Mai dire ma
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Mai dire ma

  1. 352 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

COME DIVENTARE LA VERSIONE MIGLIORE DI NOI STESSI
Un buon leader non cerca scuse: trova sempre un modo di fare le cose. Se non metti nulla in discussione, nulla migliorerà. L'esitazione è un nemico che fa perdere opportunità. L'ego annebbia e distrugge ogni cosa. Disciplina significa libertà: metti la sveglia e buttati giù dal letto appena suona. Non arrenderti. E soprattutto, mai, ma proprio mai, dire ma. Questa è la regola aurea per avere successo nella vita e nel lavoro: assumersi la responsabilità degli errori e non scaricare la colpa sugli altri o sulle circostanze. Sia nelle relazioni personali che sul lavoro, con i colleghi o i sottoposti, il vero leader è colui che si chiede sempre: cosa potevo fare io, dove ho sbagliato, cosa posso fare per migliorare. Solo così si costruisce un buon team e si arriva al successo. Sono semplici, ma non facili, le regole imparate e testate sul campo - e che campi, quelli più caldi del pianeta - dagli ufficiali dei Navy seal Jocko Willink e Leif Babin, e se applicate portano alla vittoria. Dopo averle sperimentate con successo in battaglia e poi come istruttori nel corso di addestramento più duro che esista, quello per Navy seal, e dopo averle insegnate a migliaia di persone nei loro incontri di coaching, ora vogliono condividerle con tutti, insieme ad aneddoti tratti dalla loro esperienza di comandanti di alcune delle più pericolose e premiate missioni. Perché ciascuno possa vincere nella propria arena: lavoro, studio, vita privata.

