Mi ricorderò per tutta la vita di quell’ometto dall’abito troppo grande. Visibilmente a disagio, farfugliava in un inglese molto approssimativo dentro un microfono che gli mangiava mezza faccia. Erano i primi di novembre del 1998, e in effetti il rappresentante del Vietnam alla conferenza annuale della Comunità internazionale del pepe, che si svolgeva in un grande albergo di Giacarta, in Indonesia, non stava impressionando granché il suo auditorio.
Circostanza aggravante per lui, alla fine degli anni Novanta il Vietnam era un produttore di pepe di second’ordine con volumi compresi tra le 15.000 e le 18.000 tonnellate all’anno. La metà rispetto ai pesi massimi del mercato come l’India, il Brasile o appunto l’Indonesia, e di una qualità (e quindi di un valore) molto inferiore.
La sua esposizione delle nuove tecniche di coltivazione del pepe nel suo paese era decisamente troppo tecnica e astrusa. Nessuno lo stava ascoltando veramente quando, all’improvviso, annunciò: «…così, grazie al miglioramento dei rendimenti, al sostegno del governo ai produttori, e all’aumento del 20 per cento all’anno delle superfici di produzione, in cinque anni raggiungeremo le 100.000 tonnellate…».
Immediatamente, da diversi punti della sala si alzarono delle risate. Io stesso non riuscii a trattenere un sorriso. L’ometto non sapeva che la totalità delle esportazioni mondiali di pepe si aggirava allora intorno alle 125.000 tonnellate annue?
Il mio vicino, un olandese grassoccio, mi guardò, fece una smorfia e commentò: «That’s insane! This guy’s crazy! (“È assurdo! Quel tizio è matto!”)».
Eppure… nel 2001, cioè solo tre anni dopo, il Vietnam, con l’aumento effettivo delle superfici e dei rendimenti grazie all’uso massiccio di fertilizzanti e pesticidi, diventava il primo produttore mondiale con più di 60.000 tonnellate, facendo tra l’altro crollare il prezzo di mercato a 0,85 dollari al chilo. E nel 2004 superava effettivamente le 100.000 tonnellate, mentre nello stesso tempo il consumo mondiale esplodeva, facendo risalire i prezzi. Che nel luglio del 2015 raggiunsero gli 11,3 dollari al chilo.
I produttori vietnamiti, senza il minimo scrupolo riguardo alla nocività della loro produzione e improvvisamente arricchiti, avevano fatto centro!
Nel 2017 la produzione vietnamita raggiungeva addirittura le 170.000 tonnellate, cioè il 60 per cento di una produzione mondiale che in vent’anni aveva più che raddoppiato ed era valutata oltre 280.000 tonnellate1. Purtroppo, visto che le miniere d’oro attirano sempre la concorrenza, ci si erano messe anche la Cina, la Thailandia e la Cambogia, facendo scendere di nuovo il prezzo intorno agli odierni 3 dollari al chilo…
Da quella memorabile conferenza ascolto con grande attenzione gli ometti dall’apparenza mediocre. Possono saperne molto più di voi… e annunciare, come se nulla fosse, veri e propri sconvolgimenti sul mercato mondiale dei prodotti alimentari.
Le cifre sono impressionanti. Oggi sulla terra ci sono 7,6 miliardi di esseri umani2. Dal 1970, la popolazione mondiale è semplicemente raddoppiata! E, sebbene il tasso di crescita naturale mondiale stia diminuendo leggermente, dovremmo raggiungere i 9 miliardi intorno all’anno 2040.
Per far fronte a questa vera e propria esplosione demografica, e rispondere ai bisogni alimentari di base, purtroppo non si è potuto ottenere l’aumento massiccio della produzione se non attraverso l’industrializzazione di tutta la filiera agroalimentare.
Le superfici agricole sono aumentate ovunque fosse possibile e i rendimenti sono esplosi, spesso con l’aiuto di procedimenti poco confessabili (ci tornerò più avanti). Gli stabilimenti sono spuntati come funghi e, per dare da mangiare all’umanità affamata, centinaia di gigantesche navi portacontainer, migliaia di aerei e milioni di camion percorrono il globo giorno e notte.
