Dicembre 2013
Partire è stata una buona scelta, tornare è stata una scelta migliore, ma la scelta più importante è restare.
Siedo in un autobus sovraffollato, davanti a me lo sguardo vagamente inquisitorio di un pesce rosso che mi fissa da un sacchetto di plastica e accanto a me un uomo che conosco appena, e che, mi dico, non mi conosce per niente – mio padre.
«Ma dài» dice, il dito puntato fuori dal finestrino. «Guarda là!»
Là dove sta puntando il dito c’è l’incanto dell’India meridionale.
Un gruppo di enormi bovini che attraversano l’autostrada provoca in lui uno stupore quasi infantile.
«È incredibile» continua, gli occhi che corrono da una parte all’altra. «C’è così tanto da vedere che hai paura a sbattere le palpebre.»
Nonostante la stanchezza del viaggio, mio padre mi strappa un sorriso mio malgrado. «Te l’avevo detto, no?» Inspiro a fondo l’aria dolce.
Il pesce rosso nel sacchetto, il ragazzo che lo regge in mano e pressoché l’intero autobus ci lanciano occhiate ormai esplicite, gli sguardi animati da una curiosità innocente, mentre la città di Madurai sparisce alle nostre spalle e il paesaggio rurale si schiude davanti a noi.
Mi stringo lo zaino verde al petto, trafitto da un misto di gioia e nostalgia. Tento di tenere a bada le emozioni quando vedo le colline emergere oltre i campi riarsi, oltre i templi contadini, all’orizzonte. Nonostante senta sotto di me i buchi sul sedile logoro, nonostante il rombo del vento che soffia attraverso i finestrini privi di vetri, fatico a credere di essere qui, di esserci riuscito.
«Questa è la nostra» gli faccio un cenno scacciando il pensiero, e balzo giù dall’autobus ancora in corsa. Mi volto, quando ho ripreso l’equilibrio, sperando che mio padre sia riuscito a scendere tutto intero.
Siamo compagni di viaggio improbabili, noi due: io con un enorme zaino sulle spalle e lui con un’espressione di costante meraviglia in volto, in mezzo alla via principale di Chinnalapatti.
Il villaggio non è cambiato di una virgola nei quattro mesi dalla mia partenza, i negozianti di strada si adoperano friggendo e preparando il tè come sempre, le vecchie motociclette sgasano sollevando nuvole di polvere, e il cielo è enorme e blu e quasi travolgente, sopra le nostre teste.
Nell’attesa, mangiamo un dosa nel piccolo hotel dal tetto di paglia che per miracolo sta ancora in piedi all’angolo della via.
«Davvero per te non è piccante?» chiede mio padre, gli occhi lucidi e il naso che cola, dopo appena tre bocconi.
«Non è niente di che» mento. Nonostante il mio palato sia più abituato alle spezie e ai peperoncini, la mia lingua è ormai fuori allenamento, e così il pranzo si rivela un bentornato alquanto caloroso.
La Sumo, un fuoristrada vecchio ma orgoglioso, arriva cigolando. Sento la portiera chiudersi, seguita da dei passi saltellanti e familiari, li riconosco anche nel baccano mattutino, e mi volto giusto in tempo per vedere Joshua venirci incontro. Mi alzo senza sapere cosa fare e, proprio quando sto per porgergli la mano destra, lui mi avvolge in un abbraccio.
«Come stai?» chiede nel consueto tono gioviale.
Sorpreso, tentenno. «Bene» rispondo. «Adesso.»
«Piacere di conoscerti» dice a mio padre, e si stringono le mani.
«Ho sentito tanto parlare di te» risponde lui.
«Oh, davvero?» fa Joshua.
«Sì» rispondiamo io e il mio compagno di viaggio all’unisono.
Joshua sorride mostrando i denti bianchi e irregolari. «Venite» ci fa strada. «La tua vecchia stanza è già pronta.»
Prendo il mio posto sul sedile passeggero, il villaggio che scompare mentre ci addentriamo in aperta campagna. Ci accoglie una distesa di ettari di vegetazione profumata, palme morenti, e capanne di gente che con me, all’apparenza, non ha nulla in comune.
