Balle mortali
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Balle mortali

  1. 176 pagine
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Balle mortali

Informazioni su questo libro

«Le bugie, si dice, hanno le gambe corte. Ma quando riguardano la salute corrono abbastanza velocemente da raggiungere chi le crede e ucciderlo.»
In questo libro, Roberto Burioni esamina da vicino una serie insieme tragica e grottesca di bufale pericolose, anzi di balle mortali che ci mettono davanti agli occhi i rischi di affidarci ai ciarlatani invece che ai dati certi, alle prove sperimentali, al metodo scientifico della medicina. Un bambino muore per un'otite curata con l'omeopatia invece che con antibiotici; una donna soccombe a un linfoma perché invece che a un oncologo si affida alla Nuova Medicina Germanica; una ragazzina non si risveglia da un coma diabetico perché i genitori ascoltano chi consiglia di somministrarle vitamine anziché insulina.
Le promesse non mantenute di Stamina e del metodo Di Bella - due tra le pagine più buie della storia recente del nostro Paese - ricordano quelle alimentate, decenni prima, dal segreto "siero" anticancro di Liborio Bonifacio, ricavato in realtà da escrementi di capra. E sono centinaia di migliaia, nel mondo, le vittime delle sciocchezze divulgate dai negazionisti per i quali non è il virus HIV a causare l'AIDS. Cosa possiamo fare per difendere la nostra salute, quella dei nostri cari e dell'intera comunità dai danni prodotti dalle balle mortali? Dobbiamo difendere prima di tutto la ragione e la scienza, cioè quel metodo che da secoli ha permesso alla medicina di vincere malattie un tempo incurabili e aumentare non solo la durata ma anche la qualità della nostra vita; quel metodo oggi sotto attacco da parte della disinformazione e del nuovo oscurantismo in cui proliferano i ciarlatani. In campo medico, le fake news possono uccidere, ed è un dovere civico smascherarle.

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Informazioni

1

L’HIV non causa l’AIDS

Correva il 1992 e Christine Maggiore era una donna felice e di successo; proveniva da una famiglia benestante, aveva 36 anni, non aveva problemi economici ed era molto attraente. Era cresciuta e viveva nella California del Sud, un luogo bellissimo dal clima eccezionale, dove, studiando marketing e pubblicità, aveva costruito le basi di una brillante carriera professionale e di una vita piena di soddisfazioni. Con coraggio era partita giovanissima per un lungo viaggio tra Africa ed Europa e poi si era stabilita a Firenze, dove aveva abitato due anni. Nel frattempo l’azienda che aveva fondato sei anni prima, Alessi International, era diventata un’impresa di grande successo, che fatturava molti milioni di dollari all’anno importando ed esportando abiti e accessori di moda.
Tutto questo, purtroppo, finì improvvisamente. Durante un controllo medico di routine, Christine scoprì di essere sieropositiva, termine con il quale nel linguaggio comune si indicano i pazienti che nel loro sangue hanno degli anticorpi che si legano in maniera specifica al virus dell’immunodeficienza umana (HIV, Human Immunodeficiency Virus). Avere nel sangue degli anticorpi diretti contro un virus significa in maniera inequivocabile che proprio da quel virus si è stati infettati nel passato. Non sempre è un dato negativo: per esempio, se si hanno anticorpi contro il virus del morbillo, questo indica che si è contratta l’infezione, si è guariti e si è dunque immuni per sempre da questa malattia; oppure che si è stati vaccinati con successo. Per l’HIV, invece, il discorso è diverso: chi si infetta non guarisce più, e rimane infettato (e infettivo, se non si cura) per tutta la vita. Quindi trovare gli anticorpi ha implicazioni ben differenti: se non ti sottoponi alle terapie puoi trasmettere agli altri la malattia, e muori.
