Ci hanno provato in molti a raccontare chi sono, da dove vengo o quale sia stato esattamente il momento in cui si è iniziato a parlare di me. La verità è che il periodo in cui sono salita alla ribalta con i miei primi successi musicali ha rappresentato soltanto l’apice di un mio momento milanese che era iniziato molti anni prima. Milano allora era una passerella a cielo aperto, le discussioni d’affari avvenivano esclusivamente all’aperitivo e la barella non ti portava in ospedale ma sulle nuvole. Parlo degli anni in cui ventiquattr’ore non erano abbastanza per imbarcarsi in tutti gli impegni lavorativi e le peccaminose esperienze che la metropoli offriva, gli anni in cui il verbo dormire era stato drasticamente eliminato dal vocabolario.
Erano gli anni Ottanta.
Il tempo era poco, ma la bamba era tanta.
Ero tornata da poco a Milano dopo essere stata oltreoceano alcuni anni per un viaggio di formazione professionale in Colombia, a spese di un leggendario marchio di salumi. Ero entrata in azienda con un semplice contratto da stagista, ma dal mio soggiorno colombiano tornai con l’incarico di amministratrice delegata, merito del mio talento fuori dal normale e del mio grande fiuto per gli affari. A Bogotá mi ero anche sposata con uno splendido ragazzo caraibico dalla pelle bruna. Mi ci vollero tre mesi per scoprire che in realtà era napoletano, di Posillipo. Ma questa è un’altra storia e riguarda solo uno dei tre ingredienti che danno il titolo a questa prima parte.
Fiera della mia nuova posizione di prestigio in un’azienda che stava cavalcando il boom economico, mi sentivo pronta a tuffarmi in quel mare di spumeggiante dolce vita che stava diventando la mia amata capitale meneghina. A lavoro tutto procedeva a gonfie vele, il fatturato cresceva a dismisura e nei corridoi cominciavano a chiamarmi “la tigre della sala riunioni”. I più invidiosi provavano a screditarmi in tutti i modi, soprattutto inventando storielle sul mio largo uso di stupefacenti durante gli orari d’ufficio, ma le loro chiacchiere non avevano peso: quando mi sedevo alla scrivania, non ne sbagliavo una. Geniali mosse di marketing come la pioggia di prosciutto in Duomo o la campagna “PRO-VITA? NO, PRO-SCIUTTO!” mi avevano resa indispensabile.
Ma in quegli anni i miei successi non si limitavano all’azienda: iniziavo a farmi strada nel nuovo scintillante mondo della televisione, un mondo in grado di regalare desideri e speranze a migliaia di ragazze e ragazzi pieni di talento come me.
Le regole per una carriera lavorativa al Top
- Fare largo uso di stupefacenti durante l’orario lavorativo
- Far credere a più persone possibili in azienda di avere una posizione ben superiore rispetto a quella reale, fino a ottenerla
- Il metodo migliore per far firmare un contratto che volge solamente a tuo favore è quello di somministrare larghe dosi di prosecco e ketamina prima della firma
- Essere esibizionisti sul lavoro non è un difetto, bensì un pregio
“Quando il tempo era poco...
... ma la bamba era tanta.”
Il diavolo veste Keta, e viceversa. Si sa, le doti da stylist non mi sono mai mancate, e la cura meticolosa che metto in ogni mio outfit è sempre stata riconosciuta in tutto il mondo. Del resto, è risaputo che molte delle mie scelte stilistiche hanno dato vita a dei veri e propri trend, se non addirittura a famosissimi brand (this is for you, Gianni).
Ho sempre odiato passare inosservata, sia per strada sia a una festa tra centinaia di invitati: la mia missione è catturare ogni singolo sguardo, e non ricordo d’aver mai fallito.
Non si tratta solamente di azzeccare gli abbinamenti o d’indossare un vestito maestoso: il portamento gioca un ruolo fondamentale. Non dimenticherò mai quello che la mia bisnonna, citando un famoso discorso di Gandhi, mi disse in punto di morte.
“Non camminare mai… Sfila!”
Grazie all’ottimo gusto che mi ha sempre contraddistinta (nella moda così come negli amanti e nel cibo), nel corso degli anni ho indossato look diventati iconici, gli stessi che oggi gli studenti delle più grandi scuole di moda si ritrovano ad analizzare durante le lezioni di storia.
Già da giovane, agli albori della mia carriera, mi sapevo distinguere grazie alle mie mise sul posto di lavoro. Il mio terreno di sperimentazione preferito fu proprio l’ambiente dell’ufficio, perché ogni anno a Natale la festa aziendale mi offriva l’occasione di interpretare il tema della serata sfoggiando abiti sgargianti. Fu proprio uno di questi party, a metà degli anni Ottanta, a segnare per sempre il destino del marchio di salumi per cui lavoravo.
Era una fredda mattina di dicembre, quando sulla mia scrivania arrivò la circolare che invitava i dipendenti alla celeberrima festa di Natale. Era da mesi che davanti alla macchinetta del caffè ci si interrogava e si scommetteva su quale sarebbe stato il tema dell’anno. Finalmente la risposta era arrivata: “Il Prosciutto Crudo”.
