Il mio nome era Anastasia
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Il mio nome era Anastasia

  1. 448 pagine
  2. Italian
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Il mio nome era Anastasia

Informazioni su questo libro

Il romanzo dei Romanov
«Molti hanno raccontato la mia storia. Adesso è il mio turno.» Era il 16 luglio del 1918 quando i tumulti che scuotono la Russia dopo la Rivoluzione d'Ottobre prendono forma in uno degli atti più violenti che la storia dell'impero ricordi: l'esecuzione a sangue freddo dell'intera famiglia dello zar Nicola II Romanov. Sua moglie e i suoi figli furono tutti freddati a colpi di fucile nei sotterranei della casa di Ekaterinburg dove erano agli arresti domiciliari. Nessuno sopravvisse, o almeno così si pensò. È il 17 febbraio del 1920 quando una giovane donna viene ritrovata a Berlino, in un canale, vicina alla morte per assideramento. In ospedale, ormai salva, i medici scoprono che il suo corpo è ricoperto di orrende cicatrici. E quando finalmente la donna apre bocca, sarà per dire il proprio nome: Anastasia. In molti non le credono: per loro è solo Anna Anderson, una polacca emigrata in Germania, a cui interessa soltanto la fortuna della famiglia zarista. Ma in Europa comincia a diffondersi, tra reali in esilio e circoli dell'alta società, la voce che la giovane Anastasia sia sopravvissuta. Che la figlia più piccola dello zar Nicola II e della zarina Alessandra, la spericolata bambina che tutti amavano, sia ancora viva.
Tra speculazione, verità, inganni, Ariel Lawhon costruisce un romanzo ricco, sorprendente e prezioso come un uovo Fabergé, raccontandoci la storia incredibile di Anastasia Romanova e di Anna Anderson, la donna che sostenne sempre di essere la granduchessa russa, giocando in modo irresistibile con la Storia e i suoi misteri.

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Informazioni

SECONDA PARTE

Amici e nemici

«E, dopo tutto, cos’è una bugia? Solo la verità in maschera.»
LORD BYRON, Don Giovanni
9

Anna

HANNOVER
1946, 1943

Winterstein, Germania
Novembre 1946

Anna è fermamente intenzionata a tagliare la gola al soldato. Un passo di più da parte sua, e farà un affondo. Il coltello seghettato che ha in mano dovrebbe servire a tagliare il pane, ma pensa che se la caverà benissimo anche con la morbida pelle di un collo umano. Lui è un bolscevico, un ufficiale dell’Armata rossa e, come tanti altri negli ultimi mesi, è venuto a fare razzia. Con la guerra i militari si sono fatti spavaldi e ogni giorno sulla strada per Berlino passano dal castello e prendono ciò che vogliono, lasciando il caos dietro di sé. A volte cercano cibo o vestiti, ma di solito i loro appetiti sono di natura più carnale. Dalla maniera in cui le fissa il seno, Anna dubita che quello lì si sia intrufolato in cucina per fare colazione. Non avrebbe mai pensato di dover ancora affrontare il rischio di uno stupro alla sua età. E nemmeno di essere ancora costretta a scappare e a nascondersi.
Ci sono altri posti, più sicuri, dove avrebbe potuto cercare rifugio, ma ha avuto così poco tempo quando ha lasciato Hannover, tra le bombe che cadevano e la città che bruciava e la terra che le tremava sotto i piedi. Ha preso solo quello che riusciva a portare e si è presentata lì, alla porta di un conoscente solidale con la sua causa. Una scelta pratica, anche se azzardata, e in fin dei conti sbagliata. È riuscita a coprire la distanza da Hannover a Winterstein in meno di un giorno di cammino, ma ora eccola qua, a guardare il pericolo in faccia ancora una volta.
«Frau» dice il soldato, facendole segno di avvicinarsi. La voce è impastata di libidine. «Vieni qua.»
Non c’è il minimo tremito nella voce di Anna quando risponde. Parla in modo chiaro e sicuro, ma in tedesco. Il russo è troppo rischioso, con l’Armata rossa che rimpatria a forza i connazionali nell’Unione Sovietica. Ha saputo che dopo la rivoluzione gli amici e i simpatizzanti dei Romanov sono stati sistematicamente scovati e assassinati. Preferisce non pensare a ciò che farebbero di una donna che afferma di essere la granduchessa Anastasia.
«Se vengo da te sarà per sbudellarti sulla porta» dice, brandendo il coltello in modo che l’altro possa vedere i denti affilati della lama. «Oppure puoi venire da me e lo farò qui, sul pavimento della cucina.»
Rimane sbalordita nel vedere che non le trema la mano. Neanche un po’.
Quell’uomo vuole che Anna abbia paura di lui. Vuole che scappi, urli e pianga, che chieda pietà. Quando vede che lei non fa nulla di tutto ciò, cambia atteggiamento. Guarda alternativamente il suo viso e la lama, valutando la sua determinazione, la distanza a cui si trova, le proprie possibilità, quindi si raddrizza dalla sua posa curva, da predatore, con un’espressione di incertezza sul viso. Non sembra uno che ha voglia di morire dissanguato in un freddo mattino di novembre. Anna lo vede concludere che non ne vale la pena. È scritto sulla fronte, dove le rughe di concentrazione si spianano, nei pugni stretti che si aprono.
Le spalle si abbassano.
Il soldato fa un passo indietro. Poi un altro.
E in cinque secondi è sparito, battendo in ritirata dalla porta della cucina per uscire sul prato, una sagoma curva scura che si staglia sul manto argentato di brina.
Le tremano le mani, adesso, e il coltello cade rumorosamente a terra. Mette il chiavistello alla porta, poi guarda il soldato scomparire tra gli alberi.
Accidenti a quegli incubi che la tormentano da Hannover. Risuonano del fischio assordante delle bombe che cadono, e le esplodono nella testa, tenendo alla larga il sonno praticamente ogni notte. Si maledice per essersi alzata presto ed essere scesa a fare il caffè. Per aver attraversato il cortile della cucina ed essere andata a prendere una brocca di panna nel magazzino delle provviste. Per non aver rimesso il paletto alla porta dietro di sé. Non aveva considerato che la luce avrebbe attirato qualcos’altro oltre alle falene.
Spegne la lanterna sul piano della cucina. È stata una vera stupidaggine lottare contro i sogni e alzarsi dal letto. Ma soprattutto essere andata lì. Ora è più sicura che mai di non poter rimanere a Winterstein, tantomeno al prolungarsi dell’occupazione sovietica, con il rischio continuo di essere scoperta e rimpatriata. È tempo di andare.
Esce dalla cucina senza far rumore e si mette in cerca di un telefono funzionante nel castello. È ora di farsi viva con il principe Federico. È ad Altenburg da qualche anno ad aspettare che finisca la guerra, come tutti quanti. Ha fatto già molto per aiutarla e non vorrebbe disturbarlo di nuovo, ma deve trovare un posto dove scomparire per sempre.
TRE ANNI PRIMA