In quegli anni la diagnosi di infezione da HIV era molto vicina a una condanna a morte: non erano disponibili cure efficaci e l’infezione conduceva infallibilmente a una forma gravissima di distruzione del sistema immunitario, l’AIDS (Acquired Immune Deficiency Syndrome, sindrome da immunodeficienza acquisita), inesorabilmente mortale. L’HIV aveva lasciato dietro di sé una scia terribile di lutti: qualunque sia la vostra passione, a causa dell’AIDS avete perso una persona che apprezzavate e conoscevate. Anthony Perkins, l’indimenticato protagonista di Psycho, il cantante dei Queen Freddie Mercury, lo scrittore di fantascienza Isaac Asimov, il filosofo francese Michel Foucault, il ballerino russo Rudolf Nureyev, lo straordinario narratore di viaggi Bruce Chatwin, i fotografi Herb Ritts e Robert Mapplethorpe, il pittore Keith Haring, il tennista Arthur Ashe. Tutti morti di AIDS. In Italia, tra i tanti, ci sono stati strappati via da questa malattia Pier Vittorio Tondelli e Dario Bellezza. Molti di questi sfortunati l’hanno contratta tramite una trasfusione, perché fino a quando l’HIV non è stato isolato non c’era modo di sapere se una persona fosse sieropositiva, dato che non esisteva un metodo per dimostrare la presenza nel sangue di anticorpi contro l’HIV, e quindi non si potevano escludere dalle donazioni le persone infettive. Fare una trasfusione o un trapianto era sostanzialmente un giro di roulette russa, e non sempre andava bene.
Quando apprese di essere sieropositiva, Christine Maggiore rimase distrutta dalla notizia: pensava di avere scioccamente e irrevocabilmente rovinato la propria vita. Dapprima si chiuse in se stessa, conducendo un’esistenza appartata, ma presto il suo carattere di donna dinamica prese il sopravvento; cominciò a impegnarsi con passione in una lunga serie di iniziative benefiche in favore della ricerca sull’HIV e per la prevenzione del contagio. Era giovane, di successo, dotata di un’eloquenza sciolta ma rigorosa: la persona ideale per andare a parlare nelle scuole e spronare i ragazzi e le ragazze a fare di tutto per evitare la trasmissione di questa malattia. Però, nonostante la diagnosi terribile, lei si sentiva bene, non aveva nessun disturbo e questo non le tornava. Non la convinceva il fatto di essere allo stesso tempo ammalata di un’infezione mortale e avere la sensazione di forza e di salute che stava provando.
Non sapeva, purtroppo per lei e per la sua famiglia, che l’HIV è un virus molto particolare, in grado di stabilire, con l’ospite nel quale si replica, un rapporto diverso da quello di molti altri agenti infettivi. Come hanno dimostrato studi molto complessi, l’HIV è passato all’uomo dalle scimmie nei primissimi anni del Novecento. Non sappiamo esattamente come sia successo, ma la cosa più probabile è che alcuni abitanti dell’Africa subsahariana (verosimilmente in quello che oggi è il Camerun), cacciati nelle foreste dai colonizzatori, non avendo altre possibilità per nutrirsi si siano messi a cacciare e a mangiare le scimmie. In quella zona circolava un virus simile all’HIV, ma delle scimmie (per essere precisi, degli scimpanzé), che in qualche modo (un morso, un taglio mentre si preparava la carne, non lo sapremo mai con certezza) è riuscito a infettare una persona, adattandosi al nostro organismo e diventando un virus umano, capace in altre parole di trasmettersi da uomo a uomo.
L’HIV è circolato in maniera molto limitata in Africa fino alla fine degli anni Settanta. Nel 1981 due medici, uno in California e uno a New York, descrissero come due malattie rarissime (una polmonite causata da un microrganismo oggi noto come Pneumocystis jirovecii, e un tumore della pelle detto sarcoma di Kaposi) si stavano manifestando con una inspiegabile frequenza nella comunità gay, in persone giovani affette da una gravissima immunodepressione. Agli inizi, comprensibilmente, si pensò a una malattia legata alle pratiche omosessuali, ma ben presto si capì che tutti potevano esserne colpiti, a prescindere dagli orientamenti sessuali. L’HIV era arrivato negli Stati Uniti e quelli erano i primi casi di AIDS. Era iniziata l’epidemia, quella vera.
