«Presidente! Se mi ascolterebbe, per favore!»
Potrebbe sembrare una frase tratta da un film di Totò, e invece è l’incipit dell’intervento in Parlamento di una deputata della Repubblica nel corso della XVII legislatura.
E questo non è stato certo l’unico svarione a rimbalzare tra i banchi di Montecitorio negli ultimi anni. I funzionari che redigono i rendiconti parlamentari cercano di essere clementi e quando trascrivono i discorsi dei deputati a volte correggono gli errori più clamorosi, aggiustano le frasi più sconclusionate, quindi molte di queste piccole perle grammaticali non lasciano traccia se non nella memoria di chi era presente.
Qualche espressione particolarmente divertente è finita sui giornali e sui social network, come l’ormai famoso «Sarò breve e circonciso» dell’onorevole Davide Tripiedi1 oppure la rivisitazione storica effettuata dall’onorevole Alessandro Di Battista durante la discussione sulle missioni internazionali, quando attribuì a Napoleone leggendarie battaglie nei campi di Auschwitz.2 Per non parlare di quando, di nuovo lo stesso Di Battista, discutendo degli interventi in Libia, citò il «premio Nobel Hollande», suscitando un vespaio di interrogativi tra i colleghi: ma quand’è che Hollande ha preso il Nobel (e soprattutto… perché)?3
Altre volte è la costruzione della frase ad assumere contorni surreali, come quando l’onorevole Carlo Sibilia, nella dichiarazione finale di voto sul cosiddetto decreto banche del 13 luglio 2017 che accusava il governo di non aver saputo trattare: «Questo che era un problema che dal 2001 si era a conoscenza».4
Ci sono poi dei deputati che hanno alcune espressioni ricorrenti alle quali, evidentemente, sono molto affezionati e che ripetono spesso nel corso dei loro interventi in Aula. I rappresentanti del Movimento cinque stelle, per esempio, sono molto legati al termine «supercazzola». Un momento altissimo nella storia dei dibattiti parlamentari risale al 25 febbraio 2014, quando l’onorevole Massimo Baroni esclamò: «Continuiamo con queste menzogne. Mi scusi il termine, volevo dire supercazzole però mi sono automoderato».5
L’onorevole Alfonso Bonafede, nel febbraio 2015, durante la sua prima legislatura, ha pensato che valesse la pena postare sul canale ufficiale YouTube del Movimento cinque stelle il video di un suo intervento parlamentare dal titolo «Dite supercazzole per coprire un precedente gravissimo!» come fosse un discorso alla nazione. In realtà sembrava di vedere il conte Mascetti finito tra i banchi di Montecitorio come per uno scherzo dello sceneggiatore o come se fosse un’ennesima «zingarata». Ma non si trattava del conte Mascetti, bensì di un deputato della Repubblica, lo stesso che di lì a poco sarebbe divenuto ministro della Giustizia nel governo formato da Lega e Movimento cinque stelle.
Le cose migliori però vengono fuori durante le sedute delle commissioni, perché lì gli interventi non sono registrati né trascritti parola per parola e i parlamentari si esprimono con maggior libertà.
È in queste occasioni che sono emerse espressioni molto divertenti come l’esclamazione indignata del deputato Andrea Cecconi che il 2 maggio 2017, durante un dibattito in Commissione affari istituzionali su uno dei decreti Madia, prima rimproverò il governo per la proroga attuativa ammonendo: «A noi ci pareva che i tempi di attuazione erano sufficienti» e poi, facendo riferimento a un precedente decreto, tuonò: «Capisco tutto, ma che non esisti un collegamento tra le due cose non è accettabile!».
Ma sarebbe ingiusto limitarci agli esponenti del Movimento cinque stelle. Anche all’interno degli altri partiti vi sono personaggi che non brillano per istruzione o preparazione sia sulla grammatica sia su altre materie altrettanto fondamentali. È più difficile identificarli, perché spesso sono defilati, fanno pochi interventi in Aula e hanno maggior controllo delle proprie esternazioni. Ma qualche esempio capita.