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Informazioni

PARTE PRIMA

VINCERE LA GUERRA INTERNA

1

Responsabilità totale

Jocko Willink

Quartiere di Mala’ab, Ramadi, Iraq: nebbia di guerra

La prima luce del mattino era offuscata da una vera e propria nebbia di guerra che gravava come una cappa nell’aria: fuliggine proveniente dagli pneumatici che i guerriglieri avevano incendiato per le strade, nuvole di polvere sollevate dai carri armati e dagli Humvee americani e particelle di cemento provenienti dagli edifici sbriciolati dal fuoco delle mitragliatrici. Mentre il nostro Humvee corazzato svoltava l’angolo e avanzava in direzione degli spari, vidi in mezzo alla strada un carro armato americano M1A2 Abrams con la torretta della mitragliatrice pesante puntata a distanza ravvicinata su un edificio. Attraverso la polvere scorsi una nebbiolina rossa proveniente senza ombra di dubbio da una granata fumogena che le forze americane usavano per chiedere aiuto.
La mia mente si mise a correre. Era la nostra prima operazione importante a Ramadi e il caos era totale. A parte la nebbia di guerra vera e propria che ci impediva di vedere, eravamo avvolti dalla “nebbia di guerra” metaforica, un’espressione spesso attribuita al teorico militare prussiano Carl von Clausewitz1: una cappa di confusione, informazioni imprecise, comunicazioni interrotte e caos. Per questa operazione avevamo quattro distinte unità dei SEAL in vari settori della città: due squadre di cecchini insieme agli Scout Snipers dell’esercito USA e un contingente di soldati iracheni, e un’altra unità di SEAL al seguito dei soldati iracheni e dei loro advisor militari americani assegnata allo sgombero di un intero settore edificio per edificio. Infine, io e il mio advisor dei SEAL (un sottufficiale) eravamo aggregati a uno dei comandanti di compagnia dell’esercito. In totale, a Mala’ab, un quartiere pericoloso e aspramente conteso della zona orientale di Ramadi, stavano operando circa trecento fra soldati americani e iracheni. La zona pullulava di muj, come li chiamavano le forze americane. I guerriglieri nemici definivano se stessi mujahidin, parola araba che significa “combattenti del jihad”: aderivano a una versione spietata e militante dell’islam ed erano subdoli, barbari e letali. Il quartiere di Mala’ab era rimasto saldamente nelle loro mani per anni e le forze americane puntavano a rovesciare la situazione.
L’operazione era iniziata prima dell’alba e ora che il sole faceva capolino all’orizzonte tutti stavano sparando. Dalla miriade di canali radio usati dalle unità dell’esercito americano proveniva un brusio ininterrotto di comunicazioni e rapporti. Da diversi settori arrivavano particolari di soldati americani o iracheni feriti o uccisi, seguiti da resoconti di nemici abbattuti. Le forze americane cercavano di capire cosa stava succedendo alle altre unità nei settori contigui. I team dell’ANGLICO (Air Naval Gunfire Liaison Company) dei marines si coordinavano con gli aerei da combattimento nel tentativo di sganciare bombe sulle posizioni nemiche.
A poche ore dall’inizio dell’operazione, entrambe le mie unità di cecchini dei SEAL erano state attaccate ed erano coinvolte in seri scontri a fuoco. Mentre le unità composte da soldati iracheni, soldati americani e SEAL liberavano gli edifici della zona avevano incontrato una resistenza tenace. Decine di guerriglieri avevano lanciato violentissimi attacchi con mitragliatrici leggere RPK, letali lanciarazzi RPG-7 e fucili d’assalto AK-47, i famigerati kalashnikov. Alla radio sentimmo gli advisor americani di una delle unità irachene più avanzate riferire che erano impegnati in un intenso scontro a fuoco e chiedevano l’aiuto della forza di reazione rapida. Consisteva di quattro Humvee corazzati, ciascuno dotato di una mitragliatrice pesante M2 calibro .50, e di una decina di soldati americani in grado fornire assistenza. Qualche minuto dopo uno dei miei team di cecchini chiese alla radio l’intervento della forza di reazione rapida “pesante”, ossia due M1A2 Abrams in grado di scatenare l’inferno con le mitragliatrici e i cannoni da 120 mm. Questo voleva dire che i miei SEAL erano in un mare di guai e avevano bisogno seriamente di aiuto. Chiesi al comandante di compagnia con cui eravamo di seguire i carri armati e lui lo fece.
Il nostro Humvee si fermò appena dietro uno degli Abrams, quello con il cannone puntato contro un edificio, pronto a sparare. Spinsi la pesante portiera corazzata e scesi a terra. Avevo la sensazione che qualcosa non andasse.
Corsi verso il sergente d’artiglieria dell’ANGLICO e gli chiesi: «Cosa succede?».
«Dannazione!» gridò eccitato. «Ci sono dei muj in quell’edificio lì che ci stanno facendo vedere i sorci verdi!» Indicò il palazzo dall’altra parte della strada, quello contro cui era puntato il cannone. Chiaramente era convinto che questi guerriglieri fossero degli ossi duri. «Hanno ammazzato uno dei nostri soldati iracheni quando siamo entrati e ne hanno feriti altri. Li stiamo martellando e mi sono attivato per far sganciare qualche bomba.» Stava coordinando un attacco aereo per spazzare via i guerriglieri asserragliati nell’edificio.