Hannover, Germania
8 ottobre 1943

Anna è a letto quando le bombe cominciano a cadere. Il suo appartamento si trova al terzo piano di un vecchio palazzo vicino alla Marstalltor, sulla riva del fiume Leine. È un appartamento con una camera da letto e i soffitti alti, pavimenti in legno e muri di mattoni a vista. Ampie finestre. Pochi mobili, lievemente usurati. C’è la carta da parati nel bagno e tubature arrugginite in tutta la casa. C’è odore di olio di limone, naftalina, polvere e cedro. Ora che ci abita da quasi cinque anni, in qualche modo quella combinazione per lei significa “casa”. È la prima volta dai tempi della pensione di Berlino che vive completamente da sola e, benché all’inizio le facesse uno strano effetto, è giunta ad amare l’indipendenza e la solitudine di quella sistemazione. Anna adora la quiete.
No, non c’è la quiete. Non adesso. È quasi l’una del mattino e l’aria è piena di fragore e caos. Un bailamme assordante.
Mentre si alza incespicando dal letto, la stanza è illuminata da una luce bianca accecante. Come un riflettore. Come una visione. Come immagina che sarà quando andrà all’altro mondo. E quello è il suo primo pensiero, che è morta, ed è solo il furibondo susseguirsi delle esplosioni a convincerla che è ancora viva.
Per ora.
Batte le palpebre a più non posso e finalmente vede qualcosa fuori dalla finestra: penzola da un lampione all’angolo, proprio davanti al suo palazzo, ed è di un bianco fosforescente. Un albero di Natale. Ma non il tipo di albero che viene tagliato e decorato durante le vacanze. Questo è del tipo che cade dagli aerei da guerra delle forze alleate. Un nomignolo dato ai bengala a paracadute che indicano un bersaglio designato a terra. E laggiù, qualche isolato più avanti sulla stessa strada, ce n’è un altro. Arrivano sempre a gruppi di quattro, in modo da delimitare con precisione i loro obiettivi. Anna non aspetta di vedere dove atterreranno gli altri.
La memoria del corpo è una cosa strana. Legata alla musica, all’atletica e alla sopravvivenza. Anna non deve neppure dire ai propri arti di muoversi, di correre. Lo fanno da soli. È dall’altra parte della stanza, ad aprire con uno strattone il primo cassetto del comò, prima di avere avuto il tempo di concepire un solo pensiero coerente.
La camicia da notte di cotone leggero le cade alle caviglie. Sotto non porta niente, ma non ha il tempo di vestirsi, perciò strappa un mucchio di abiti dall’armadio e lo getta in una valigia. Poi vi sbatte dentro anche il contenuto del cassetto del comò. Un album di fotografie. Un’icona. Una scacchiera con i pezzi. Un tagliacarte. Cimeli di una vita passata che non vuole abbandonare, carte che potrebbe ancora aver bisogno di giocare.
Stivali. Li infila ai piedi ma non li allaccia. Niente calzini. Niente calze. Ha le dita dei piedi fredde.
Un pesante cappotto è appeso a un gancio accanto alla porta. Se lo passa di forza sopra le spalle, vi ficca le braccia. Senza stringere la cintura né abbottonarlo. Non c’è tempo.
Schizza attraverso l’appartamento e infila la porta d’ingresso.
Taglia il pianerottolo e si getta a capofitto per tre rampe di scale, reggendo la valigia con una mano e afferrando la ringhiera con l’altra. Vola giù, con i piedi che sfiorano i gradini di legno consunti. Il cuore che le scoppia nel petto. Il respiro che si blocca in gola ogni volta che il tetto si scuote e le pareti tremano. Un altro lampo accecante di spietata luce bianca. Il terzo albero di Natale.
