei soldati necessari per difendere i nostri confini; e infine ho servito qui, in Africa, dove ho combattuto contro i Romani con le forze che avete disposto sotto il mio comando. Due dei miei fratelli sono stati uccisi in battaglia, e così mio padre; ho perduto un occhio, ho il corpo ricoperto da mille ferite, a Sagunto sono stato attraversato da una lancia, ma di tutto ciò non mi sono mai lamentato, poiché si tratta di sofferenze patite con l’orgoglio di chi ha servito la propria patria. Pur tuttavia, ora devo sopportare pazientemente che mi si accusi di tradimento, da parte di persone che non possono esibire né una sola cicatrice di guerra né un solo graffio, fossero anche stati causati dalle loro stesse menzogne e diffamazioni.»
Il Senato reagì con un marasma di grida che piovvero come grandine su Annibale, che da lì, in piedi, con le mani sui fianchi, esplose improvvisamente in un urlo che riuscì a superare il volume di quella baraonda.
«Le grida non mi hanno mai spaventato e quelle dei codardi ancor meno! Il questore è in carcere e lì resterà, per aver mentito ai cittadini cartaginesi, per aver occultato i conti dello Stato a favore di pochi ricchi privilegiati, come i senatori e i membri del Consiglio che da anni non contribuiscono al pagamento dei risarcimenti di guerra per Roma!»
Ripresero le grida da parte di tutti, compreso Annibale, il quale, sorprendentemente, riuscì infine a far tacere gli altri, proprio dicendo la verità.
«Molti di coloro che mi stanno insultando non stanno pagando lo Stato! E io vi chiedo, per Baal, io vi chiedo: cosa succederà quando il popolo saprà di queste malversazioni? A me potete raccontare quello che vi pare, ma cosa direte ai Cartaginesi, ai lavoratori, ai commercianti, agli artigiani, ai pescatori, ai soldati, cosa racconterete alle donne e ai bambini, a tutti coloro da cui state esigendo sacrifici enormi da anni, sempre più sforzi per pagare un indennizzo al quale proprio voi, voi che possedete più di tutti, non avete mai contribuito?»
E Annibale tacque, per ascoltare un silenzio che in quel Senato non si udiva da vent’anni, da quando Quinto Fabio Massimo aveva dichiarato loro guerra; da quel momento, non si era più vista una sessione tanto burrascosa come quella che stava avendo corso.
«Adesso tacete? Avete perso la parola? Ho già informato vari rappresentanti dell’Assemblea del Popolo su ciò che è accaduto con i conti statali negli ultimi anni e sarà davanti al popolo cartaginese che il Consiglio e molti di voi dovranno rendere conto. Ora, io farò due cose: per prima, esigerò i pagamenti pendenti dal Consiglio e da chi di voi li ha evitati per sei anni, e fino a quando non sarà stata recuperata fino all’ultima moneta non si richiederà più alcuna tassa ai cittadini; con il denaro che riscuoterò soddisferò le richieste di Roma, dopo di che potrò cominciare a ricostruire il potere di Cartagine. Poi…» Annibale s’interruppe vedendo che molti senatori scuotevano la testa, e non esitò a intervenire prima di continuare con la sua seconda e audace proposta. «È inutile che neghiate scuotendo la testa, poiché invierò gli stessi soldati che hanno arrestato il questore nelle vostre case, le passerò una a una, fino a quando le arche dello Stato non avranno ricevuto tutto il denaro che si sarebbe dovuto accumulare in questi anni, e…»
Si sollevarono altri insulti e grida, ai quali Annibale rispose gridando la sua seconda proposta a un volume di voce altissimo, abituato com’era a fare udire i propri discorsi in ampie pianure, o strette vallate, contro il vento, sotto la pioggia e le tormente.
«E in secondo luogo approverò una legge per la quale i membri del Consiglio degli Anziani saranno eletti annualmente e senza la possibilità di ripetere l’incarico! Approverò la legge e l’intero Consiglio verrà rimpiazzato!»
A questo punto gli insulti dei senatori divennero brutali, ma una dozzina di soldati degli eserciti di Annibale circondò il generale e lo scortò all’uscita. Annibale nemmeno si voltò indietro. Non si stupì assolutamente della reazione dei senatori e nemmeno gli importava. Sapeva che non era quel Senato il luogo dove poter attuare le riforme. Il popolo di Cartagine, e solo il popolo, poteva aprire una finestra verso il futuro e cambiare, finalmente, l’aria.
Era calata la notte, e l’anziano Annone, ben protetto da una decina di soldati favore...