Il tiranno
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Il tiranno

  1. 280 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Perché qualcuno, si chiede Shakespeare, dovrebbe appoggiare un leader palesemente inadatto a governare, una persona pericolosa e impulsiva, malvagia e subdola, o indif- ferente alla verità? Perché, in alcuni casi, le prove di crudeltà non sono un deterrente, bensì un'attrattiva capace di trascinare seguaci soddisfatti? "Da questo momento, " dichiara Macbeth "il primo moto dell'animo sarà / tutt'uno con il moto della mia mano." Ma allora le istituzioni che dovrebbero impedire alle persone comuni, e ancor più ai leader delle nazioni di agire sulla spinta di ogni impulso folle, dove sono? E quali sono i meccanismi psicologici che conducono una nazione a dimenticare i propri ideali e persino il proprio interesse? Nonostante siano passati secoli, i re e i contadini di Shakespeare gettano luce ancora oggi sul carattere delle masse e dei loro agitatori, trovando rinnovata chiarezza nelle osservazioni di Greenblatt. La fragilità improvvisa delle istituzioni, il disordine delle classi dirigenti e la rabbia populista come conseguenza della crisi economica sono tutti elementi per comprendere la politica moderna, ma anche quello spirito popolare di umanità che per Shakespeare rimase per sempre l'unica vera speranza, perché "si può soffocare, ma mai spegnere del tutto".

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2018
Print ISBN
9788817104012
eBook ISBN
9788858694541
Argomento
Letteratura
1

Angoli obliqui

Dagli esordi della sua carriera, all’inizio degli anni Novanta del Cinquecento, fino alla fine, Shakespeare si ritrovò più volte alle prese con un quesito profondamente inquietante: com’è possibile che un intero Paese cada nelle mani di un tiranno?
«Un re governa sudditi compiacenti,» scrive George Buchanan, influente erudito scozzese del XVI secolo «un tiranno, sudditi riluttanti.» Le istituzioni di una società libera sono concepite per tenere lontani coloro che regnerebbero, spiega Buchanan, «non per il loro Paese, ma per se stessi, che considerano non l’interesse pubblico, ma il proprio tornaconto».1 In quali circostanze, si domanda Shakespeare, queste amate istituzioni, apparentemente solide e inespugnabili, si dimostrano fragili all’improvviso? Perché un gran numero di persone accetta consapevolmente di essere ingannato? Com’è possibile che un personaggio come Riccardo III o Macbeth salga al trono?
Una simile catastrofe, suggerisce il drammaturgo, non può accadere senza un’estesa complicità. I suoi drammi sondano i meccanismi psicologici che conducono una nazione a dimenticare i propri ideali e persino il proprio interesse personale. Perché qualcuno, si chiede Shakespeare, dovrebbe appoggiare un leader palesemente inadatto a governare, una persona pericolosa e impulsiva, malvagia e subdola, o indifferente alla verità? Perché, in alcuni casi, le prove di mendacità, di rudezza o di crudeltà non sono un deterrente vigoroso, bensì un’attrattiva capace di trascinare seguaci entusiastici? Perché individui solitamente pieni di orgoglio e di amor proprio si sottomettono alla sfrontatezza bell’e buona del tiranno, alla sua convinzione di farla franca qualunque cosa dica e faccia, alla sua eclatante disonestà?
Shakespeare descrive ripetutamente il tragico prezzo di questa sottomissione – la corruzione morale, l’enorme spreco di denaro, la perdita di vite umane – e le misure disperate, dolorose ed eroiche che sono necessarie per restituire un briciolo di salute a una nazione danneggiata. Esiste, chiedono i drammi, un modo per fermare lo slittamento verso un governo illegale e arbitrario prima che sia troppo tardi, un mezzo efficace per impedire la catastrofe civile che la tirannia inevitabilmente provoca?
Il drammaturgo non intendeva accusare di tirannia l’allora sovrana d’Inghilterra, Elisabetta I. A prescindere dalla sua opinione personale, sarebbe stato rovinoso suggerire una simile idea sul palcoscenico. Gli statuti giuridici, risalenti al 1534 – durante il regno di Enrico VIII, il padre della regina – stabilivano che definire il sovrano un tiranno era tradimento,2 un reato punito con la morte.