“Corri in cantina.” È il solo pensiero che riesce a formulare mentre scende, scende, scende quegli scalini. E poi l’atrio del palazzo con le sue piastrelle sbeccate e il massiccio portone. Una brusca svolta a sinistra e sfreccia lungo il corridoio. Ci sono altre persone, ma non si ferma a salutarle. Corre. Tutti corrono. Un bambino strilla. Una donna grida. Un uomo impreca.
Un’altra porta.
Un’altra rampa di scale che scende nell’oscurità, e Anna è solo a due terzi della discesa quando viene sbalzata violentemente da terra e mandata a ruzzolare sui cinque gradini rimanenti, per poi atterrare sbattendo le ginocchia sul duro suolo di cemento. L’impatto le causa una fitta di dolore che la attraversa tutta. La sente nei denti, nella parte posteriore del cranio. Qualcuno inciampa su di lei. Impreca. Anna striscia verso il muro e si raggomitola lì, valigia tra le ginocchia, mani sulle orecchie, occhi serrati.
L’aria intorno a lei vibra, piena delle urla della gente e dello stridore delle bombe, e poi c’è un istante di un silenzio assoluto, irreale, mentre quella ripugnante luce bianca del quarto bengala invade la cantina. L’unica lampadina appesa al soffitto esplode, illuminando per un macabro secondo le facce terrorizzate intorno a lei.
E poi l’aria si squarcia.
L’indomani mattina non rimangono che mattoni sparsi e legno frantumato. Niente palazzo. Niente appartamento. Gli abitanti che sono riusciti a raggiungere la cantina escono e si ritrovano nell’orrenda realtà dell’Apocalisse. In definitiva, le forze alleate non hanno preso di mira il loro edificio, ma qualcosa un po’ più giù lungo la strada. Lo sa solamente per il cratere di tre metri che c’è a un isolato di distanza. L’onda d’urto dell’esplosione ha raso al suolo il suo palazzo, ma quelli accanto al cratere sono stati annientati, inceneriti. Nell’altra direzione le case sono ancora in piedi, ma le finestre e le porte non ci sono più, come denti mancanti in crani anneriti. Lei non sopporta la vista delle persone che vagano tra le macerie, affrante. L’aria è piena di cenere e fuliggine, di pianti di donne e ululati di sirene in lontananza.
Ciò che resta di Hannover è in fiamme. Ci sono nubi di fumo in ogni direzione e Anna impiega diversi minuti per localizzare il sole, per orientarsi. Due isolati, facendosi strada tra le macerie – mattoni, pali, pezzi di mobili, pezzi di persone – e vede la Marstalltor. Si erge indenne, con l’arco di pietra bianca misteriosamente intatto, senza nemmeno una crepa o una macchia di fuliggine. La attraversa e scopre che per fortuna i sentieri lungo il fiume sono sgombri dalle macerie.
Si ferma giusto il tempo necessario per lavarsi il viso e le mani, per allacciarsi gli stivali e annodare la cintura del cappotto. Poi si incammina a sud, alla volta di Winterstein.
10

Anastasia

ESILIO
1917
...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. IL MIO NOMEERA ANASTASIA
  4. Avvertimento
  5. PRIMA PARTE. La fine e il principio
  6. SECONDA PARTE. Amici e nemici
  7. TERZA PARTE. Anche questo passerà
  8. Nota dell’Autrice
  9. Ringraziamenti
  10. Copyright