Il 25 settembre 2018 la deputata leghista Francesca Gerardi, nel discutere una mozione su Roma Capitale, ha ricordato che «a Roma viene attribuita una speciale autonomia statuaria».6 Certamente in tema di statue Roma non dipende da nessuno…
Per scovare e stanare i politici poco preparati nei vari schieramenti si sono attivati anche alcuni giornalisti.
La trasmissione Le Iene, per esempio, per molti mesi ha appostato un’inviata all’uscita di Montecitorio col compito di fermare i nostri politici e tempestarli di domande a bruciapelo su fatti di cronaca, attualità, storia, geografia, economia, mandando poi in onda un collage delle risposte più improbabili e facendo emergere un quadro abbastanza sconcertante e assolutamente bipartisan.
Altre trasmissioni e testate giornalistiche si sono dilettate in simili esercizi, come l’indagine condotta da «la Repubblica» nel giugno 2017. Erano i giorni in cui si discuteva la legge sullo ius soli, sulla concessione della cittadinanza ai figli di cittadini stranieri nati in Italia. La Lega, che avversava fortemente il provvedimento, propose di sottoporre tutti gli stranieri a un «test di cittadinanza» che verificasse la conoscenza della nostra storia, la nostra lingua, la nostra Costituzione. Il giornalista pose quindi a un piccolo campione di senatori leghisti che uscivano da Palazzo Madama alcune semplici domande proprio su questi temi: la nostra storia, la nostra lingua, la nostra Costituzione. Quattro su cinque sostennero che «qual è» si scrive con l’apostrofo. Soltanto uno indovinò il nome del primo presidente della Repubblica italiana, solo uno si ricordava l’articolo 3 della Costituzione, quello che riguarda l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, e che è di gran lunga il più citato nelle aule parlamentari. Nessuno degli intervistati rispose a una domanda su un congiuntivo.7
Questa appena descritta non è che una breve panoramica sugli errori e gli strafalcioni di alcuni nostri politici, e in fondo non ci dice niente di nuovo a parte forse strapparci qualche sorriso.
Ma congiuntivi e svarioni lessicali non sono che la punta dell’iceberg di un fenomeno assai più ampio, profondo e preoccupante, ovvero la crescente incapacità della politica di attrarre, selezionare e formare persone preparate, competenti, in grado non solo e non tanto di coniugare correttamente i verbi, ma di analizzare e dare risposte serie ai cambiamenti e alle innovazioni che attraversano la nostra società. Il congiuntivo, in sé, è del tutto irrilevante. Al contrario, l’incapacità di distinguere tra informazioni scientifiche e bufale, di riconoscere la differenza tra ciò che sostiene uno scienziato e un santone, di individuare le cause profonde della crisi di un settore industriale, un sistema produttivo o un territorio, di saper analizzare tutti gli aspetti di un fenomeno e trovare una sintesi, o valutare tutte le implicazioni e i potenziali effetti di una politica economica, sono mancanze molto gravi. Perché fanno la differenza tra una gestione della cosa pubblica improvvisata e raffazzonata e una gestione oculata e lungimirante.
L’ignoranza divertente che affiora dai nostri politici molto spesso nasconde quest’altro tipo di incompetenza. E così ci ritroviamo rappresentati da chi, come il deputato Cinque Stelle Paolo Bernini, sostiene che i governi «iniettino dei microchip» sotto la pelle dei cittadini per controllarli e la sua convinzione non deriva da dossier top secret della Casa Bianca o della Cia, ma da alcuni film-documentari sul web realizzati e prodotti dal musicista californiano Peter Joseph e non esita a diffondere questa notizia sui social e presso i propri elettori come fosse una verità scientifica. O come la pentastellata Tatiana Basilio, che osteggia i sonar dei sottomarini perché ritiene che possano disturbare le sirene. Ci sono anche deputati che si oppongono ai vaccini perché alcuni sedicenti guru o blogger improvvisati sostengono che i vaccini provocano più danni che benefici e sono i responsabili di terribili malattie.
L’ignoranza dei nostri rappresentanti può avere conseguenze enormi sulle politiche sociali ed economiche e, in generale, sulla salute e sulla qualità della vita di noi cittadini.
