A cosa serve ridere?
«Verba vana aut risui apta non loqui!»
Ovvero, per chi ha fatto ragioneria, meglio non pronunciare parole inutili che inducono al riso. Precisazione superflua, perché le parole in questione le conosciamo tutti o quasi: sono quelle con cui si presenta Jorge da Burgos, il vecchio monaco domenicano de Il nome della rosa, capolavoro suo malgrado di Umberto Eco. Libro che, a sua volta, è proprio sul tema del ridere.
Tutta la trama, infatti, è incentrata sulla perdita e la ricerca del secondo libro della Poetica di Aristotele, quello sulla commedia: perdita giudicata inestimabile da Guglielmo da Baskerville, e invece auspicata dal suo antagonista, per l’appunto il vecchio e cattivissimo Jorge, che punteggia i suoi discorsi di granitiche citazioni («Giovanni Boccadoro ha detto che Cristo non ha mai riso» sostiene Jorge, evidentemente convinto che il vescovo di Antiochia conoscesse Gesù personalmente, pur essendo nato circa trecentocinquanta anni dopo).
Ridere, sostiene Jorge, è cosa da sciocchi, e ci avvicina agli animali. È una fortuna che il vecchio monaco non conoscesse la teoria evoluzionistica di Darwin, altrimenti avrebbe potuto sostenere che ridendo si favoriva il regresso della specie – ma sarebbe stato costretto ad ammettere la teoria darwiniana, e questo sarebbe bastato e avanzato per spedirlo sul rogo, anche parecchi secoli più avanti.
Per chi ama ridere, per chi come me è convinto che ridere sia invece un tratto fondamentale dell’essere umano, e che sia una delle manifestazioni più alte dell’intelligenza, spesso questo risulta uno scoglio. Il riso è associato alla stupidità. Risus abundat in ore stultorum. Ridicolo, si dice di un comportamento di cui ci si dovrebbe vergognare, invece di esibirlo in pubblico: acconciature inadeguate, cariche istituzionali o sociali di nullo valore, essere nati a Livorno, ecc. ecc.
C’è una associazione forte, a volte, tra il riso e la stupidità.
Se crediamo alla teoria di Darwin, dobbiamo ammettere che ognuno dei comportamenti pervasivi dell’essere umano sia strettamente legato a un vantaggio evolutivo, che ci favorisca come specie. Ognuna delle caratteristiche che abbiamo e che riteniamo tipicamente umane, anche se personalmente le riteniamo assurde, deve in qualche modo aver favorito l’Homo sapiens nel suo lunghissimo progetto di conquista del mondo.
Cercheremo adesso di capire perché il riso sarebbe un vantaggio evolutivo.
Inizieremo dalla filosofia, faremo una gitarella intorno alla semiotica, e infine arriveremo alla psicologia cognitiva.
Ancora Bergson, tanto per gradire
Nel 1945, la Warner Brothers venne a sapere che la United Artists stava preparando una parodia del loro capolavoro di tre anni prima, Casablanca; tutto quello che sapevano, però, era che il film si sarebbe intitolato Una notte a Casablanca e che gli interpreti sarebbero stati i fratelli Marx.
Secondo una leggenda popolare, la Warner Brothers inviò una lettera ufficiale agli studi della United Artists diffidandoli dall’usare il nome «Casablanca» nel titolo del film. È bene essere precisi: la lettera venne effettivamente inviata, dai legali della Warner, ma quale fosse il reale contenuto della stessa non è noto.
Molto più famosa, invece, la risposta che Groucho Marx inviò, tramite lettera aperta, agli studi legali della Warner Brothers.
Cari fratelli Warner,
apparentemente c’è più di un modo per conquistare una città e tenersela per sé. Per esempio, fino al momento in cui abbiamo contemplato l’idea di fare un film, non avevo idea che la città di Casablanca appartenesse esclusivamente alla Warner Brothers.
