Mi avvicinavo alla culla, in piena notte. Accostavo l’orecchio a quel corpo minuscolo, me ne stavo lì, il respiro sospeso, in attesa di avvertire il suo, un movimento debole sotto la coperta a scacchi colorati. Era l’inquietudine a spingermi, era la sensazione di avere a che fare con un’enormità mai davvero presa in esame in anticipo, a tempo debito. Troppo tardi, ormai. In ballo, pur senza conoscere i passi esatti, le sequenze utili a stare in pista con un pizzico di competenza.
Quando penso ai quei primi giorni, primi mesi, compare l’immagine di me stesso, interrogato a sorpresa dalla maestra, poi da un professore di scuola media: deglutivo per prendere tempo, come se cercassi un abbrivio, una traccia da libro di testo, mentre sapevamo entrambi, il prof e io, che stavo tirando in lungo e basta. Libro: mai sfogliato. Nebbia da ignoranza completa, tornare al posto. Voto? Quattro.
Deglutivo. Andavo a caso. Lo stile, diciamo così, da voto quattro era emerso prima ancora che Giulia cominciasse a pronunciare, a camminare. Cercavo di sminuire lo sconcerto da chiamata all’azione puntando ad apparire orientato, più sicuro. All’alba, meglio. Strillava da ore, nella culla, in braccio, sul fasciatoio. Ero sopraffatto da quel disagio indecifrabile e assoluto, un’acustica che amplificava lo scompiglio nel quale ci eravamo cacciati tutti e tre, madre, padre, figlia.
Infilavo Giulia, con una cautela esagerata, in una specie di amaca a tracolla, camminavo sino all’esaurimento, parlandole mentre dormiva, finalmente, cullata dal mio passo. Io, rassicurato, orgoglioso di quella pausa, trattata come una prima comunicazione. Tronfio, persino, quando incontravo madri potenziali e padri supposti, neanche fossi l’unico a saperla lunga.
Mi sono domandato negli anni se sia così per altri, per tutti. Come funzioni davvero, e nel profondo, il meccanismo che produce la decisione di diventare padre. Non ho risposte. Come era venuto in mente a me? Nessuna traccia, non un indizio che mi riconduca a un ragionamento lucido, a una riflessione anche parziale ma sufficiente per compiere quel passo gigantesco. Forse, semplicemente, mi sentivo a posto, come un ciclista che ha fatto la gamba, ha pedalato sino in vetta e ora va giù spedito, lungo una discesa nient’affatto dolce: curve secche, insidiose; viscido l’asfalto.
Trent’anni, un lavoro sicuro e gratificante, un amore forsennato e poi assennato, una compagna – Angela – con la quale condividere stanchezze, svaghi, progetti, il vasto repertorio di gesti comuni, di luoghi comuni, di perplessità sottovalutate, che ti porta a credere di essere diventato adulto. Dunque pronto. Un figlio? Sicuro, è così che succede, così si comportano gli uomini fatti, le coppie che funzionano. Una manifestazione di compiutezza, consolidata da una doppia proiezione prospettica. Raggi convergenti sull’idea di poter garantire una stabilità, un’armonia, e quindi la fondazione di una famiglia. Angela pronta anche lei, suppongo, senza ricordare veri e propri dibattiti, esplicite dichiarazioni d’intenti, mentre la sessualità prendeva una piega diversa, aboliva precauzioni, autorizzava un fatalismo tacito ma condiviso. Insomma, un atto d’amore più alto, come si dice, com’è in fin dei conti, intendendo l’amore un sentimento innocente e portentoso perché infantile.
Lontanamente, indistintamente, durante la gravidanza, risuonavano deboli segnali di allarme. Vaghi e trascurati, perché un allarme lo si può udire sempre, è normale, è addirittura essenziale percepirlo, procedendo a gran velocità. Sempre così, quando si tratta di amore, appunto: ogni avventatezza si fa lecita, è brezza per le ali, un dono da scambiare.
Angela, avviata verso la maternità, addolcita dalla maternità. Elettrizzata, persuasa. Le sue forme in mutazione, esposte con un orgoglio tenero; l’attenzione assorbita da ciò che l’arrivo di un figlio innesca: alimentazione, ecografie, una mirabolante varietà di tecniche di respirazione per partorire.
