Gli aveva chiesto di creare la penombra.
Lo metteva a suo agio, aveva detto.
Lo aveva aspettato mentre, chiuso in bagno, si cambiava. Sapeva ne sarebbe uscito con la solita camicia vecchia indosso; come si volesse scagionare dello stato in cui era ridotta, gli aveva confessato che la usava spesso per pulire le acciughe, o assemblare le polpette di cadea. Era piena di macchie di sangue.
«Non mi hai detto perché oggi. Sei uno regolare, tu. Hai il tuo giorno, il tuo primo del mese. La tua routine. Sono perplesso.»
Era uscito dal bagno guardandolo, come a chiedergli l’ennesima conferma. Le maniche erano già rimboccate, lo sguardo ai polsini, accigliato. Non aveva risposto, si era limitato a fare alcuni esercizi preliminari, massaggiarsi le ginocchia e far scrocchiare il collo, tanto per evitare accavallamenti di nervi. L’uomo, allora, non vedendo terreno per proseguire, decise di assecondarlo, trattenendo a fatica un moto di diniego. Era parte del lavoro sapere quando lasciar perdere.
«Bravo» disse con autorità. «Meglio che ti rilassi. Anche le spalle. Tirati il gomito dietro la schiena con l’altra mano, cerca di toccarti una scapola, poi fai qualche salto sul posto.»
Obbedì e sbuffò concentrato, come un vero sportivo. L’uomo gli indicò la poltrona di pelle grigia, appoggiata al fondo della Stanza, vicino ad alcune improvvisate scatole di cartone riciclato che facevano da bidoncini per i materiali usati. Per il resto, l’ambiente era spoglio, decorato con una carta da parati che fingeva i disegni del cachemire su sfondo blu pervinca. Al centro della Stanza, una lampada, che pareva voler imitare nelle forme un eterofono, era l’arredamento principale. Il tavolino in ferro battuto ospitava il nécessaire che la Stanza offriva.
Il cliente osservava tutto con uno sguardo sconfitto.
«Evitami la solita ramanzina su dove vivo, come vivo» disse l’uomo, forse fraintendendo. «Questo è un lavoro, e mica da poco. Mi garantisce il minimo, ok, ma una casa ce l’ho. E poi parli tu che vieni da Marassi. Quindi non farmi il padre. Che poi non lo sei mai stato e ci sarà un motivo, no? Possiamo anche non parlare, come sai. Ma devo dirti che ci rimango male. Mi sento sfruttato. Non da te, in modo specifico. Parlo in generale. Casa mia non è così terribile come vuoi farla passare ogni volta» incominciò a difendersi, senza motivo. «È al bello che non ci si abitua. Il brutto, invece, può diventarti familiare.» Si mise un filtro dietro l’orecchio e con l’altra mano selezionò la giusta quantità di tabacco. La cartina tremava al vento debole del condizionatore. La riempì e la chiuse con due soli movimenti, quasi un vezzo da illusionista. «Il brutto non ti costringe a nulla, anzi» proseguì. «Tutti possiamo diventare brutti, è universale. Basta che ti lasci andare e farai schifo. Il bello, invece. Il bello è difficile, pretende, spinge per la perfezione. Il bello non è di tutti, e questo è il gioco che nessuno di noi accetta. Tendiamo alla merda, poco da fare. Per questo, quelli come noi si preferisce farli abituare fin da subito: è meno impegnativo, per chiunque. C’è molta più onestà, se ci pensi. Almeno non ci crediamo di essere chissà chi. Ti si abbassano le aspettative, diventi più realista, smetti di sognare e ci dai subito dentro con la vita. Senza fronzoli né capriccetti da mantenuto. Sai già chi sei e chi sarai per sempre. Se impari a tenere a bada la rivalsa, capace che ti senti a casa, che stai bene. Ci hanno plasmato delle società, su questa idea.»
«Sono pronto» gli disse.
L’uomo annuì con dolenzia, si alzò e uscì.
Dal bagno in cui ora si trovava poteva vedere un quarto di quel cinquantenne bolso, il cliente più atipico che gli fosse capitato in vent’anni di frastagliata “carriera”. Visto il tipo, non si stupì quando sussultò al rumore di una sirena in lontananza che annunciava il proprio arrivo al terminal.
«È solo una nave» gli disse rientrando, mentre si infilava i guanti in lattice, tenendo sottobraccio una bottiglia di alcol denaturato.
Prese un respiro e si sedette di fianco a lui.
«Qui o di là?»
«Coricato mi fa venire l’ansia. Avevamo provato, se ti ricordi, e mi sono mezzo sentito male. Sarà perché non vedo cosa succede. Se potessi stare a mezza via, come su una sdraio. Hai una sdraio?»
«Quasi.» Con un sospiro di impazienza, l’uomo poggiò il flacone sul tavolino in ferro battuto dietro la porta giallognola ormai scrostata dal tempo.