Pensate che in Francia, fino alla fine degli anni Cinquanta, i rendimenti annuali medi dei principali cereali (granturco e grano tenero) andavano dai 10 ai 12 quintali per ettaro. Ormai raggiungono i 100 quintali per il granturco e gli 80 per il grano, cioè dalle otto alle dieci volte di più3!
Nessuno può contestare il fatto che questa industrializzazione abbia avuto almeno una virtù fondamentale: permette di rispondere a una richiesta assolutamente colossale e, attualmente, sempre in forte crescita. Produrre e trasportare grandi quantità ha anche permesso di ridurre il costo unitario. I prodotti più facilmente disponibili sono meno costosi per la stragrande maggioranza dei consumatori. Così, come sottolineava l’INSEE4 nell’ottobre 2015: «Dal 1960, le famiglie destinano all’alimentazione una parte sempre più ridotta delle loro spese di consumo: il 20 per cento nel 2014 contro il 35 per cento nel 19605».
Sempre secondo l’INSEE, dagli anni Sessanta il costo del grano tenero e del granturco, in moneta costante, si è ridotto di cinque volte.
Tutto andrebbe dunque per il meglio, se questo impressionante aumento della produttività non annoverasse alcune contropartite molto dannose per la salute dei consumatori. Una volta risolto lo spinoso problema della quantità e la questione del prezzo richiesto al consumatore, resta ovviamente da affrontare la faccenda della qualità. Ed è proprio l’argomento di questo libro. La globalizzazione e l’industrializzazione hanno anche permesso a ogni genere di industriali poco scrupolosi di inondare il mercato di prodotti adulterati o di cattiva qualità, commercializzati a basso costo. Prodotti che numerosi commercianti e trasformatori del settore agroalimentare si sono affrettati ad adottare per aumentare i loro margini… E chi s’è visto s’è visto!
Ma prima di tornare sull’estrema difficoltà di scegliere i prodotti giusti nella giungla contemporanea del cibo spazzatura6, diamo uno sguardo alla parte più oscura dell’industrializzazione del settore agroalimentare. I guadagni in termini di rendimento derivano da diversi fattori tecnici, tra cui principalmente la meccanizzazione, l’utilizzo di fertilizzanti e di pesticidi, la selezione varietale e la genetica.
Sorvoliamo sui danni per così dire “collaterali” legati all’eccessivo consumo energetico7, agli effetti nocivi per l’ambiente e la biodiversità, all’inquinamento dell’aria e delle falde freatiche, ecc., per interessarci più direttamente a quello che poi ritroviamo nei nostri piatti e che non dovrebbe esserci.
Una piccola parentesi per chi non è esperto di chimica. Tutti voi avete sentito parlare dei pesticidi (prodotti chimici tossici che eliminano gli animali e le piante nocive per le colture), come i fungicidi, gli insetticidi, gli erbicidi e gli antiparassitari. Ma conoscete gli altri prodotti chimici che l’agricoltura intensiva riversa sulle coltivazioni?
Esistono un mucchio di “regolatori della crescita” di cui nessuno parla mai, e che modificano gli equilibri ormonali della pianta per influenzarne lo sviluppo e ottenere così dei frutti più o meno abbondanti, più o meno maturi o colorati, dei fusti più o meno lunghi e robusti, ecc.
Ad esempio, per evitare che il grano si alletti (si pieghi verso il suolo) e aumentare così la resa, è possibile rafforzare il suo gambo e usare, tra gli altri, il Medax Top della BASF a base di calcio-proesadione e di mepiquat cloruro. È un buon prodotto, ma il gigante tedesco della chimica (e leader mondiale del settore) indica comunque sulla sua scheda tecnica che è «nocivo in caso di ingestione, nocivo per gli organismi acquatici» e che determina «effetti nefasti a lungo termine».