In viaggio, lei e io. Già in viaggio e dunque occupati dal tragitto, preoccupati dai possibili, inquietanti incidenti di percorso, dalla salute del nuovo passeggero, una figura mitizzabile, un’emanazione sulla quale fantasticare. Le circostanze di partenza: non pertinenti, non più.
Questo il primo paradosso: nel momento in cui proclamavamo a noi stessi e al mondo intero l’esistenza di una coppia in piena funzione, ciascun componente di quella stessa coppia procedeva per strade proprie. Lei per il suo verso, tra le sue ombre camuffate, esorcizzate, taciute, e io alle prese con le mie. Per evocarle bastava una voce, per strada, nella notte; una tenda mossa dal vento. Voragini prodotte dall’insignificanza di una pausa, guizzi oscuri del battito, nel petto, sedati prontamente grazie a quella prodiga, salutare distrazione. I guizzi da monitorare erano altri, primi e sconcertanti. Avevano luogo – «Ecco! Hai sentito? Tocca qua» – nel pancione della mamma.
Ricordo il nostro letto già trasformato in lettone e ricordo le pareti chiare della stanza, uno schermo avvolgente, tagli di luce dalle persiane, le crepe attorno al plafone fissate al pari di un sistema di segni insulsi. Noi due distesi, fianco a fianco, al buio, muti e disturbati da turbamenti in circolo per orbite proprie.
“Un figlio ti cambia la vita.” Come? quando? in che modo? Ingranaggi in movimento sin dal primo atto, antecedente al concepimento, scatti inesorabili e occulti verso un’euforia astratta o un’ansia improvvisa. Click, click, click.
I passaggi sono individuali, progressivi. Le loro tracce: irreperibili, anche se adesso vorrei tanto riuscire a ritrovarle, dettaglio per dettaglio, disporle sopra un tavolo sgombro – Angela, abbi pazienza – per corrisponderci in una tardiva comunanza, per fare coppia a tempo scaduto. È un altro desiderio vano: raccontarci ora per come fu; ricordare per comprendere, per ammettere e perdonare, per imparare meglio. Madre e padre, in un’ardua, sincera condivisione, offerta a Giulia, figlia ormai maggiorenne, attentissima e curiosa, oppure, più probabilmente, suscettibilissima, severa, insofferente.
Massì, invece, ascolta, guarda qui. La nostra storia all’alba, rivista alla moviola, senza ipocrisie, senza difese. La trama, gli ardori, le indolenze, ogni singolo errore, lo straordinario svelamento di un’umanità magnifica perché fallace.
Faccio da solo, invece, d’istinto. Il film è una proiezione privata. Angela si sarà arrangiata come me, a modo proprio, immagino, non so. Forse avremo un momento ultimo per raccontarci, confrontare le scene e i nostri doppi retroscena, bonariamente, seduti magari su una panchina a Sanremo, a Ponte di Legno o a Capetown. Nel frattempo rivedo me stesso mentre specchio la mia fresca paternità in un compiacimento dominante.
Procedevo in uno stato di trance da prestazione amorosa, ci davo dentro, altroché, in pieno “sbatti”, come direbbe Giulia, facevo fronte a una serie di atti inevitabili in quanto pratici, dati come scontati e gradevolissimi, circondato da un fan club fondato per l’occasione. Acquisto di mobili per la cameretta, di vestitini e giochini. Un festival del diminutivo nell’avvicinarsi di un superlativo assoluto. Il libro dei nomi, tutti a suggerire un’ipotesi. Perché? Ma si può? Un gioco, una festa di famiglia. Conoscenti, parenti, amici, lei, io. La futura mamma, la mammina, il paparino, altri diminutivi. Ruoli eclatanti e quindi assunti in un’euforia accelerata da un numero crescente di optional buoni per divagare, istante dopo istante.
Dài, dài, “ci siamo”. Cancelletto di partenza, colpo dello starter. La forma sferica della gravidanza come incantevole e gremito campo di gara. Il conteggio è alla rovescia, le esitazioni sono inopportune, i ripensamenti: sciocchezze.
Altre pareti: quelle della cameretta già dipinte di un vivacissimo colore a smalto. Verde smeraldo? Giallo ocra? Arancio. Perfetto, guarda un po’.
Rottura delle acque, boato della folla. Tutto bene?
Bene.
Sino a quando non tagli il traguardo della sala parto, luogo dove hai garantito la presenza anche se, tra tutti i luoghi del pianeta, è quello in cui sarebbe obbligatorio marcare assenza.