«Ieri» prosegue Joshua, «quando mi hai chiamato da Mumbai per dirmi che saresti arrivato oggi stesso, ero incredulo.»
«Ti avevo dato la mia parola.»
Joshua ride. «Sei tornato per Natale, proprio come avevi detto.»
Mi volto a guardarlo. «A loro non hai anticipato nulla, vero?»
«Non ti preoccupare. Sarà una sorpresa.»
«E io ho una sorpresa per voi…»
Joshua m’investe con l’usuale cascata di domande, ma la sua voce si riduce a un sussurro alle mie orecchie. Oltre una capanna di fango, dietro una fattoria popolata da una mucca e tre capre, intravedo il terriccio rosso che tanto amavo e, affisso al tronco di un albero, un cartello: DAYAVU BOY’S HOME recita, tre parole bianche in campo blu incorniciate di rosso. Il cuore inizia a battere come un tamburo nel petto.
Sobbalzando sul sentiero dissestato, la Sumo si apre la via tra i rovi e le rocce fin dove la foresta domina incontrastata il paesaggio ricoprendo quasi ogni cosa, dalla strada principale ormai lontana dietro di noi fino all’imponente collina davanti.
«Ci siamo» sussurro, e mio padre si sporge fuori dal finestrino per vedere meglio.
Joshua suona il clacson varcando il cancello dell’orfanotrofio.
Eccolo, è proprio lì davanti ai miei occhi, eppure non riesco ancora a crederci.
Dalla mia prima missione di volontariato, iniziata sei mesi fa, ho imparato che non si può cambiare il mondo. Eppure, come posso sopportare la consapevolezza di aver sfiorato un’altra vita, di averla resa migliore, almeno per un po’, e poi di essermela lasciata alle spalle? Come posso tornare a essere il liceale di una volta, convinto di avere la vita in pugno, quando ora so benissimo che era la vita, a conti fatti, ad avere in pugno me?
Dalla mia prima missione ho imparato soprattutto che, se non posso cambiare il mondo, posso cambiarlo almeno per una persona.
Sono tornato per farlo.
La Sumo si ferma nell’aia, all’ombra dei due alberi accanto alla cucina.
Apro la portiera. Appoggio il piede sul suolo cremisi. Solo adesso mi ricordo di respirare.
I bambini, abbandonando le faccende che stanno svolgendo, mi vengono incontro di corsa, sbigottiti. Uno di loro urla il mio nome al vento.
Prakash, uno dei più piccoli, con un leggero ritardo mentale, incerto mi prende le mani. «Anna» dice, “fratello”, con lo sguardo di chi non crede ai suoi occhi.
Mi piego e gli sorrido stringendogli le mani. «Ehi.»
Yugin, uno dei più grandi, si piazza accanto a me abbracciandomi stretto senza proferire parola. Dhakshina sbuca da non so dove asciugandosi il sudore dalla fronte. Karthick zoppicando giunge le mani in segno di scherzosa formalità. Antony si affaccia incerto da dietro l’angolo del cucinino. Presto tutti e venti mi sono vicini.
Sono circondato dalle persone cui ho dedicato ogni mio sforzo fino a quattro mesi fa, i miei bambini.
Sono tornato.
Sono tornato a Casa.
Giugno 2013
A vent’anni partii per fare volontariato.
Non ne potevo più, ero vuoto e lo ero da tanto, e così, quando misi piede in questo piccolo orfanotrofio nell’India meridionale, i miei bambini trovarono spazio in abbondanza in cui insediarsi. Quello spazio era il mio cuore, che prima riecheggiava vuoto e poi, dopo un’estate di lavoro e amore, si ritrovò pieno di gioia.
Arrivai a Dayavu Home, sei mesi fa, pensando di sapere tutto del mondo, della vita e di me stesso. L’India rurale mi diede torto in meno di una settimana.
Mi ritrovai confuso e spaventato di fronte alla complessa grandezza e diversità di quello che prima era per me una semplice espressione, il cosiddetto “Terzo Mondo”. Scoprii ben presto che non tutto ciò che è povertà è semplice, e non tutto ciò che è semplice è lieto.
