Io ti amo
eBook - ePub

Io ti amo

  1. 280 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Io ti amo

Informazioni su questo libro

Una storia d'amore è come un viaggio: puoi attraversare paesaggi mozzafiato o strade accidentate, ma al momento della partenza, travolta dall'emozione, non sai mai davvero quale sarà la tua meta. Di questo Elena, affascinante restauratrice veneziana, è ben consapevole. Quando ha deciso di legare il suo futuro a quello di Leonardo, tenebroso chef di fama mondiale, è stato un po' come puntare tutto su un numero alla roulette, bendata: un azzardo. È stato il destino a farli incontrare e ad accendere tra loro una passione travolgente, la stessa che ha portato il piccolo Michele nelle loro vite. Il destino però ha anche messo a dura prova la loro unione, separandoli, ed Elena ha dovuto accettare la brutale realtà: non si può mettere in cattività uno spirito libero come quello di Leonardo e questo lei avrebbe dovuto capirlo fin dall'inizio. Adesso che nelle sue giornate c'è un altro sogno romantico, che ha lo sguardo cristallino e la freschezza di Dario, le sembra ancora possibile guardare avanti. Ma prima di scrivere un nuovo capitolo della sua esistenza, dovrà affrontare la pagina più importante del suo passato, e scegliere con coraggio l'amore. Con Io ti amo, Irene Cao racconta quello che succede nei film dopo la parole FINE, regalando un epilogo magico alla storia di Elena e Leonardo, che ha già fatto innamorare migliaia di lettrici in tutto il mondo.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2018
Print ISBN
9788817101684
eBook ISBN
9788858693919

