Nel corridoio, fuori dall’ufficio della preside, c’era una sedia di plastica rossa. La chiamavano la Graticola e alle nove e un quarto di un martedì mattina, Alec Spencer ci era seduto sopra.
Durante le elementari alla Bald Ridge School, Alec si era ritrovato molte volte sulla Graticola; aveva perso il conto a un certo punto della quinta. Quella mattina era la prima volta che veniva mandato dalla preside da quando era in prima media… Peccato che fosse il primo giorno di scuola e che Alec fosse in prima media da meno di tre quarti d’ora.
Si poteva finire sulla Graticola per un centinaio di motivi diversi, quasi tutti abbastanza normali: rispondere a un insegnante, bullizzare, picchiare o spintonare qualcuno, tirare il cibo a mensa, cose del genere.
Ma Alec era un caso speciale. Lui sulla Graticola ci finiva tutte le volte per lo stesso motivo: per essere stato beccato a leggere. Non importava cosa stesse leggendo o come: il motivo era dove e quando leggeva.
Forse era colpa dei suoi genitori, che avevano passato ore e ore a leggergli storie ad alta voce quando era piccolo. O forse la colpa era del Piccolo Bruco Maisazio, o magari del Gatto e il cappello matto. Ma non c’era dubbio sul fatto che Alec avesse amato i libri fin da bambino. Se iniziava un libro, Alec doveva arrivare a metà, perché la metà lo portava sempre alla fine della storia. E Alec doveva sapere cosa succedeva dopo, a qualunque costo.
Quel giorno era un esempio perfetto. Solo venti minuti prima Alec era alla lezione di arte della prima ora e la professoressa Boden aveva distribuito carta e matite a tutti, dicendo: «Ora fate un rapido schizzo di questa ciotola di mele, ma non scrivete il vostro nome sui disegni. Tra cinque minuti li ritiro, li attacchiamo alla parete e ne parliamo insieme. Va bene? Forza, iniziate».
In fondo all’aula, Alec era sembrato chino sul suo foglio, intento a disegnare. Ma quando la professoressa si era avvicinata, aveva scoperto che Alec era curvo su un libro… come era successo molte, molte altre volte in passato. La professoressa quindi l’aveva spedito immediatamente dalla preside.
Suonò la campanella della seconda ora e il corridoio si riempì di ragazzini, che quando stavi sulla Graticola era la cosa peggiore, perché così tutta la scuola sapeva che eri stato mandato dalla preside.
Però Alec non era seduto e basta. Stava anche leggendo. Il libro si intitolava Il sommo re e Alec immaginava di brandire una spada e di correre insieme al protagonista verso la battaglia per salvare il regno. La campanella, i ragazzini, le risate, le chiacchiere… per Alec erano tutti suoni lontani, come se ci fosse stata una TV accesa nella stanza accanto.
Una voce più forte all’improvviso pretese la sua attenzione. «Ehi, non sentite ’sta puzza?»
Senza alzare gli occhi dal libro, Alec riconobbe la voce. Era Kent Blair, un ragazzino che abitava nella sua stessa via e che una volta era suo amico. Ora invece Kent lo prendeva in giro quando Alec finiva nei guai, e a scuola era molto popolare. Facevano insieme arte alla prima ora, perciò non era una coincidenza che fosse spuntato proprio in quel momento.
Alec si costrinse a tenere gli occhi sulla pagina, ma aveva capito che Kent era a pochi passi da lui, insieme ad altri due. Parlava a voce altissima e annusava l’aria con grande ostentazione.
«Bleah! Ma davvero non la sentite?»
Uno degli altri due disse: «Mi sa che sono gli spaghetti della mensa».
Kent si voltò lentamente verso Alec e finse di vederlo solo allora. «Oooh! Guarda!» Lo indicò. «È Alec Spencer sulla Graticola! È puzza di Topo di biblioteca fritto, allora! Ah ah!»
Gli altri si misero a ridere. «Ah, sì! Topo fritto!»
Alec alzò la testa e li fulminò con un’occhiataccia. Stava per rispondere con un insulto quando i tre smisero di ridere e se ne andarono, in fretta.
Qualcosa si mosse alla sua sinistra e Alec si voltò. La preside Vance teneva aperta la porta del suo ufficio.
«Ora puoi entrare, Alec.»
La sedia di fronte alla scrivania della preside era identica alla Graticola nel corridoio: plastica rossa dura con le gambe di metallo nero. Alec ripensò a quanto gli sembrava grande in prima elementare e a quanta paura aveva avuto le prime volte. Oggi la sedia era perfetta per lui, che si sentiva a casa.