L’HIV è un virus che si trasmette in tre modi: con il sangue (quindi siringhe infette, trasfusioni non controllate e cose simili); da madre a figlio durante la gravidanza e l’allattamento; con i rapporti sessuali, in quest’ultimo caso in maniera non troppo efficiente (ne riparleremo più avanti). Mentre il morbillo e l’influenza, contagiosissimi, riescono a infettare mediante tosse e starnuti un individuo suscettibile nei pochi giorni della malattia acuta che segue l’infezione, l’HIV non ce la fa. A differenza di quei virus, per trasmettersi l’HIV ha bisogno di contatti intimi. Cosa c’è di più intimo del rapporto fra un bimbo che sta per nascere e sua madre? O del contatto con sangue altrui tramite trasfusioni? O di un rapporto sessuale? Tutti eventi sicuramente molto meno frequenti di uno starnuto che, invece, è sufficiente a consentire il contagio del morbillo e della varicella. Questo è il motivo per cui, per manifestarsi in maniera evidente, l’HIV può impiegare anni. Anni durante i quali il virus deve continuare a replicarsi all’interno del paziente, rendendolo infettivo ma lasciandolo in perfetta salute: infatti una persona malata non dona il sangue e ha difficoltà ad avere rapporti sessuali. Il virus, per trasmettersi con il massimo successo, non deve dare nessun sintomo o segno esteriore della sua presenza, il paziente deve sentirsi e sembrare sano: questo conviene al virus, e questo accade.
Se chi è infettato dall’HIV fosse ricoperto di lesioni cutanee come chi ha la varicella o avesse la febbre alta, il virus non passerebbe con facilità da una persona all’altra; invece chi ha contratto l’HIV sembra stare benissimo per anni, e durante quel periodo può trasmettere ad altri la malattia. Nel frattempo, però, in questa fase di apparente salute, il virus si moltiplica uccidendo alcune cellule che sono cruciali per le nostre difese, e lentamente, ma irrimediabilmente, il sistema immunitario viene distrutto dal virus, fino a quando non è più in grado di proteggerci da microrganismi in generale molto poco pericolosi (come lo Pneumocystis jirovecii citato sopra, o la comunissima Candida albicans) e il paziente muore di solito a causa di un’infezione che a una persona con il sistema immunitario funzionante non causerebbe il minimo problema.
Christine, quindi, non poteva sapere che il suo sentirsi bene era qualcosa di molto vantaggioso per il virus, che si era conquistato questo prezioso risultato attraverso l’evoluzione: pensò invece che qualcosa non quadrasse nelle spiegazioni che i medici le avevano fornito, e si mise a cercare informazioni alternative. Fu così che incontrò Peter Duesberg.
Peter Duesberg è nato nel 1936 in Germania, da una famiglia di medici molto noti. Si trovò a crescere in anni difficili, durante i quali suo padre – per sfuggire all’iscrizione al partito nazista – si arruolò come volontario nell’esercito per servire da ufficiale medico. Da piccolo dovette passare una notte di Natale in un rifugio aereo mentre l’aviazione alleata distruggeva la sua casa con un bombardamento. Poi il padre tornò dalla guerra, le cose migliorarono, lui studiò e, dopo avere ottenuto brillantemente un dottorato in Chimica all’Università di Francoforte, si trasferì nel 1964 all’Università della California a Berkeley, dove la sua carriera fu a dir poco fulminante. Mentre tutti i ricercatori parlavano di geni (detti oncogèni) capaci di causare il cancro quando vengono «accesi» in maniera impropria o quando vengono mutati, lui fu il primo a trovarne uno, in un virus che era in grado di provocare un tumore nei polli. Poco dopo gli scienziati Michael Bishop e Harold Varmus identificarono un gene simile in un tumore umano e per questo si presero, pensate, il premio Nobel.