Ci sarai vero? Ci sarò.
Per confermare un’emancipazione mai avvenuta. Per ribadire nei fatti che il rispetto per la maternità, per la condizione femminile, per la Donna, è cosa assimilata in via definitiva; per condividere appieno un momento delicato e supremo. Non un colpo di freno. La pressione sul pedale arriva tardi, pure lì, quando trattasi di determinare la consistenza di tutto ciò che ti ha condotto oltre quella soglia. Dove il ruolo dell’uomo adulto, equilibrato e solido, è quello di sostenere mostrando un minimo di padronanza, non di boccheggiare, a rischio svenimento, tramortito da una sequenza d’immagini e atti spropositati.
Una donna che diventa madre. Il primo respiro di una vita nuova. Una figlia. Sono loro le grandi, assolute protagoniste mentre tu, in quella concitazione pirotecnica eppure consueta per ogni attore in campo – medici, ostetriche, infermiere – assisti muto quando vorresti urlare, fuggire o almeno essere assistito, stravolto come sei da un terremoto emotivo prolungato, certo solo ora di vagare in un luogo che non ti prevede affatto, tra gente che ti sopporta a malapena, al cospetto di un evento che appartiene a un universo ignoto. L’universo femminile, ecco, del quale non conosci che alcuni dettagli, molti dei quali irrilevanti. Aria fritta, disintegrata dai fotogrammi di una realtà non più reversibile. Un big bang. Il Big Bang.
Uno sconvolgimento da privazione dei punti cardinali.
Il mio debutto nel ruolo di padre: disastroso. Un piccolo uomo frastornato al primo ciack. Motore, azione: sì, ciao. La scena, in questo caso, potente al punto da scaraventarmi in un cunicolo dal quale non riuscivo a mettere a fuoco madre e figlia, distanti tre metri, poi due e poi zero. Lei, Angela, riemersa viva da un tornado devastante; lei, Giulia, comparsa, reale, viola, urlante dopo aver ricevuto una specie di schiaffo in segno di benvenuto. Figure indistinte, extraterrestri, legate – al taglio del cordone ombelicale – da un’appartenenza mai così assoluta, definitiva.
La successione è memorabile, indelebile. M’infila tra quelle spazzole colorate da autolavaggio, una specie di centrifuga psichedelica che ti spara in un piazzale desolato dove benzinai muniti di tergivetri gommati pettinano meccanicamente carrozzeria e lunotto, indicando di proseguire, liberare l’area, prego andare, altra auto in arrivo. Un parto anche quello, ostetriche di sesso maschile meno reattive, indifferenti. Il piazzale dell’autolavaggio ha la forma rettilinea e multicolore del corridoio dell’ospedale, in mezzo al quale riemersi allora, per posteggiare appoggiato a un muro forse azzurro. Stavo lì, un po’ stordito. Da una porta uscì un medico, il camice lungo e largo, aperto sul davanti. Camminava spedito. Mi concesse un’occhiata passando oltre e in quell’istante preciso, abbinato a sussulto, credetti di vedere mio padre.
Ricordo di aver compiuto un qualche movimento istintivo, scopo ricerca di compostezza; ricordo di essere rimasto con lui mentre il medico era scomparso, riconoscendo un atteggiamento preciso, suo. Un uomo mai in dubbio sul come o sul quando. Posso solo rintracciare una lunga sequenza di scelte immuni da esitazioni. Mai riuscito a immaginarlo che si chiede come fare da padre ai propri figli. Ma l’ipotesi è che abbia generato figli esattamente come me. Senza star lì a riflettere sulle implicazioni, sulle conseguenze. Una riflessione non era nemmeno prevista ai tempi, suppongo, o forse mi fa comodo pensare che così fosse. Nel caso, erano faccende da custodire segretamente e quindi da smaltire mediante combustione interna e invisibile. Non era nemmeno pensabile che mio padre si presentasse al parto, figuriamoci. I compiti erano già stilati su una lista. Uomini e donne, padri e madri, mogli e mariti. Ogni mansione conseguente, connessa al ruolo e presa in carico senza metterla giù dura. Il dibattito, eventualmente, al bar, un posto per soli uomini, dediti a fumare, giocare a biliardo, a programmare battute di caccia, a coltivare vizi sottointesi e sacri.