Nell’Inghilterra di Shakespeare non esisteva alcuna libertà d’espressione, né sul palco né altrove. Nel 1597 le rappresentazioni del presunto dramma sedizioso The Isle of Dogs sfociarono nell’arresto e nell’incarcerazione del drammaturgo Ben Jonson e in un’ordinanza governativa – per fortuna mai applicata – che imponeva la demolizione di tutti i teatri di Londra.3 Gli informatori assistevano agli spettacoli, ansiosi di reclamare una ricompensa per aver segnalato alle autorità qualunque cosa potesse essere giudicata sovversiva. I tentativi di riflessione critica sugli avvenimenti contemporanei o sulle figure di primo piano erano particolarmente rischiosi.
Come nei regimi totalitari moderni, le persone idearono tecniche per parlare in codice, riferendosi in modo più o meno diretto a ciò che stava loro a cuore. Non fu soltanto la cautela a motivare la propensione di Shakespeare per la dislocazione. Il drammaturgo sembra aver intuito di poter fare un’analisi più lucida delle questioni che impensierivano il suo mondo quando non le affrontava direttamente, ma da un angolo obliquo. I drammi indicano che era in grado di riconoscere la verità – di possederla appieno senza rimanerne vittima – attraverso l’artificio della fantasia o la distanza temporale. Da qui l’interesse che provava per il leggendario generale romano Caio Marzio Coriolano o per il Giulio Cesare storico; da qui il richiamo a figure delle cronache inglesi e scozzesi come York, Jack Cade, Lear e soprattutto Riccardo III e Macbeth, i tiranni per antonomasia. Da qui anche l’attrattiva di figure totalmente immaginarie: il sadico imperatore Saturnino nel Tito Andronico, il vicario corrotto Angelo in Misura per misura, il paranoico re Leonte nel Racconto d’inverno.
Il successo popolare di Shakespeare indica che molti contemporanei la pensavano allo stesso modo. Svincolata dalle circostanze concomitanti e anche dai ricorrenti cliché sul patriottismo e sull’obbedienza, la sua scrittura poté contraddistinguersi per una sincerità spietata. Il drammaturgo continuò a far parte del suo luogo e del suo tempo, ma non ne fu una semplice creatura. Cose che erano state così oscure da essere esasperanti diventarono chiarissime ed egli non fu costretto a tacere le sue percezioni.
Shakespeare capì anche qualcosa che ai giorni nostri emerge quando un evento importante – la caduta dell’Unione Sovietica, il crollo del mercato immobiliare, un risultato elettorale inaspettato – riesce a gettare una luce abbagliante su un fatto spaventoso: molto spesso nemmeno coloro che sono al centro degli ambienti più interni del potere hanno idea di cosa stia per succedere. Nonostante le scrivanie ingombre di rapporti, calcoli e stime, la costosa rete di spie e gli eserciti di esperti ben retribuiti rimangono quasi completamente all’oscuro. L’osservatore esterno sogna che se solo riuscisse ad avvicinarsi abbastanza a questo o a quel personaggio di spicco, conoscerebbe la situazione effettiva e saprebbe quali misure adottare per proteggere se stesso o il suo Paese. Questo sogno, tuttavia, è un’illusione.
All’inizio di uno dei suoi drammi storici, Shakespeare presenta il personaggio dell’Allarme, «tutto dipinto di lingue», il cui compito è mettere incessantemente in circolazione storie in cui «soffiano sospetti, gelosie, congetture» (Enrico IV, parte seconda, prologo, 16).4 I suoi effetti si traducono dolorosamente in segnali travisati con conseguenze disastrose, consolazioni fraudolente, falsi allarmi, salti improvvisi dalla speranza insensata alla disperazione suicida. Le principali vittime dell’inganno non sono le moltitudini rozze, bensì i privilegiati e i potenti.
Per Shakespeare, allora, era più facile ragionare lucidamente quando il cicaleccio di quelle lingue vocianti veniva messo a tacere, ed era più semplice dire la verità a una distanza strategica dal presente. L’angolo obliquo gli permetteva di sollevare il velo delle ipotesi errate, delle convinzioni consacrate dal tempo e degli incauti sogni di fede per puntare lo sguardo verso ciò che si nascondeva al di sotto. Da qui il suo interesse per il mondo dell’antichità classica, dove la devozione cristiana e la retorica monarchica non trovavano applicazione; da qui anche la sua curiosità per la Britannia precristiana del Re Lear o di Cimbelino e la sua attenzione alla violenta Scozia dell’XI secolo nel Macbeth. Anche quando si avvicinò di più al suo mondo, nella straordinaria sequenza di drammi storici che spazia dal regno trecentesco di Riccardo II alla caduta di Riccardo III, fu così prudente da lasciare almeno un intero secolo tra se stesso e gli avvenimenti che descrisse.