I primi giorni in India li trascorsi barricato in camera, al sicuro sotto una rete antizanzare in un ambiente che odorava di frutta guasta. Svolgevo come un soldato le mansioni assegnatemi lavorando nei campi, insegnando l’inglese e giocando con i bambini, ma mi ritiravo appena le avevo finite, per sfuggire a tutto quello che mi era difficile capire. Perché i bambini non mi saltavano in braccio pazzi di gioia appena mi vedevano? Perché la tanto decantata spiritualità indiana tardava a riempirmi i polmoni? Dov’erano i cliché rassicuranti promessi da libri e film?
Pensavo che essere un volontario sotto l’ala protettrice di una grande organizzazione internazionale mi rendesse, a priori, una sorta di eroe. Pensavo che mi avrebbero amato semplicemente perché europeo. Mi sbagliavo.
Realizzai presto che in India il colore della mia pelle, a cui non avevo mai dato grande importanza, era un simbolo di privilegio, un motivo d’immeritata ammirazione. E per questo la mia pelle significava anche distanza e separazione.
In quanto volontario, pensavo di avere il diritto di entrare nelle case, le porte spalancate, e farmi largo nelle vite della gente armato delle mie buone intenzioni e del mio straripante entusiasmo. L’entusiasmo, però, non è un passe-partout.
Il mio rapporto con i bambini cambiò bruscamente una sera, al festival del villaggio vicino.
Joshua mi aveva incaricato di accompagnare i ragazzi in piazza e assistere alle celebrazioni. Furono loro, dei nanetti alti poco più di un metro, a vegliare su di me. Quando un vecchio ubriaco mi si parò davanti, farfugliando le parole che sarebbero diventate la chiave di volta della mia esperienza in India, i bambini s’infilarono tra noi, proteggendomi.
Capii quella sera di essere lì per aiutare, non per insegnare, e per imparare, non per cercare conferme.
Iniziai a trascorrere più tempo con i bambini anche oltre l’orario dei compiti e del gioco. Un mese più tardi, mi sentivo già uno di loro. Joshua m’impartiva lezioni di vita, politica e Bollywood, e diventò così la figura paterna che avevo cercato a lungo.
I bambini di Dayavu Home diventarono i miei bambini. Iniziai a conoscere Karthick, un ragazzino appassionato di cucina la cui sorella si era tolta la vita per amore; Dhakshina, un ragazzo dalla mente acuminata come un rasoio e dal passato sventurato; Antony, abbandonato da entrambi i genitori e colmo di un dolore silenzioso. Mi legai a lui al punto da chiamarlo «fratello». Imparai a conoscerli, e col tempo li conobbi davvero.
Mai avrei pensato di trovare accettazione, e perfino comprensione, tra tutti i luoghi, in un piccolo orfanotrofio del Terzo Mondo. Ma così fu.
Tre mesi più tardi dovetti andarmene. Pieno di tristezza, promisi di tornare ad aiutare in modo concreto quella che era ormai diventata la mia Casa. Avevo portato con me un solo ricordo della mia vita in Occidente, un maialino di gomma di nome Iopig: lo lasciai ai bambini, non solo come dono ma anche per provare a me stesso che il ragazzo che era partito e quello che stava ritornando erano due persone diverse.
Vivere senza giudicare, questo mi avevano insegnato i miei ragazzi, il che non significa ignorare le mancanze altrui, ma riconoscerle, accettarle e saper dire: “Va tutto bene, non nasconderti, non provare vergogna. Nella tua imperfezione vedo grande bellezza”.
Venni, vidi, vissi.
E la mia vita cambiò per sempre.
Dicembre 2013
Sushila esce dal cucinino esibendo un sorriso sdentato e mi porge timida la mano. Quando la stringo, mio padre mi imita, ma la cuoca giunge le mani e piega il capo davanti a lui. Sono l’unico uomo, oltre a suo marito e Joshua, da cui lei si lasci toccare.
Sushila è un’emarginata sociale. Data in sposa a un uomo ben più anziano di lei all’età di quindici anni, aveva messo al mondo due figlie solo per essere poi ripudiata quando, dopo le complicazioni del secondo parto, era rimasta sterile....