Sono stato sul punto di descrivere a Giulia la cronaca intima della sua nascita un’infinità di volte. Non ce l’ho mai fatta davvero, virando su una comicità buona per riderci sopra a cena, ottenendo consensi e comprensione da commensali reduci da esperienze analoghe e specializzati, pure loro, nel descriverle come passaggi altrettanto affannati, tutto sommato divertenti. Padri che si prendono per il culo, mamme che rammentano tempistiche efficienti, dolori lancinanti, un’emozione senza confronti. Ricostruzioni superficiali e censurate; interi capitoli rimossi.
Con comprensibile prontezza, sono più svelto a rievocare le ore immediatamente seguenti al parto, quelle che sancirono peraltro una prima separazione, inevitabile e presa sottogamba. Madre e figlia accoppiate e protette dalla quiete del reparto maternità, io a casa, solo. Padre.
La notizia era ormai ufficiale. Credo di aver percorso un iter meccanico in una fregola da smaltimento adrenalina: telefonate a un tot di parenti e amici in attesa dell’annunciazione. Quindi, di aver avuto un tempo da silenzio domestico – gli arredi già predisposti ad accogliere Giulia – per avviare un altro iter, intimo e traboccante di domande a scoppio ritardato, ormai pressanti e in attesa di risposte adeguate.
Quelle domande hanno composto negli anni un mosaico sfocato. Sommate ad altre, in un accumulo parallelo alla crescita di mia figlia. Il che ha intensificato la ricerca, mentre mi accorgevo di andare a caso. Improvvisazioni, quando invece sarebbe servita e servirebbe ancora adesso una partitura.
Giulia che dorme, Giulia che piange, Giulia che poppa. Giulia sospesa in una beatitudine suprema, le labbra mignon accostate al seno di sua madre. Ho davanti una quantità di ritratti nitidi dai quali manca regolarmente qualcosa. Qualcuno.
Manco io.
Il diario di bordo, così farcito di considerazioni dettagliate sul panorama circostante, mostra pagine bianche e vuote. Strappate, più che altro. Be’, avevo da fare, da accudire, assecondare, prendere, portare. Che altro? Brancolavo, non disponendo di preparazione adeguata, non avendo studiato abbastanza. Quindi muoversi, scattare, tentare di farla franca a furia di buone azioni, buona disposizione. Nessuno, nemmeno io, si sarebbe accorto di nulla: giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, tutto si sarebbe aggiustato, figurati un po’. Normale, capita a chiunque: non è vero, Alberto, Francesco, Dario, Marcello? Massì, beviamoci sopra una birretta.
Quando torno indietro, torno là, percepisco i primi tocchi di un metronomo perennemente in funzione. Questi tocchi scandiscono il tempo ormai lungo della mia paternità. Ho applicato, sbandato, sbattuto, perseguendo una responsabilità definitiva. E continuo a combattere con una cronica inadeguatezza. Sei padre, contento? Moltissimo, che domanda.
Però è rimasto nell’aria, nello stomaco, nella testa, un cruccio. La convinzione, comparsa ai primi metri del viaggio, che ciascun passeggero, a cominciare da me stesso, per non parlare di mia figlia, si aspettasse allora e si aspetti ora qualcosa di meglio di ciò che estraggo dalle tasche. Questa implicita pretesa ha finito per dettare una rotta, appunto. Lineare proprio no. Impeti e contrazioni, euforie e frustrazioni, premi e punizioni. Mi vedo ripreso da un drone al quale nulla sfugge e ogni comportamento assume valenze opposte. Sembrava ottimo, mi pare scarso, inadeguato, pessimo. I comandi del drone in mano mia, ogni tanto; nelle mani di Giulia, quasi sempre.
Aziona, visiona e giudica, mi basta la sua espressione per vagabondare tra scuse, attenuanti e proponimenti. Resto aggrappato al timone, allora come ora, ci mancherebbe. Anche se non ho la patente perché una patente non esiste. Maestrale e mare grosso. Turbolenze, cavalloni. Navigo a vista e la mia vista non è proprio un granché.
Raffiche di vento, adesso, non a caso. Folate sulle fronde del platano, panni stesi, agitati sui terrazzi. Movimento. Carta velina sospesa in un vortice. China per una calligrafia ignota.
Ecco un’altra parola, credo abbia valore per entrambi, mi fa venire in mente quegli ami di plastica al luna park, oscillano sopra vaschette diverse e agganciano forse qualcosa. Cigni bianchi, di solito, i testimoni di un premio che ancora non sai.