La scoperta di Duesberg era dunque molto importante, e la sua carriera accademica nella prestigiosissima Berkeley cominciò giustamente a procedere in maniera spedita. Assistente nel 1970, professore associato nel 1971, professore ordinario nel 1973; a seguire una serie spaventosa di premi e di onori che culminarono nella sua elezione a membro dell’Accademia nazionale delle scienze, uno dei sogni proibiti di ogni ricercatore. Insomma, tutto faceva pensare a un futuro fantastico. Invece le cose presero una direzione diversa. All’inizio dell’epidemia di AIDS Duesberg si convinse che il virus HIV non c’entrava nulla con la malattia, sostenendo che la gravissima immunodepressione che insorge a seguito dell’infezione fosse dovuta non all’infezione stessa, ma all’uso di eccitanti sessuali, di droghe e a uno stile di vita poco salubre. A suo dire i primi farmaci antivirali non solo non servivano contro l’AIDS, ma erano addirittura una delle cause principali della sua insorgenza.
In quel momento, quando ancora dell’AIDS si sapeva poco, era doveroso, oltre che legittimo, cercare spiegazioni alternative, e Duesberg condusse le sue ricerche in maniera rigorosa. Però, quando i fatti dimostrarono in modo inoppugnabile che l’AIDS era una malattia causata esclusivamente dall’infezione da parte del virus HIV, Duesberg commise un peccato che per uno scienziato è il peggiore: rifiutò di accettare la realtà (che diceva inequivocabilmente che le sue teorie erano sbagliate) e non volle per nessun motivo cambiare idea.
Da lì, mentre veniva sempre più emarginato dalla comunità scientifica, Duesberg diventò il beniamino dei negazionisti che sostenevano che l’AIDS non era causato dall’HIV. Questo gli valse anche – qualche anno dopo – la nomina a consulente da parte del famigerato presidente del Sudafrica Thabo Mbeki, che, convinto di queste teorie senza senso, ha provocato la morte di oltre 300.000 suoi concittadini rifiutando e ritardando le terapie antivirali, la cui efficacia era sostenuta da prove scientifiche monumentali, incoraggiando invece una serie di cure «naturali» a base di barbabietole, aglio e patate africane e dando spazio a guaritori secondo i quali un modo per sconfiggere questa malattia era avere rapporti non protetti con una ragazza vergine.
Intanto, i danni provocati da Duesberg nell’America del Nord e in Europa non erano di minore gravità: molta gente si faceva convincere dalla sua teoria e si comportava di conseguenza, non avvalendosi delle cure né mettendo in atto misure per prevenire i contagi. Una di queste persone fu Christine Maggiore. Nel 1994 incontrò Peter Duesberg e per lei fu un’illuminazione e un sollievo: si persuase che non era malata, che la positività al test era falsa e probabilmente dovuta alla vaccinazione antinfluenzale (cosa impossibile, ovviamente, ma dare la colpa ai vaccini era una moda già allora). Stava benissimo e secondo Duesberg bastava proseguire nel suo stile di vita sano e attento all’ambiente per continuare a vivere in perfetta salute. Christine lasciò dunque perdere la sua attività commerciale e mise in piedi un’associazione chiamata «Alive & Well AIDS Alternatives» (Vivi e in forma: alternative all’AIDS) che forniva assistenza e «informazioni alternative» ai malati che non credevano alla spiegazione (peraltro molto convincente) della scienza. Christine sapeva bene cosa desideravano queste persone perché era lo stesso che aveva desiderato lei: era dunque perfettamente in grado di accontentarle.