Comunque, pochi giorni dopo che abbiamo fatto il nostro annuncio, ci è arrivato un lungo, minaccioso documento legale che ci ammoniva a non usare il nome «Casablanca».
Sembra che nel 1471 Ferdinando Balboa Warner, il bis-bis-bisnonno di Harry e Jack Warner, mentre cercava una scorciatoia per la città di Burbank, si sia ritrovato sulle coste dell’Africa e lì, levando al cielo il suo bastone, abbia battezzato il luogo «Casablanca».
Non capisco il vostro timore. Anche se voleste riprogrammare il film nelle sale, sono sicuro che lo spettatore medio potrebbe imparare a distinguere Ingrid Bergman da Harpo. Io non so se ne sarei capace, ma di sicuro mi piacerebbe provarci.
Voi sostenete che Casablanca vi appartiene e che nessuno può usare quel nome senza il vostro permesso. Vogliamo parlare del nome «Warner Brothers»? Vi appartiene anche quello? Probabilmente avete il diritto di usare la parola Warner, ma che mi dite di Brothers? Professionalmente, siamo fratelli da molto più tempo di voi. E prima ancora dei fratelli Marx ci sono stati molti altri fratelli – i fratelli Smith, i fratelli Karamazov...
La lettera fece ribaltare dalle risate mezzi Stati Uniti, ma non la Warner, che riscrisse chiedendo ulteriori delucidazioni sulla trama. Groucho rispose con una lettera ancora più surreale.
Come era ovvio, nessuna azione legale venne avviata.
Secondo Bergson, il riso nasce come fenomeno sociale. Non la manifestazione di un singolo, ma la conseguenza del fatto che siamo in parecchi, ognuno diverso dall’altro. Il riso è uno strumento di cui la società si serve per scoraggiare e penalizzare i comportamenti asociali.
Riconosciamo la mancanza di raziocinio, la mancata capacità di mettere a fuoco una situazione con la giusta distanza, di cogliere sia le intenzioni che le conseguenze di un atto. Ridendo, in pratica, riconosciamo comportamenti meccanici, ovvero abitudini; quei comportamenti statici, ripetitivi, inflessibili, che interrompono la fluidità della vita sociale e la versatilità della sua organizzazione.
Questa rigidità è il comico, scrive Bergson, e il riso ne è il castigo.
Questo è esattamente il tipo di meccanismo che sfrutta Groucho Marx nella sua lettera: individua una reazione esagerata, rigida e zelante – una minaccia di azioni legali per un titolo di film –, forza la serratura della rigida valigetta degli avvocati con il suo allegro piede di porco e volge la situazione a suo favore.
Ho detto «individua». Avrei dovuto dire «presume», o forse «si inventa». Non so cosa ci fosse scritto nella lettera dello studio legale – che sicuramente venne inviata – ma pare sia estremamente improbabile che contenesse la minaccia di una azione legale. In realtà, probabilmente, Groucho prese la palla al balzo per fare un po’ di pubblicità al film prima ancora che si cominciasse a girarlo.
Groucho Marx, in realtà, non ride della Warner Brothers: ride di noi, di tutti quelli che rideranno credendo la Warner Brothers capace di un comportamento così cretino. E, insieme, ride con noi. Non c’è un nemico reale, una persona di cui ridere; contrariamente al concetto di riso e di comico di Bergson, che a tratti è raggelante («Perché ridiamo di un negro?» si chiede a un certo punto il filosofo, e anch’io me lo chiedo, più con preoccupazione che per speculazione), c’è solo una possibile situazione astratta, che Groucho presenta come reale, sapendo che saremo in grado di riconoscerla come se fosse vera.