Un po’ si maledisse di aver accettato in qualche modo di accudirlo. La Stanza era un ambiente per solitari, era pericoloso stringere fratellanze, figurarsi prendersi una responsabilità del genere. Il rischio embolo non era così facile da evitare. Mica era un infermiere. Lui si occupava esclusivamente di gestire gli spazi, al massimo fornire i materiali, nel caso in cui i clienti li avessero finiti. Il suo era sempre un mestiere di puro controllo, osservazione. Molta, molta noia.
Con quel cliente, però, era stato subito anomalo. Se ripensava a quando se l’era trovato davanti alla Stanza, un anno e qualcosa prima, a quando l’aveva fissato entrare, rimanendo quasi sconvolto da quel suo tono ossequioso di permesso totalmente estraneo alla sua routine di clienti, come se la Stanza fosse una magione decorata ad arazzi, aspettando nell’atrio con tutto il corpo in riverenza, nemmeno fosse in attesa di un colloquio privato con un luminare della medicina, gli veniva in gola la stessa tenerezza di quella loro prima volta.
Come a discolparsi, appena lo aveva fatto accomodare, gli aveva illustrato nei dettagli com’era giunto a quel passo oscuro, la Stanza: la fase di assuefazione al Toradol che non era riuscito a superare; la mancanza di una vera alternativa per sotterrare un dolore che non poteva essere affrontato se non addormentando il tramestio cerebrale che da ormai sei mesi, diceva allora, non faceva altro che contribuire al deterioramento della sua attitudine alla vita; il bisogno di un’evasione che gli regalasse a lungo termine un azzeramento delle aspettative. La Stanza era legale, un simbolo della nuova direzione del Paese, non c’era bisogno di dare spiegazioni del perché uno come lui avesse deciso per quella soluzione alla propria sofferenza, glielo aveva detto subito, come fosse a suo nome la legge che lo sanciva, con lo stesso orgoglio spavaldo. Uno poteva entrare e uscire liberamente. L’importante era lasciare tutto pulito. Il cinquantenne ci aveva comunque tenuto a ribadire il suo pregresso: non parlava per giustificarsi. Tutta quella anticamera esistenziale era il suo tentativo per dare un’assoluzione alla propria storia intima che, se fosse tutto andato come era immaginabile andasse, non avrebbe avuto nella Stanza la sua evoluzione.
Se l’uomo alla fine aveva ceduto, fregandosene di tutte le precauzioni che si era ribadito avrebbe rispettato più della propria madre, fino a trasformarle nella sua etica professionale, forse, era anche per quello: non gli era mai successo di provare pena per un cliente. Per questo, lo riceveva di sera, quando la Stanza era chiusa e nessuno dei Responsabili avrebbe potuto contestargli il trattamento speciale che riservava al cinquantenne, e solo a lui.
«Sei una piaga» gli disse berciando dall’altra stanza. «E comunque non mi è piaciuto che oggi tu ti sia preso questa libertà. Per poco non mi è venuto un colpo. Sono le undici e quaranta e questo è un palazzo come si deve, al di là dell’apparenza. Non l’hai mai fatto prima, quindi ti evito la rottura di cazzo completa. Però non quella parziale; davvero: se dici alle dieci, se dici il primo del mese, io me lo ricordo, me lo segno, preparo tutto. Se poi arrivi quando vuoi tu, allora non vuoi che io continui a essere gentile. Quando ti ho visto, mi è venuto un incazzo peggio di quando i Capiente hanno sbancato l’estate di sei anni fa con quella terribile, banalissima Shoot Room, un’insipida ballatina per riservisti del goth rock. Io ti aiuto, ma tu devi renderti conto dei casini che puoi farmi se succede di nuovo. Da quanto mi conosci? Sono l’ultimo a cui frega delle etichette. Non fraintendermi, ecco: è solo una questione di professionalità. Qui ci sono delle regole, un iter, una logica. La Stanza è una conquista, un ecosistema da preservare. Hanno creato questo posto per combattere l’illegalità» disse rientrando, con un recanisso recuperato chi sa dove ficcato in bocca, ballonzolando per il peso dell’oggetto che portava davanti a sé, la sua idea di sdraio.
«Un dondolo?» chiese l’altro, atterrito dalla scoperta.
«Ha i fermi» gli disse l’uomo, inginocchiandosi e indicandogli i gommini che avrebbero cristallizzato la corsa evitandogli un perenne ed emetico ondeggiamento.
«Dài, prova a fidarti. Direi che ci hai già abbastanza fatto l’abitudine.»
Lo fece accomodare.
Mentre gli sistemava il cuscino e gli accompagnava la testa sul duro bordo smussato della sedia, capì che non era solo disperazione, questa sua scelta. Si sarebbe impiccato, fosse stato davvero demolito. No. C’era qualcosa in quell’uomo che lo teneva alla vita, come se la Stanza fosse il suo modo per sopportare la tensione dell’appiglio.
«Fai veloce, ma non lasciarmi solo. Ti dico io quando andare, ok?»