Nel libro La conoscenza e i suoi nemici. L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia, il professore statunitense Tom Nichols ricorda che alla fine degli anni Novanta il presidente del Sudafrica Thabo Mbeki aveva creduto alle teorie del biologo Peter Duesberg dell’Università della California che sosteneva che l’Aids non fosse causato dal virus Hiv. Quella convinzione aveva portato Mbeki a rifiutare per anni aiuti e medicinali da parte dei Paesi occidentali per combattere la diffusione dell’Hiv. Una scelta che secondo le stime dei medici della Harvard School of Public Health ha causato la morte di circa trecentomila persone e l’infezione di trentacinquemila bambini alla nascita. Può apparire un esempio estremo, ma sono molte le decisioni politiche prese quotidianamente che hanno un impatto sull’ambiente, sull’accesso ai servizi sanitari, istruzione, lavoro, e altri elementi fondamentali per la crescita e il nostro benessere individuale e collettivo.
L’ulteriore aspetto cruciale del problema è che nessuno oggi sembra sufficientemente preoccupato da questo fenomeno. Ci si limita agli aneddoti, alle gag e allo sfottò televisivo, si parla degli strafalcioni perché fanno ridere, ma non ci si interroga su quello che davvero sta accadendo nel sistema politico italiano né si interroga la politica sui criteri di selezione e formazione della propria classe dirigente. Chi lo fa spesso rievoca in modo nostalgico il passato (come se nella Prima Repubblica i politici fossero tutti dei premi Nobel e oggi tutti capre), ma manca un’analisi sistematica del fenomeno, e soprattutto delle sue cause. È temporaneo o siamo di fronte a un graduale ma inesorabile cambiamento del Dna dei nostri rappresentanti politici? Quando e perché è iniziato questo cambiamento, e quanto è profondo? Riguarda solo un partito o tutto un sistema?
Provare a rispondere a queste domande è fondamentale se vogliamo davvero capire quello che sta accadendo alle classi dirigenti politiche del nostro Paese e provare a cambiare rotta. D’altronde se siamo arrivati a questo punto ci saranno dei motivi, ed è inutile lamentarsi del presente senza offrire una disamina e delle possibili soluzioni.
Ecco, questo è l’obiettivo delle analisi proposte nei capitoli che seguono: andare oltre l’aneddoto, oltre la risata e la «macchiettizzazione» per comprendere che cosa sta succedendo e perché, guardando ai dati e alla storia.
Chi è il «buon politico»?
Partiamo ponendoci una domanda ovvia ma fondamentale: quali competenze dovrebbe possedere un «buon politico»?
Per diventare un «buon politico» non esiste un percorso formativo standard, un esame o un’abilitazione a cui sottoporsi ed è difficile darne una definizione univoca. Di sicuro le cose che dovrebbe conoscere e saper fare sono molteplici e spaziano in ambiti diversi: riguardano conoscenze sia di cultura generale, sia di tipo gestionale, organizzativo, in alcuni casi anche di natura tecnica. Ma non si può negare che sia importante, anzi basilare, anche la capacità di relazionarsi con le persone, di comunicare, coinvolgere, persuadere sia i cittadini sia i colleghi, così come l’abilità di intavolare e concludere trattative, negoziare, trovare mediazioni e tutta una serie di attitudini squisitamente politiche. Le doti necessarie variano a seconda del ruolo che il politico riveste e del contesto in cui opera. Le competenze richieste saranno infatti diverse se ricopre un incarico di governo (ministro, viceministro o sottosegretario), se ha una funzione amministrativa (sindaco, assessore), se svolge un ruolo legislativo (deputato, senatore) o strettamente d’apparato partitico (segretario o funzionario di partito). Ma non si tratta solo di una differenza legata al ruolo, ma anche a come questo viene interpretato. Per esempio, un buon ministro, per essere tale, dovrà avere competenze maggiormente tecniche – relative alle materie che afferiscono al suo dicastero – oppure manageriali, per poter gestire le persone e i programmi del ministero, oppure di tipo politico, per poter negoziare, convincere e comunicare al meglio?