Nel periodo in cui fu attivo, Elisabetta I era regina da più di trent’anni. Benché di tanto in tanto sapesse essere permalosa, intrattabile e autoritaria, il suo fondamentale rispetto per la sacralità delle istituzioni politiche del regno non venne generalmente messo in dubbio. Di solito, persino coloro che sostenevano una politica estera più aggressiva o chiedevano a gran voce una repressione della sovversione interna più severa di quanto la sovrana fosse disposta ad autorizzare, le riconoscevano un avveduto senso dei limiti al suo potere. È molto improbabile che Shakespeare l’abbia considerata, anche nei suoi pensieri più reconditi, una tiranna. Tuttavia, come il resto dei suoi connazionali, aveva ogni ragione per temere il futuro. Nel 1593 la regina festeggiò il suo sessantesimo compleanno. Nubile e senza figli, si rifiutò ostinatamente di nominare un successore. Pensava forse che sarebbe vissuta in eterno?
Per coloro che avevano un po’ di immaginazione, c’erano altri motivi di preoccupazione oltre al furtivo assalto del tempo. Molti temevano che il regno si trovasse di fronte a un nemico implacabile, a uno spietato complotto internazionale i cui leader addestravano e poi mandavano all’estero agenti segreti fanatici, inclini a scatenare il terrore. Costoro ritenevano che uccidere le persone etichettate come miscredenti non fosse peccato; al contrario, equivaleva a compiere l’opera di Dio. In Francia, nei Paesi Bassi e altrove si erano già macchiati di assassinii, violenze di piazza e massacri su larga scala. Il loro obiettivo immediato in Inghilterra era uccidere la regina, incoronare al suo posto uno dei loro simpatizzanti e soggiogare il Paese alla loro visione distorta della devozione. L’obiettivo generale era il dominio del mondo.
I terroristi non erano facili da identificare, perché quasi tutti erano cresciuti in patria. Dopo essere stati radicalizzati, attirati all’estero nei campi di addestramento e poi fatti rientrare in Inghilterra di nascosto, si confondevano facilmente tra la massa dei sudditi leali. Costoro erano comprensibilmente riluttanti a denunciare i loro congiunti, anche quelli sospettati di avere idee pericolose. Gli estremisti formavano celle, pregavano insieme in segreto, si scambiavano messaggi in codice e cercavano altre probabili reclute, arruolate perlopiù tra la popolazione di giovani scontenti e instabili, inclini a sogni di violenza e di martirio. Alcuni erano in contatto clandestino con i rappresentanti dei governi stranieri che alludevano cupamente a flotte di invasione e al sostegno per le sollevazioni armate.
I servizi segreti inglesi erano consapevoli del pericolo: infiltravano talpe nei campi di addestramento, aprivano sistematicamente la corrispondenza, origliavano le conversazioni in taverne e locande e tenevano porti e frontiere sotto stretta sorveglianza. Il pericolo, tuttavia, era difficile da sradicare, anche quando le autorità riuscivano a mettere le mani su uno o più dei presunti terroristi e li interrogavano sotto giuramento. Dopotutto, erano fanatici autorizzati all’inganno dai loro leader religiosi e addestrati all’uso del «linguaggio equivoco», un metodo per fuorviare senza tecnicamente mentire.
Se i sospettati venivano interrogati sotto tortura, come accadeva di solito, spesso le confessioni erano ugualmente difficili da ottenere. Secondo un rapporto spedito al capo dei servizi segreti reali, l’estremista che aveva assassinato il principe d’Orange in Olanda nel 1584 – il primo uomo che abbia mai ucciso un capo di Stato con una pistola – si chiuse in un silenzio ostinato:
La stessa sera lo sferzarono con funi e gli
tagliarono la carne con penne spaccate, dopodiché lo immersero in
un recipiente di sale e acqua, e gli versarono in gola
aceto e brandy; nonostante questi
tormenti, non ci fu il minimo segno di angoscia o
di pentimento, anzi, al contrario, disse di aver compiuto
un’azione accettabile agli occhi di Dio.5
«Un’azione accettabile agli occhi di Dio»: queste erano persone sottoposte al lavaggio del cervello affinché credessero che sarebbero state ricompensate in cielo per i loro atti di tradimento e di violenza.