Christine continuava a stare bene (che era esattamente quello che conveniva al virus, visto che – come abbiamo detto – una persona sana diffonde l’HIV molto meglio di una malata) e questo la convinceva ogni giorno di più di avere fatto la scelta giusta; scrisse addirittura un libro (intitolato E se tutto ciò che avete saputo sull’AIDS fosse falso?) che ebbe un notevole successo. I medici, quelli seri, le dicevano di assumere i farmaci, ma lei ovviamente non li stava a sentire e continuava imperterrita nella sua convinzione.
Il problema arrivò quando rimase incinta: l’HIV si trasmette facilmente durante la gravidanza da madre a figlio. Con le cure appropriate non accade quasi mai; ma se si lascia la malattia al suo destino il passaggio del virus al bambino avviene più o meno in un caso su due. Naturalmente a Christine Maggiore fu proposta la terapia per prevenire il contagio del figlio, ma lei rifiutò, invocando la sua libertà di scelta; addirittura si fece ritrarre in una foto con il pancione e su di esso la scritta «No ai farmaci antivirali» che finì sulla copertina di «Mothering» (Maternità), una rivista patinata molto indulgente verso le medicine alternative e molto critica nei confronti delle vaccinazioni. Nel 1997 la Maggiore diede alla luce il suo primogenito, Charlie. A quanto raccontava (ma non ci sono dati certi), il piccolo nacque sano. In un caso su due, come detto sopra, le cose vanno bene. Ma in un caso su due, purtroppo, vanno male. E in un caso su due, come previsto, male andarono.
Nel 2002 – ovviamente non in ospedale ma in una piscina gonfiabile nel soggiorno della sua abitazione e con l’assistenza di un’ostetrica – nacque la seconda figlia, Eliza Jane. Christine non la sottopose ad alcun test per verificare l’eventuale infezione né – conseguentemente – a nessuna terapia. I dilemmi però non erano finiti: c’era la questione dell’allattamento, che aumenta considerevolmente il rischio di trasmissione dell’HIV dalla madre al bambino. Anche qui, come potrete immaginare, non ci fu niente da fare: la madre decise di non ascoltare i consigli dei medici e la allattò senza porsi alcun problema. Seppur tra mille critiche, Christine andò avanti ferma e granitica nelle sue convinzioni. Intanto la bambina cresceva apparentemente sana; ovviamente, secondo la madre, grazie a un’alimentazione «naturale», senza farmaci e – superfluo dirlo – senza le vaccinazioni. Christine proseguiva con successo nella sua opera di controinformazione: ospitate nei programmi televisivi, lezioni in atenei prestigiosi come la School of Medicine dell’Università di Miami, supporto da cantanti famosi come i Foo Fighters e Nina Hagen, che addirittura le dedicò una canzone. Intanto gli anni passavano.
In un’intervista radiofonica dell’aprile del 2005 Christine Maggiore disse con una voce brillante e convinta che lei per prima era in perfetta forma e che sua figlia non si ammalava mai: non aveva mai avuto raffreddori, influenza, infezioni dell’orecchio, niente. Insomma, stava benissimo e questo confermava che, per quanto radicali potessero sembrare, le sue scelte riguardo alla figlia e all’AIDS erano giuste.
Due mesi dopo questa intervista Eliza Jane era morta di AIDS.
Tutto cominciò alla fine di aprile con un raffreddore che non passava; la madre la portò dal medico – ovviamente «alternativo» e a favore della «libertà di scelta sulle vaccinazioni» –, che le disse che si trattava di una cosa da niente. Però la bambina non guariva, stava sempre peggio, per cui la madre la fece visitare di nuovo: il pediatra ribadì che non era nulla di più di una lieve infezione che sarebbe passata da sola. Le cose continuavano a peggiorare, quando si presentò un’opportunità eccezionale: Philip Incao, un medico «olistico» di Denver che era nel comitato scientifico dell’associazione negazionista di Christine, si trovava per caso a Los Angeles per una conferenza. Visitò Eliza Jane e diagnosticò una lieve infiammazione all’orecchio che non necessitava di antibiotici. Ma la bambina non migliorava per cui la madre pretese una seconda visita: Incao tranquillizzò Christine dicendole che era solo un’otite e prescrisse un antibiotico. La mattina dopo Eliza Jane si svegliò poco lucida e cominciò a vomitare in continuazione; la mamma – preoccupata – telefonò di nuovo a Incao, nel quale riponeva fiducia assoluta. Mentre parlava con il medico, la bambina smise di respirare e cadde a terra «accartocciata come una bambola di carta». La portarono subito all’ospedale, ma non ci fu nulla da fare. La mattina dopo Eliza Jane, tre anni, era morta. Di una morte che si sarebbe potuta facilmente evitare.