Mi guardai attorno. L’edificio che mi aveva indicato era crivellato di fori di proiettile. Gli Humvee della forza di reazione rapida avevano sparato oltre centocinquanta raffiche con una mitragliatrice calibro .50 e un numero molto maggiore di raffiche con i fucili e le mitragliatrici leggere. Adesso l’Abrams si preparava a ridurre l’edificio a un cumulo di macerie, uccidendo tutti quelli che stavano all’interno. Se non fosse bastato, ci avrebbero pensato le bombe dal cielo.
Qualcosa, però, non tornava. Eravamo vicinissimi a dove si presumeva che fossero le nostre unità di cecchini dei SEAL. Quando era iniziata la sparatoria uno dei team aveva lasciato la posizione che prevedeva di occupare e si stava spostando verso un altro edificio. Nel caos non aveva comunicato la posizione esatta, ma io sapevo che non doveva essere lontana dal punto in cui mi trovavo, vicino all’edificio che l’artigliere dei marines aveva appena indicato. Quello che non tornava era che quei soldati iracheni e i loro advisor americani non sarebbe dovuti arrivare qui prima di altre due ore. Nessun’altra forza amica sarebbe dovuta entrare in questo settore prima che noi avessimo attuato un’appropriata deconfliction, ovvero messo in atto tutte le strategie necessarie a evitare scontri accidentali tra soldati schierati dalla stessa parte: dovevamo stabilire la posizione esatta del nostro team di cecchini e trasmettere l’informazione alle altre forze amiche. Ma, per qualche ragione, nell’area c’erano decine di soldati iracheni con i loro advisor della marina e dell’esercito. Non aveva senso.
«Aspetta un attimo, artigliere. Vado a controllare» dissi, indicando con un cenno l’edificio contro il quale stava coordinando il bombardamento aereo. Mi guardò come se fossi uscito di senno. I suoi marines e un intero plotone di soldati iracheni erano stati ingaggiati in un feroce scontro a fuoco con guerriglieri nemici dentro quella casa e non erano riusciti a stanarli. Chiunque fossero, avevano opposto una strenua resistenza. Nella sua mente, anche solo avvicinarsi a quel posto era un suicidio. Rivolsi un cenno della testa al mio advisor dei SEAL, che mi restituì il cenno, e attraversammo la strada verso l’edificio infestato dai nemici. Come molte case in Iraq, era circondato da un muro di cemento alto due metri e mezzo. Ci avvicinammo alla porta, che era accostata, puntai l’M4 e la spalancai con un calcio, solo per ritrovarmi a fissare uno dei miei capiplotone dei SEAL. Lui mi guardò stupefatto.
«Che cosa è successo?» gli chiesi.
«Alcuni muj sono entrati nel compound. Ne abbiamo ucciso uno e loro hanno attaccato come diavoli. Hanno avuto la meglio.» Mi venne in mente quello che l’artigliere mi aveva appena detto: uno dei loro soldati iracheni era stato ucciso quando era entrato nell’edificio.
In quel momento divenne tutto chiaro. Nel caos e nella confusione, chissà come un’unità isolata di soldati iracheni aveva oltrepassato i limiti entro cui era confinata e aveva tentato di entrare nell’edificio occupato dal nostro team di cecchini. Nel buio che precede l’alba, l’unità dei SEAL aveva visto la sagoma di un uomo armato di AK-47 introdursi furtivamente nel compound. Si presumeva che non ci fossero soldati amici nelle vicinanze, mentre era noto che nell’area si trovavano molti combattenti nemici. Così i nostri SEAL avevano ingaggiato l’uomo con il kalashnikov, credendo di essere sotto attacco. Poi si era scatenato l’inferno.
Quando avevano sparato dalla casa, i soldati iracheni all’esterno avevano risposto al fuoco e si erano ritirati al riparo del muro di cemento dall’altra parte della strada e negli edifici circostanti. Avevano chiamato rinforzi e i marines e i soldati dell’esercito avevano scatenato un feroce fuoco di sbarramento contro la casa che credevano occupata da guerriglieri nemici. Nel frattempo, all’interno dell’edificio i nostri SEAL erano impossibilitati a muoversi e non erano in grado di identificare chiaramente che a sparare loro addosso erano forze amiche. L’unica cosa che potevano fare era continuare a combattere per evitare di essere sopraffatti. L’unità ANGLICO dei marines era arrivata vicinissima a chiedere che la casa in cui erano rintanati i nostri SEAL venisse bombardata dagli aerei. Quando la mitragliatrice calibro .50 aveva aperto il fuoco contro di loro, gli uomini dei SEAL all’interno dell’edificio avevano creduto di trovarsi sotto un pesante attacco nemico e avevano chiamato in soccorso i carri armati Abrams della forza di reazione rapida. Era stato così che ero arrivato sul posto.