La minaccia in questione, secondo i solerti protestanti dell’Inghilterra di fine Cinquecento, era il terrorismo cattolico. Con profonda contrarietà dei suoi principali consiglieri, Elisabetta era restia a chiamare il pericolo con il suo nome e a prendere quelle che essi consideravano le misure necessarie. Non voleva scatenare una guerra costosa e cruenta con i potenti Stati cattolici né incolpare un’intera religione dei crimini di qualche fanatico. Riluttante – per citare le parole di Francis Walsingham, il capo del servizio di spionaggio – «a controllare il cuore e i pensieri reconditi degli uomini»,6 permise per anni ai sudditi di restare fedeli alle credenze cattoliche, purché esteriormente si conformassero alla religione di Stato ufficiale. Nonostante le veementi esortazioni, si rifiutò ripetutamente di approvare l’esecuzione della cugina cattolica Maria, regina degli scozzesi.
Cacciata dalla Scozia, Maria veniva tenuta, senza accuse né processo, in una sorta di detenzione protettiva nel Nord dell’Inghilterra. Poiché aveva un incontestabile diritto ereditario al trono inglese – più incontestabile, secondo alcuni, di quello di Elisabetta –, era il bersaglio logico sia delle macchinazioni delle potenze cattoliche europee sia delle fantasticherie surriscaldate e delle pericolose cospirazioni degli estremisti cattolici in patria. Maria fu abbastanza avventata da dare a sua volta il benestare a sinistri complotti orditi in suo nome per assassinare Elisabetta.
Il loro ideatore, credevano molti, era niente meno che il papa a Roma; le sue forze speciali erano i gesuiti, che avevano giurato di obbedire a ogni suo ordine; le sue legioni nascoste in Inghilterra erano le migliaia di «papisti della Chiesa» che assistevano diligentemente alle funzioni anglicane, ma in cuor loro erano fedeli al cattolicesimo. Quando Shakespeare stava per diventare maggiorenne, le voci sui gesuiti – che ufficialmente avevano il divieto di entrare nel Paese, sotto pena di morte – e sulle minacce che rappresentavano erano molto diffuse. Forse il loro numero effettivo era modesto, ma la paura e l’avversione che suscitavano (oltre all’ammirazione clandestina di alcuni ambienti) erano notevoli.
È impossibile stabilire con certezza a chi andassero le simpatie più segrete di Shakespeare, ma il drammaturgo non può essere stato neutrale o indifferente. Entrambi i suoi genitori erano nati in un mondo cattolico e, per loro, come per gran parte dei contemporanei, i legami con quel mondo erano sopravvissuti alla Riforma. C’era ogni ragione per essere cauti e diffidenti, e non soltanto per le severe punizioni inflitte dalle autorità protestanti. La minaccia attribuita in Inghilterra al cattolicesimo militante era tutt’altro che immaginaria. Nel 1579 papa Pio V emanò una bolla che scomunicava Elisabetta definendola un’eretica e una «serva del crimine». I sudditi della regina furono esonerati da qualunque obbligo potessero avere nei suoi confronti; anzi, furono solennemente esortati a disobbedirle. Dieci anni dopo, papa Gregorio XIII disse che uccidere la sovrana d’Inghilterra non sarebbe stato un peccato mortale. Al contrario, come dichiarò il segretario di Stato papale per conto del suo padrone, «non v’è dubbio che chiunque la allontani da questo mondo con la pia intenzione di rendere un servigio a Dio non solo non pecchi, ma guadagni merito».7
Questa dichiarazione fu un’istigazione all’omicidio. Benché la maggior parte dei cattolici inglesi non volesse avere nulla a che fare con misure così drastiche, alcuni si misero in testa di provare a liberare il Paese dalla sovrana eretica. Nel 1583 la rete spionistica del governo scoprì un complotto, ordito in collusione con l’ambasciatore spagnolo, finalizzato all’assassinio della regina. Negli anni successivi ci furono episodi analoghi di pericoli scampati per un soffio: lettere in...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il tiranno
  4. 1. Angoli obliqui
  5. 2. La politica di partito
  6. 3. Un populismo fraudolento
  7. 4. Una questione di carattere
  8. 5. Gli agevolatori
  9. 6. La tirannia trionfante
  10. 7. L’istigatore
  11. 8. La follia nei grandi
  12. 9. La caduta e la rinascita
  13. 10. La resistibile ascesa
  14. Coda
  15. Ringraziamenti
  16. Note
  17. Copyright