L’anno precedente il tema era stato “Il Cotto Supremo” e me l’ero cavata molto bene: gli abbinamenti monocromatici col rosa antico sono sempre stati il mio forte, e per creare un vestito che replicasse le pieghe del celebre cotto non mi ci era voluto molto. Che cosa mi sarei dovuta inventare stavolta? Come potevo stupire l’azienda intera e vincere di nuovo il premio per il miglior outfit della serata, la bramata “Coscia di Prosciutto d’Oro Gigante”?
Letta la circolare, mi chiusi nel mio ufficio chiedendo di non essere disturbata per le due settimane seguenti. Per chiedere consigli, detti il via a un giro di telefonate intercontinentali, consultando tutti i più grandi esponenti del mondo della moda. Le idee, però, scarseggiavano. Quando Karl Lagerfeld mi offrì di utilizzare il prototipo di un tailleur di Chanel della stessa tinta del prosciutto crudo, capii che non c’era nulla da fare.
“BANALE!” urlai al telefono, sbattendogli la cornetta in faccia. Ancora una volta avrei dovuto fare tutto da sola.
La notte era mia abitudine camminare per ore nell’archivio dei prosciutti dell’azienda (la Prosciuttoteca, per usare il termine tecnico), un po’ per insonnia e un po’ per gola. Passeggiavo tra lo Stagionato Ventiquattro Mesi e il Culatello, quando la risposta al mio problema mi attraversò la mente come un lampo. Che scema a non averci pensato prima!
La sera della festa aziendale, uscii dall’ascensore che dava sulla grande sala del ricevimento all’ultimo piano del Pirellone e lasciai tutti a bocca aperta: 2800 sottilissime fette di San Daniele ricoprivano per intero il mio corpo nudo, andando a formare un maestoso abito da sera modello Impero, con ampia scollatura e lungo strascico. Gli accessori? In testa un trionfo di Patanegra intrecciato dava forma a uno splendido colbacco (una piccola strizzata d’occhio ai distributori russi, che quella sera si convinsero a firmare un contratto a diciotto zeri), mentre mascherina, guanti e bracciali erano in puro Prosciutto di Parma 24 carati. Per resistere alla tentazione di mangiare tutto quel ben di Dio, confezionato da dodici sarte e quindici macellai arrivati apposta da Parigi, ero corsa ai ripari: un mix anfetaminico mi avrebbe tolto l’appetito per almeno un paio di giorni.
“Se bella vuoi apparire, un po’ di anfetamine devi ingerire” diceva sempre Audrey Hepburn.
Non avevo tenuto conto, però, dell’appetito degli invitati. La gente mi salutava, si lanciava in grandi complimenti incantata dal mio vestito, ma un secondo dopo cominciava a salivare in maniera preoccupante.
Umberto Smaila, chiamato a intrattenere la serata con canzoni e barzellette, iniziò a ululare selvaggiamente dopo avermi vista in sala, avvolta in quell’elegantissimo tripudio di carne. Dovettero chiamare d’urgenza l’ambulanza, dato che dopo un’ora di ululati sembrava non riprendersi più. Il suo spettacolo era ormai sfumato.
Il mio corpo voluttuoso, ricoperto di carne altrettanto voluttuosa, risvegliò nei presenti degli istinti animali nascosti e repressi troppo a lungo. Lo spray allucinogeno che avevo spruzzato appena entrata (cosa che ero solita fare alle feste in quel periodo) stava amplificando il tutto.
Pur di assaggiare anche una sola fetta di prosciutto direttamente dal mio corpo, la direttrice finanziaria e il direttore del personale arrivarono a offrirmi cifre astronomiche. I venditori annusavano l’odore del mio vestito cercandomi come cani da tartufo, gli stagisti correvano impazziti urlando il mio nome e il megadirettore era ormai entrato in crisi mistica: si spogliò completamente e cominciò a descrivere in modo dettagliato la fine del mondo.
La situazione era sfuggita di mano. Afferrai la “Coscia di Prosciutto d’Oro Gigante” (che mi spettava di diritto) e mi incamminai velatamente verso l’uscita di sicurezza, lasciandomi quella scena apocalittica alle spalle.
Uscita, mi rifugiai in un furgone dei panini accanto alla stazione centrale: le forti emozioni della serata mi avevano fatto ritornare la fame. Mentre rimboccavo con parti del mio vestito un panino appena preso (il mio after dinner preferito: nuggets di pollo, fiori di zucca, salsa rosa, peperoni, astice e salsa barbecue), riflettei sulle mie responsabilità per quello che era accaduto alla festa. Avere troppo a cuore i valori dell’azienda era forse un reato? No. E avere un corpo da reato, invece, lo era? No di certo.
Decisi di non chiudere la serata con mille pensieri in testa e, dopo alcune fermate a bordo della 90, finii in un party sudamericano al parco Trotter. Era ancora presto per andare a dormire, la notte era giovane e via Padova era molto lunga.
Il giorno dopo presentai a malincuore le mie dimissioni dall’azienda di salumi. Una decisione difficile che in quel momento storico (non potete capire l’hangover di quella mattina) mi sembrò la scelta migliore, anche perché i miei nuovi impegni televisivi richiedevano sempre più tempo.
Il boom economico non poteva tenere testa al mio boom personale.
Ero ufficialmente uno spettacolo di donna.