Dentro l’edificio il capo dei SEAL mi fissò, perplesso. Senza dubbio si chiedeva come avessi fatto ad attraversare l’infernale attacco nemico per entrare nell’edificio.
«Si è trattato di un blue on blue» gli dissi. Blue on blue – fuoco amico, fratricida –, la cosa peggiore che poteva capitare. Essere uccisi o feriti dal nemico in battaglia era già abbastanza brutto, ma essere uccisi o feriti accidentalmente dal fuoco amico perché qualcuno aveva fatto casino era il destino più orribile. Era anche una realtà. Avevo sentito la storia del plotone X-Ray del SEAL Team One in Vietnam. Le squadre si erano divise durante una pattuglia notturna nella giungla, avevano perso l’orientamento e quando si erano incontrate di nuovo nell’oscurità avevano creduto di trovarsi di fronte il nemico e avevano aperto il fuoco. Ne era seguita una violenta sparatoria, con un morto e diversi feriti. Quello era stato l’ultimo plotone X-Ray dei SEAL. Da quel momento in poi, il nome era stato bandito. Era una maledizione… e una lezione. Il fuoco amico era inaccettabile nei SEAL Team. E ora la stessa situazione era appena capitata a noi, alla mia unità operativa.
«Cosa?» chiese il capo dei SEAL assolutamente incredulo.
«È stato un blue on blue» ripetei, in tono calmo e pratico. Non c’era tempo per le discussioni. C’erano dei nemici veri là fuori e mentre parlavamo sentivamo sporadici colpi d’arma da fuoco tutt’intorno mentre altre unità affrontavano i guerriglieri nelle vicinanze. «Cosa abbiamo?» gli domandai. Avevo bisogno di sapere in che condizioni erano lui e i suoi uomini.
«Un SEAL colpito al viso… niente di troppo grave. Ma sono tutti scossi. Portiamoli fuori di qui» rispose l’ufficiale.
Insieme alla forza di risposta rapida era arrivato un veicolo trasporto truppe corazzato che era parcheggiato di fronte all’edificio. «C’è un M1132 qui fuori. Facci salire i tuoi ragazzi» gli dissi.
Il capo dei SEAL, uno dei migliori leader tattici che abbia mai conosciuto, fece uscire rapidamente il resto della squadra e gli altri soldati. Sembravano più sconvolti di qualunque essere umano avessi mai visto. Erano stati il bersaglio di raffiche devastanti sparate da una mitragliatrice calibro .50 che crivellava i muri attorno a loro e avevano visto la morte in faccia, convinti che non sarebbero sopravvissuti. Si ripresero in fretta, però, salirono a bordo dell’M113 e si diressero alla vicina base operativa americana, tutti tranne il capo dei SEAL.
Tornai dal marine dell’ANGLICO. «L’edificio è sgombro» gli dissi.
«Roger, signore» rispose con espressione stupita mentre lo comunicava alla radio.
«Dov’è il capitano?» chiesi. Volevo parlare con il comandante di compagnia.
«Lassù» rispose indicando l’edificio davanti a cui ci trovavamo.
Salii al piano superiore e trovai il comandante della compagnia accucciato sul tetto dell’edificio. «Stanno tutti bene?» chiese.
«Era un blue on blue» ribattei senza giri di parole.
«Cosa?» disse sbalordito.
«Era un blue on blue» ripetei. «Un soldato iracheno ucciso in azione, alcuni feriti. Uno dei miei ragazzi è stato colpito al volto. Tutti gli altri stanno bene, per miracolo.»
«Roger» rispose, scioccato e dispiaciuto per quello che era successo. Era un leader notevole e senza dubbio si sentiva in qualche modo responsabile, ma operava in quel caotico campo di battaglia urbano da mesi al fianco dei soldati iracheni e sapeva quanto fosse facile che si verificasse una cosa del genere.
Avevamo ancora del lavoro da fare e dovevamo andare avanti. L’operazione continuò. Conducemmo altre due missioni, liberammo un’ampia porzione del quartiere di Mala’ab e uccidemmo decine di nemici. Alla fine fu un successo.
Ma non importava. Mi sentivo male: uno dei miei uomini era rimasto ferito, un soldato iracheno era morto e altri erano feriti. Eravamo stati noi a farlo ed era successo sotto il mio comando.
Quando completammo l’ultima missione della giornata, andai al centro operativo tattico del battaglione dove avevo un computer per ricevere e mandare e-mail al quartier generale. Mi spaventava l’idea di aprire e rispondere alle inevitabili e-mail riguardanti quello che era accaduto. Avrei voluto essere morto sul campo di battaglia. Avevo la sensazione di meritarmelo.
La casella era piena. La voce che c’era stato un episodio di fuoco amico si era sparsa in fretta. Aprii un’e-mail del mio ufficiale superiore che andava dritta al punto. Diceva: «FERMA TUTTO. NON CONDURRE ALTRE OPERAZIONI. L’AGENTE INVESTIGATIVO, IL CAPO DI PRIMA CLASSE E IO STIAMO ARRIVANDO». Com’era tipico della marina in caso di incidente, l’ufficiale comandante aveva nominato un investigatore per stabilire i fatti e i...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. MAI DIRE MA
  4. Premessa
  5. Prefazione
  6. Introduzione. Ramadi, Iraq: il dilemma del leader in combattimento
  7. PARTE PRIMA. VINCERE LA GUERRA INTERNA
  8. PARTE SECONDA. LE LEGGI DEL COMBATTIMENTO
  9. PARTE TERZA. SOSTENERE LA VITTORIA
  10. APPENDICE
  11. Copyright