L’uomo non rispose. Non avrebbe perso troppo tempo a cercare delle risposte. Il ruolo a cui era stato chiamato era portare la pace. Come il suo cliente gli aveva detto di avere insito nel nome.
«Tieni» gli disse, passandogli inaspettatamente il sacchetto coi batuffoli di cotone.
Dove li aveva trovati, si chiese per un istante.
Il grazie con cui conclamò il proprio apprezzamento per il gesto fu sentito.
«Se ti faccio male stringi la sedia. Muoio dentro se ti metti a piangere come l’ultima volta. Non sono uno che comprende, e non voglio diventarlo. Allora Ferdinando: iniziamo?»
Strinse gli occhi e accennò un assenso vergognoso, quasi da abusato. Lo fissò prendere i flaconcini dal coperchietto scintillante, intingere l’ago in un bicchiere di carta per eliminare le bolle d’aria e testare la fluidità dello stantuffo. Mentre tratteneva un singhiozzo, aprì leggermente le palpebre ancora strizzate. L’indice dell’uomo stava schioccando una bicellata alla siringa.
Poi, fu su di lui.
Erano le nove e sembrava che un’amnesia culinaria avesse colpito Marassi.
Davanti alla rosticceria s’era già formata una coda, anche se tutti sapevano che prima di mezz’ora non sarebbe arrivato nessuno ad aprire. Ferdinando arrivava in ritardo da almeno sei mesi. Molti insinuavano che cavalcasse la cosa, altri pensavano solo fosse una forma di imbarazzo misto a repulsione. La verità, come chiunque sa, è che nessuno riesce a elaborare finché non accetta. E Ferdinando, in quei mesi, invece che incominciare la lunga strada che porta chiunque a farsi una ragione dell’inaccettabile, aveva continuato a interrogarsi. Le prime settimane, appena rientrato dal ricovero coatto, erano state segnate dall’improvvisa solidarietà condominiale e di quartiere, dal conforto unanime e dalle telefonate, ma nelle settimane a venire la sua intransigente visione dei fatti, il suo estremismo ai limiti della credibilità, aveva fatto scattare intorno a lui quella serie di sorrisi diplomatici che prelude all’esclusivo distanziamento che accomuna le esperienze sociali degli squilibrati. Le signore del palazzo e le clienti della rosticceria avevano così tratto le dovute conclusioni, convincendosi che Ferdinando volesse chiudere entro la fine dell’anno. Sostenevano a più riprese, uscite dalla chiesa di Santa Margherita, all’incipit di salita dell’Aquila, oppure nei pressi dell’attraversamento pedonale di via della Zebra, appena finiti gli acquisti dei femminili in edicola, che le avvisaglie di quel destino fossero rintracciabili in alcuni segni che stavano via via diventando più evidenti: a luglio Ferdinando aveva rifiutato di assumere una che lo aiutasse, farfugliando come giustificazione il fatto che fosse «comunque una sostituta» – una definizione che, annuendo, le signore avevano condiviso e trovato plausibile, associando per rima baciata questo ruolo all’altro mestiere, con la medesima desinenza e un immaginario più pregiudiziale.
Con l’incedere delle incombenze autunnali, però, e della richiesta di pietanze per il pranzo fuori casa dei lavoratori del quartiere, le signore non la pensavano più come Ferdinando e si erano ricredute sull’essenzialità di una figura d’appoggio nell’attività altrimenti insostenibile della rosticceria.
«Basterebbe una straniera» minimizzavano, viste le entrate comunque sempre troppo modeste, non esplicitando mai il loro dubbio per l’atto snaturato che Ferdinando avrebbe di conseguenza dovuto compiere, mostrare all’eventuale nuova venuta il “quaderno originario”, quel manoscritto in cui lei annotava i segreti per le alchimie dei vari ingredienti, il suo Corano dello strettissimo magro.
Il fatto che questo non sarebbe mai accaduto, la sicumera con cui scuotevano la testa manco fossero davvero in quella di Ferdinando, era un modo per confermarsi, senza dirselo, un’impossibilità di condivisione che avrebbe condannato l’attività, una pena capitale cui non sarebbero mai state pronte ad abituarsi. Le loro idee, però, erano tutti pensieri primogeniti di un pettegolezzo che conoscevano come per osmosi, da informazioni ricavate origliando di nascosto, in coda o subito al di là della moschiera. Una di loro, in quelle metà mattinate di trincea colloquiale tra corso De Stefanis e via Monticelli, qualche giorno addietro aveva percepito questa diceria della fine imminente nel brusio di certi clienti saltuari che ne discutevano mentre Ferdinando era di là, a tirare giù dal gancio nella cella frigorifera la testa in cassetta appena arrivata da Sant’Olcese: come per la confessione di una violenza subita, gli sconosciuti avevano abbassato il tono, liberandosi dal peso della rivelazione che di lì a poco avrebbero condiviso con finta intimità, spostando anzi lo sguardo indietro e a fianco, a essere certi che chiunque nel negozio riuscisse a carpire almeno l’esse...