Altre opinioni di Bergson sono quanto meno questionabili. Secondo lui, per esempio, «il comico nasce quando uomini riuniti in gruppo dirigono l’attenzione su uno di loro, facendo tacere la loro sensibilità ed esercitando solo la loro intelligenza». Questo perché Bergson non ritiene ridere un’emozione: la tristezza lo è, il riso no. Estremizzando, per Bergson le persone che ridono sono in ultima analisi un branco di stronzi che godono della loro superiorità intellettuale. Il riso non è un’emozione, sostiene il filosofo francese, per cui una società fatta di intelligenze pure riderebbe, ma non si emozionerebbe.
Uno dei problemi della filosofia è che malvolentieri accetta controesempi. Quella di Bergson, invece, è talmente assertiva e ben fatta che ne ammette a manciate. Per esempio, Bergson nel corso del suo testo nota che
il dramma, mentre dipinge passioni e vizii che portano un nome, li incorpora così bene nelle persone che si dimenticano i loro nomi e se ne aboliscono i caratteri generali. Mentre esso si svolge, noi non pensiamo affatto ad essi, ma alla persona che li assorbe, perciò il titolo di un dramma deve essere un nome proprio. Al contrario, molte commedie portano un nome comune: l’Avaro, il Giocatore, ecc. Se io vi chiedo d’immaginare un lavoro che abbia per titolo il Geloso, per esempio, certo vi verrà in mente «Sganarello» o «Giorgio Dandin», ma mai «Otello»; il Geloso non può essere che un titolo da commedia.
Il titolo di un dramma deve essere un nome proprio; un lavoro con un nome comune, come il Geloso o il Giocatore – Bergson fa proprio questo esempio due righe prima –, non può essere che una commedia. Sarà bene non dire a Dostoevskij, il quale quarant’anni prima aveva scritto la storia tragica di Aleksej e Polina, che Bergson comprando il suo romanzo si sarebbe aspettato di rotolarsi dalle risate.8
Anche l’affermazione che ridere non è un’emozione è, direi, pesantemente discutibile.
Da un punto di vista medico, l’emozione è:
- – uno stato mentale che emerge spontaneamente piuttosto che attraverso uno sforzo mentale conscio, ed è spesso accompagnato da cambiamenti fisiologici;9
- – un forte sentimento che emerge soggettivamente ed è diretto verso un oggetto specifico, con conseguenze somatiche, fisiologiche e comportamentali.10
A livello medico, la risata è considerata un’emozione a pieno titolo. Emerge soggettivamente (non tutti ridono per le stesse cose), causa cambiamenti nei tratti del viso, nel comportamento – dopo una bella risata di solito ci sentiamo di umore diverso rispetto a prima – e nella fisiologia. I muscoli si rilassano. La concentrazione di alcuni ormoni legati allo stress, come il cortisolo, si abbassa. Persino il sistema immunitario non è immune, abbiate pazienza per la cacofonia; già trent’anni fa venne dimostrato che i livelli di immunoglobulina A si alzavano notevolmente nei soggetti esposti a un film comico, mentre rimanevano inalterati di fronte a un video dell’Enciclopedia Britannica.11 Inoltre, emerge spontaneamente: il riso viscerale, quello di pancia, non è un qualcosa su cui ragioniamo in modo conscio.
Insomma, ci dispiace per Bergson e soprattutto per chi ci andava a cena fuori: ridere, per la medicina, è un’emozione.
Leggendo il libro di Bergson, emerge netta l’impressione che ciò che provoca il riso sia sempre una sensazione che ha per oggetto gli altri. In pratica, per Bergson si ride sempre di qualcuno. Lo stesso concetto è un po’ il punto di partenza dell’umorismo secondo Pirandello, anche se il grande autore siciliano va oltre.
Innanzitutto, Pirandello considera l’umorismo come un comportamento umano stabile nel tempo, e quindi un concetto indagabile tramite la psicologia.
Alla base del riso, sostiene, c’è l’ignoranza della realtà. Se io vedo una signora più che cinquantenne truccata e vestita come se avesse trent’anni, mi viene spontaneo riderne. Ma se io sapessi che quella stessa signora di mezza età si concia in quel modo per tentare di risultare attraente per un marito più giovane e be...