Per distruggere i grappolini, diradare le viti e regolare la maturazione dell’uva rossa (ma esclusivamente per la vinificazione, altrimenti non è autorizzato), avete il Sierra, prodotto da Bayer, l’altro gigante tedesco, a base di etefon. Il Sierra, sempre secondo il produttore, «provoca lesioni oculari gravi, è corrosivo per i metalli e nocivo per gli organismi acquatici a lungo termine».
Per quanto riguarda gli alberi da frutto come il melo, è possibile controllare il numero di frutti e la loro maturazione utilizzando ad esempio il Fixor della giapponese Sumi Agro, a base di acido alfa-naftalenacetico, che invece «provoca lesioni oculari gravi» ed è «potenzialmente pericoloso per il feto»…
E sono solo alcuni esempi, tra i tanti esistenti, di prodotti potenzialmente temibili per la salute dell’uomo ma che permettono la stimolazione delle colture per aiutarle a «esprimere tutto il loro potenziale», come viene spiegato sul sito della Sumi Agro France.
Certo, i miracoli della chimica ci danno oggi bei cereali, frutti belli grossi e verdure molto appetitose, senza nessuna traccia di terra né di vita parassita, ma non bisognerebbe preoccuparsi più attivamente dell’aspersione massiccia di questi prodotti chimici tossici sui nostri alimenti e del pericolo accertato che ciò rappresenta per la salute nostra e dei nostri figli?
Sul suo sito internet, il Commissariato generale per lo sviluppo sostenibile del ministero della Transizione ecologica e solidale… (piccola pausa per riprendere fiato)… annuncia orgogliosamente alla voce “Osservazione e statistiche”, che «la Francia è il primo mercato europeo di fitofarmaci», con un giro d’affari annuo vicino ai due miliardi di euro. Urrà, viva la Francia!
Neanche avessimo vinto una medaglia d’oro alle Olimpiadi. E pensare che, durante un dibattito radiofonico, un ex ministro dell’agricoltura di cui ho dimenticato il nome mi ha detto con voce tremolante che avevamo «l’agricoltura e l’industria alimentare più di qualità del mondo».
Be’, a sua discolpa bisogna dire che non era mai stato né contadino né industriale, ma come si fa a prendere sul serio uno che spara certe scemenze? Secondo me, questo vizio di difendere una posizione ideologica senza tenere conto della realtà, e perfino andando contro fatti accertati, getta continuo discredito sulla nostra classe politica.
In Francia, sempre secondo il ministro eco-transito-sostenibile-solidale, consumiamo ufficialmente tra le 70.000 e le 100.000 tonnellate di fitofarmaci all’anno in base alle condizioni climatiche (se ne usano di più se fa un caldo umido, condizione favorevole alla proliferazione delle malattie e dei parassiti). Si va dunque dai due ai tre chili per ettaro di coltura all’anno. Precisiamo subito che queste cifre sono sottostimate, perché molti agricoltori francesi, e io ne conosco diversi, vanno a comprare in Spagna o altrove – e senza dichiararlo – pesticidi vietati ma estremamente efficaci e quindi particolarmente nocivi.
Purtroppo le cose non cambieranno in tempi brevi. Chi si ricorda del piano Écophyto lanciato nel 2008 dal governo Fillon sulla scia di Grenelle Environnement8? In quel caso si trattava di ridurre del 50 per cento l’uso di pesticidi entro il 2018. Programma ambizioso, responsabile e salutare, ma risoltosi a tutt’oggi in un enorme fallimento.
Come lamentava all’inizio del 2017 Delphine Batho, ex ministro dell’Ecologia del governo Valls: «Ci sono delle resistenze considerevoli da parte delle multinazionali dell’agrochimica, ma anche da parte degli agricoltori che hanno difficoltà a cambiare le loro abitudini9».
Bella analisi, veramente, signora Batho! Ma è davvero così sorprendente che le multinazionali vogliano continuare a guadagnare sempre più soldi, e che i contadini non vogliano complicarsi la vita né rischiare di ridurre o perdere i loro raccolti?
Allora, coraggiosi ma non temerari, i nostri politici hanno partorito Écophyto 2 (pur sempre con un budget di 7...