1

La campanella annuncia la fine delle lezioni e il custode spalanca il portone della scuola.
Un gruppo di mamme in trepidante attesa occupa tutto lo spazio della calle, ostruendo la via ai passanti e ai turisti. In mezzo a quelle mamme ci sono anch’io e, come molte di loro, reggo in mano un monopattino. Tra i bambini ormai è una moda, qui a Venezia. Quello di Michele è blu elettrico, con il manubrio ricoperto di adesivi dei Pokémon.
Le prime classi cominciano a uscire e nel giro di un attimo calle della Toletta si trasforma in un circo di salti, schiamazzi, zaini lanciati in aria e risate.
Ecco mio figlio, mi corre incontro. Ha il giubbottino verde fluo con la zip completamente aperta, un lembo stropicciato di camicia gli esce da sotto il maglione, i pantaloni beige sono un mosaico di macchie di varia entità: sembra un piccolo guerriero sopravvissuto a una lotta corpo a corpo.
Mi piego sulle ginocchia e allargo le braccia per accoglierlo. Ne approfitto per annusarlo, tra i capelli e sul collo sento il suo odore e come sempre ritrovo l’emozione della prima volta in cui l’ho tenuto stretto: vita pura che entra nei polmoni, ossigeno necessario. Lui finge di ribellarsi al mio abbraccio, ma è chiaro che si sta godendo come me questa coccola. Pochi istanti e poi lo allontano per guardarlo meglio e incontrare i suoi enormi occhi castani, vivi e brillanti.
«Ciao, mamma!»
«Ciao, campione!» Gli do un piccolo bacio sulla fronte e gli accarezzo i capelli. Ormai ho smesso di tentare di domarli, se li pettino un po’ è solo per il piacere di toccarli.
«Com’è andata oggi a scuola?»
«Bene!»
Michele si stacca da me e si appropria del suo monopattino.
«Hai fatto il bravo?»
«Sììì, mamma!»
La sua espressione furba suggerisce ben altro, però. Chissà quante ne avrà combinate con i suoi compagni di scuola! A sei anni hanno una tale quantità di energia da spendere…
Mentre saluto le altre mamme, lo osservo trafficare nello zainetto, da cui estrae un cartoncino rosso a forma di cuore, decorato con glitter di mille colori.
«Questo è per te.» Lo esibisce con un certo orgoglio e poi me lo consegna. «Buon San Valentino, mamma!»
«Grazie, amore mio.»
È la prima volta che ricevo un regalo del genere. Sopra c’è scritto TI VOGLIO BENE nel suo stampatello un po’ incerto e sotto c’è un disegno con due figure: io e lui che ci teniamo per mano.
«È meraviglioso! L’hai fatto tutto tu?»
«Sì» mente, e sale con un piede sul monopattino. Poi mi guarda e si rimangia quella piccola bugia. «Be’, i brillantini li ha incollati la maestra Laura, a me non piacevano tanto…»
«E invece sono molto belli!» Infilo il biglietto nella mia borsa a tracolla, avendo cura di non sciuparlo. Poi afferro il suo zainetto e me lo metto in spalla, lasciandolo libero di divertirsi su quel trespolo con le ruote.
Michele pattina per qualche metro, poi si ferma. Mi si accosta all’orecchio e mi confessa in un sussurro: «Sai che ho dato un cuore come il tuo anche a Cristina?». Si vede che è molto emozionato.
«Davvero?»
Lui fa sì con la testa, sorridendo complice, e io intanto penso alla sua compagna di classe con gli occhi color acquamarina, i lunghi capelli biondi e la mise impeccabile di una principessa. La prima volta che l’ho vista ho subito pensato: Questa è Gaia in miniatura!, e mi è scattata una simpatia istantanea.
«Che cosa ti ha detto Cristina quando le hai dato il biglietto?»
«Mi ha detto che mi vuole bene.»
«E tu ne vuoi a lei?»
«Tanto» dice in un soffio. Ha gli occhi a cuore, ma sembra che non voglia darmelo a vedere. Eccolo lì il maschietto, che già da bimbo si sente in dovere di nascondere i propri sentimenti…
Lo guardo e mi si stringe il cuore. «Bene! Allora devi dirglielo anche a voce, piccolo mio!»
Lui mi sorride, sale di nuovo sul monopattino, si allontana di qualche metro e, quando arrivo alla sua altezza, mi tira per il cappotto. «Mamma…» miagola, puntando gli occhi sulla vetrina all’angolo. «Compriamo i dolcetti?»
Decido di accontentarlo, quella pasticceria fa i dolci più buoni di Venezia. Dopo aver preso un vassoio di zaleti e buranelli, ci dirigiamo verso casa. In una manciata di minuti arriviamo in campo San Trovaso. Apro il portone d’ingresso della palazzina che ospita il nostro appartamento e, una volta parcheggiato il monopattino in un angolo sotto la scala, prendo Michele per mano e insieme saliamo al secondo piano.
Dalle finestre del soggiorno si vedono le luci dello squero, il cantiere dove costruiscono le gondole. Qualche volta Michele si incolla ai vetri e resta lì incantato a guardare gli operai che lavorano con le mani e fanno un bel baccano, a suon di raspe e martelli. Adesso, invece, si libera di scarpe e giubbotto e corre nella sua stanza a giocare.