La preside era sempre uguale: capelli castano-grigi lunghi fin quasi sulle spalle, giacca e camicetta (a volte maglione e camicetta). E portava sempre una collana di piccole perle. Alec non l’avrebbe definita bella, ma non era nemmeno brutta.
Faceva quella solita cosa con i gomiti sulla scrivania e le mani unite. Sembrava che stesse pregando… e forse era così. Portava occhiali senza montatura, con lenti spessissime che facevano sembrare i suoi occhi castani enormi. Quando lo guardava in quel modo, Alec si sentiva come un insetto sotto la lente di ingrandimento.
Sapeva benissimo che non era il caso di sorridere, né di parlare per primi. Così aspettò.
L’attesa durò solo cinque o dieci secondi, ma gli sembrò eterna. Poi la preside Vance separò le mani e incrociò le braccia sulla scrivania. Parlò lentamente e a voce molto bassa, muovendo appena le labbra, con gli occhi stretti.
«Alec, Alec, Alec… che dobbiamo fare?» Quando pronunciò la parola “fare”, inarcò con forza le sopracciglia.
Alec rimase perfettamente immobile. La preside in passato lo aveva sgridato, gli aveva puntato l’indice contro, aveva pestato i pugni sulla scrivania. Ma questa? Questa era una novità.
Aprì una cartellina. «Ho controllato i tuoi voti e i risultati dei test dell’anno scorso. Non erano eccezionali, ma nemmeno brutti come avevo pensato.» S’interruppe e lo guardò negli occhi. «Ma per quanto riguarda il comportamento, il metodo di studio e la partecipazione in classe… la quinta è stata un disastro!» Fece un’altra pausa, poi aggiunse: «Sai quante volte sei stato mandato da me l’anno scorso perché leggevi in classe anziché ascoltare e partecipare alla lezione?».
Alec stava per rispondere undici, ma decise che era meglio tenere la bocca chiusa. Fece segno di no.
La preside Vance si sporse in avanti. «Quattordici volte!»
Un’altra lunga pausa. «I tuoi insegnanti e io sappiamo quanto sei intelligente, Alec. Tutti ammiriamo il tuo amore per la lettura. Non credo di aver mai conosciuto nessuno che ami i libri quanto te. Ma se la lettura, tutti i santi giorni, viene prima dei compiti e dello studio è un problema, che sta peggiorando di anno in anno. A partire da oggi le cose devono cambiare… e sai già di cosa parlo. Se il tuo comportamento in classe non cambia, richiederò per te la frequenza di un programma speciale sul metodo di studio. Il programma inizia una settimana dopo la fine delle scuole, a giugno, e dura sei settimane, tre ore al giorno, tutte le mattine. Se il tuo atteggiamento rimane questo, passerai l’estate così. Hai capito?»
Alec deglutì, con la testa che girava. Tutta l’estate senza poter andare nel New Hampshire a casa dei nonni, senza nuotare nel lago… e senza sci nautico!
La preside ripeté la domanda. «Hai capito?»
«Sì.»
«Bene. Ho detto ai tuoi insegnanti di tenerti d’occhio e di mandarti subito da me se ti scoprono a leggere o a distrarti in classe. Invierò anche una lettera formale ai tuoi genitori per spiegare loro che la situazione è grave. E dopo i risultati del primo quadrimestre su rendimento e comportamento, vedremo quali saranno i passi successivi.»
Compilò un permesso giallo per circolare nel corridoio, lo strappò dal blocchetto e glielo porse.
«Ora vai alla lezione della seconda ora. Non voglio rivederti qui per il resto dell’anno.»
Alec si alzò, prese il permesso e uscì senza dire una parola.
Un mese e mezzo di scuola estiva? Per imparare a studiare?! Era una cosa terribile da sentire il primo giorno della prima media. Ma… per quanto l’idea gli facesse schifo, la preside aveva anche detto che era un tipo brillante e che sapeva già cosa doveva cambiare. Sembrava molto facile: non doveva far altro che smettere di leggere in classe e stare più attento.
Perciò, man mano che si allontanava dalla presidenza, era sempre meno preoccupato. Ma poi pensò: Avrà chiesto davvero a tutti gli insegnanti di tenermi d’occhio? O lo dice a tutti quelli che si mettono nei guai?
Era una domanda lecita e la risposta arrivò subito. Perché quando si affacciò, in ritardo, all’aula di matematica per la seconda ora, Alec scoprì che la professoressa Seward gli aveva riservato un posto in prima fila, proprio al centro.
E poi, alla terza ora, il professor Brock aveva scritto il suo nome su uno dei primi banchi. Alec rimase stupito dalla capacità della preside di farlo sedere dove voleva lei.
Tuttavia questa faccend...