L’autopsia confermò che la causa del decesso di Eliza Jane era l’AIDS, ma Christine non si diede per vinta. Trovò un patologo veterinario (avete letto bene, veterinario) molto vicino agli ambienti «alternativi», Mohammed Ali Al-Bayati, autore di un libro con un titolo che è tutto un programma (Informati! L’HIV non causa l’AIDS), e lo assunse come consulente. Il passato di questo signore era molto discusso (si diceva che avesse tentato di far passare la morte di un bambino dovuta a maltrattamenti come un’encefalite provocata dalla vaccinazione), e la sua spiegazione – secondo lui Eliza Jane era morta a causa di una reazione allergica all’antibiotico – fu ridicolizzata dall’intera comunità scientifica.
Iniziò un dibattito ferocissimo: le autorità giudiziarie misero sotto inchiesta Christine per il modo in cui si era presa cura di Eliza Jane; Christine a sua volta denunciò lo Stato della California per avere diffuso i dati dell’autopsia della figlia; gli Ordini dei medici cominciarono a indagare sui sanitari che avevano seguito la bambina senza sottoporla a test e terapie indispensabili; l’opinione pubblica si spaccò in due in infuocate discussioni su giornali, radio e televisione.
Nulla di questo, purtroppo, poteva riportare in vita una bambina di tre anni, vittima di un contagio che avrebbe potuto essere evitato e uccisa da un’infezione che si sarebbe potuta curare con successo. Le autorità decisero di non fare nulla contro Christine per il suo comportamento nei confronti della figlia; lei e lo Stato della California si misero d’accordo su un risarcimento per la diffusione dei risultati dell’autopsia; gli Ordini dei medici punirono in maniera tutto sommato molto lieve i sanitari protagonisti di questa incredibile storia e nessuno di loro venne radiato per quanto accaduto.
E Christine? La morte della figlia l’aveva sconvolta, ma non aveva scalfito le sue convinzioni. «Sono stata messa in ginocchio dal punto di vista emotivo» disse in un’intervista, «ma non per quanto riguarda l’aspetto scientifico della questione. Sono una madre devastata, spezzata, addolorata; ma ciò non mi porta a mettere in discussione la mia opinione su questo argomento.» Insomma, nonostante tutto era ancora convinta: l’HIV non causa l’AIDS. Tuttavia la tragedia – a suo dire – le aveva peggiorato la salute. Aveva difficoltà a dormire, non aveva fame...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Balle mortali
  4. Introduzione ~ Gli uomini credono volentieri a quello che desiderano sia vero
  5. 1. L’HIV non causa l’AIDS
  6. 2. L’AIDS nemmeno esiste
  7. 3. Le capre, il cancro e il siero Bonifacio
  8. 4. Il metodo Di Bella
  9. 5. La Nuova Medicina Germanica
  10. 6. Stamina o la pozione misteriosa
  11. 7. Curare il diabete con le vitamine
  12. 8. Gli antibiotici sono il male
  13. 9. Il latte crudo (e i suoi batteri)
  14. 10. I vaccini sono pericolosi
  15. Conclusione ~ La medicina ai tempi di internet
  16. Riferimenti bibliografici
  17. Ringraziamenti
  18. Copyright