Idealmente dovrebbe essere dotato di tutte e tre le caratteristiche, ma nella pratica ciò accade raramente e si registrano filosofie del tutto diverse nella scelta dei ministri. I governi più politici privilegiano, come è prevedibile, la capacità di seguire processi di negoziazione e rispondere a logiche di tenuta e consenso più che le competenze tecniche. È sulla base di questa logica che abbiamo avuto politici che nella loro carriera sono stati indifferentemente ministri della Salute e dei Trasporti, dell’Ambiente e della Cultura.
Di questo approccio è stata maestra la Democrazia cristiana, che ha elevato al massimo livello la logica della versatilità delle competenze politiche e della loro supremazia sulle competenze tecniche. Basta pensare a figure illustri come Remo Gaspari, avvocato, dieci volte deputato e sedici volte ministro, che si è ritrovato a guidare dicasteri di ogni genere: Trasporti, Sanità, Pubblica amministrazione, Poste e Telecomunicazioni, Difesa, Protezione civile, Mezzogiorno, Rapporti con il Parlamento, Regioni e pure della Funzione pubblica. Analogo profilo per un’altra pietra miliare della Democrazia cristiana, Emilio Colombo, undici legislature da deputato, due da eurodeputato e quattro da senatore, esperienza da primo ministro e da ministro di materie diversissime come Agricoltura, Esteri, Finanze, Bilancio, Commercio, Tesoro, Industria.
I governi tecnici, dal canto loro, tendono invece a privilegiare accademici e alti funzionari, proprio per la maggior enfasi data alle competenze tecniche rispetto a quelle politiche in senso stretto. Figure che, proprio per questa caratteristica, hanno solitamente carriere politiche molto brevi e circoscritte.
Stessa questione «interpretativa» si pone per i parlamentari: devono essere più inclini a rappresentare le istanze del territorio dove sono stati eletti, della categoria sociale ed economica che ne ha sostenuto l’elezione, oppure devono dedicarsi maggiormente al processo legislativo avendo in mente solo il bene collettivo della nazione? Le due cose implicano competenze diverse: rappresentare e dare voce è una cosa, mentre elaborare proposte legislative e valutarne fattibilità e impatto è tutt’altra storia.
Ma pur esistendo tutte queste differenze e sfumature,8 il nostro obiettivo è individuare alcune caratteristiche specifiche che ciascun politico dovrebbe possedere a prescindere dal ruolo o dalla funzione che riveste. La scienza però non ci viene in aiuto perché, stranamente, sono molto pochi gli studi che si sono occupati di questo tema. La psicologia delle organizzazioni ha indagato a fondo le caratteristiche e le competenze individuali che determinano il successo e le carriere di lavoratori e manager, ma si è raramente interessata alle caratteristiche e alle competenze dei «buoni politici».
Una eccezione è rappresentata dall’analisi di Jo Silvester, ricercatrice inglese che agli inizi degli anni Duemila si è interessata ai processi di selezione dei politici e dei membri del Parlamento britannico ed è riuscita a effettuare uno studio empirico sui candidati del Partito conservatore che si sono presentati alle elezioni politiche del 2005. Attraverso interviste con esperti ha identificato sei principali competenze necessarie per un politico, che vanno dalle capacità relazionali e comunicative, a quelle motivazionali e organizzative, fino al pensiero critico (necessario per argomentare ed elaborare soluzioni per problemi complessi). Ha quindi condotto delle valutazioni approfondite su un campione di candidati lungo queste dimensioni, confrontando infine i risultati di tali test con gli esiti elettorali di ciascun candidato, per capire se buoni risultati si traducessero poi in buoni risultati elettorali (assumendo che il risultato elettorale fosse un indicatore della «qualità» del futuro parlamentare).9
Curiosamente, la caratteristica che ha mostrato la correlazione più significativa con la capacità del candidato di prendere voti, e, soprattutto, di sottrarre voti agli altri partiti, era il pensiero critico, ovvero l’abilità nel processare, comprendere e analizzare grandi quantità di informazioni, identificare le priorità, fare sintesi tra argomenti contrapposti, elaborare soluzioni. Una propensione che spesso non viene considerata dai dirigenti di partito nella selezione dei candidati, che tendono a privilegiare categorie come la capacità di comunicare, ...