Mentre lui si dedica alla costruzione di un traballante castello della Lego, io mi preparo per uscire. Davanti alla specchiera illuminata del bagno mi passo un velo di fondotinta compatto sul viso, poi applico sugli zigomi e le guance un po’ di fard arancio, tonalità che, secondo la saccente commessa che me l’ha venduto, dovrebbe esaltare il nocciola dei miei occhi. In effetti, il risultato non è niente male. Comunque, ora che ci penso, devo decidermi a cambiare quei tremendi led che sembrano avercela a morte con le mie occhiaie perenni: quelle, purtroppo, dormendo in media sei ore a notte, non mi abbandoneranno mai, temo dovrò farmene una ragione. Mi smuovo un po’ i capelli, sperando di farli tornare nella loro forma originaria, quella di un caschetto liscio con riga in mezzo lungo fino alle spalle: oggi in pausa pranzo sono andata dal parrucchiere, ma l’umidità di Venezia è un vero attentato alla messa in piega! Infine, mi passo un po’ di mascara sulle ciglia e metto sulle labbra un filo di gloss rosa pesca.
È in quel momento che suona il campanello. Esco dal bagno e, pattinando con attenzione sui collant, mi precipito alla porta. Guardo il monitor del videocitofono e metto a fuoco una signora bardata in un cappotto color porpora, con in mano due borse di tela stracolme. Eccola, è arrivata la Betta. Alzo la cornetta – «Sali!» – e premo il pulsante che apre il portone d’ingresso.
In pochi secondi, mia madre si materializza davanti a me. Ogni volta mi sorprende la velocità con cui fa le scale: a settant’anni ha lo sprint di una ragazzina.
«Ciao, tesoro!»
«Ciao, mamma.» Le do un bacio sulla guancia e, raccogliendoli dal parquet, mi infilo i tronchetti rasoterra in cuoio nero con zip laterale in oro. «La peste è nella sua stanza. Mi raccomando, non fargli mangiare troppe schifezze!»
«Quando mai gli ho dato schifezze!»
Potrei fare un rapido elenco, ma rinuncio a ribattere, ormai ho capito che i nonni hanno una percezione della realtà tutta loro. E, in fondo, mi piace che mia madre abbia instaurato un rapporto di complicità con Michele, un legame esclusivo in cui nessun altro può intromettersi. In questi anni ne ho dati tanti di calci alle mie manie di controllo… e ho imparato che bisogna saper mollare, affidarsi per vivere meglio.
«Non farò tardissimo» dico, e afferro il bomber in pelliccia sintetica infilandomelo sopra il miniabito nero a manica lunga.
«Tranquilla, tesoro, resto con piacere. Fai con comodo.»
«Sì, ma non voglio approfittare. Papà magari si sente solo, poi.»
«Figurati! Tuo padre è così contento quando non ci sono…» E si mette a ridere.
Rido anch’io con lei, pensando a papà che si beve un rosso, entusiasta all’idea di farsi una bella partita a carte con i suoi amici. Prendo la borsetta a tracolla in pelle nera con la catena d’oro e ci infilo dentro il necessario.
«Michele, vieni subito a darmi un bacio!»
Lui esce dalla sua stanza correndo come un fulmine e si ferma davanti a me, mimando una derapata. Gli stampo l’impronta del gloss su una guancia. «Mi raccomando…»
«… fa’ il bravo con la nonna!» mi previene cantilenando, e subito riparte sgommando alla volta dei suo Lego.
«Sono proprio noiosa, eh?» dico guardando mia madre con rassegnazione. Lei si stringe nelle spalle con un sorrisetto beffardo: da quando sono mamma anch’io, si sta prendendo delle belle rivincite. «Ok, ok ho capito… ciao!» Mi metto la borsetta sulla spalla e volo fuori, a incontrare l’altro uomo che amo.
Ci siamo dati appuntamento per le sette al Corner Pub, un locale vicino al museo Peggy Guggenheim. Arrivo con il mio canonico quarto d’ora di ritardo e, quando entro, c’è già una piccola folla accalcata al bancone del bar. Mi guardo intorno in cerca di lui, mi sollevo sulle punte e infine lo vedo.
È seduto su uno sgabello, riconosco il suo pastrano grigio antracite con i bottoni dorati e gli anfibi in pelle nera. In mano ha uno Spritz e scambia qualche battuta col barista.
«Dario!»
M’intercetta con lo sguardo e il suo volto si apre in un sorriso. Mentre avanzo verso di lui, mi osserva con la testa un po’ inclinata e la sua tipica espressione tra il curioso e il divertito. «Ciao, piccola.» Poi mi attira a sé. Le nostre bocche si uniscono in un bacio, la sua sa di arancia e Aperol.
«Buono» dico assaporandolo sulle labbra, «posso averne uno anch’io?»
Il barista si mette all’opera e noi andiamo a sederci a uno degli antichi tavolini in legno pregiato. Poco dopo, un cameriere ci serve da bere insieme a una selezione di cichéti veneziani.
«Com’è andata la giornata?» mi domanda Dario, toccando il mio bicchiere col suo.
«Super piena, ma sono contenta…»
Proprio in quel momento il telefono di lui si mette a vibrare sul tavolo. Sul display compare un nome straniero, forse del Nord Europa.
«Lavoro?» gli chiedo, mentre addento una tartina. «Rispondi, magari è importante!»
Dario è uno scultore e attualmente sta lavorando all’allestimento del Padiglione norvegese per la Biennale.
«Possono aspettare» fa lui. «Ora ho di meglio da fare» mi guarda malizioso. Silenzia la suoneria e poi ripone il telefono in tasca.
«Dovrei imparare da te» rifletto. «Io non riesco mai a non rispondere quando mi chiamano.»
«Anch’io lo faccio sempre, tranne quando sono con te» dice, incrociando le braccia sul tavolo e mettendo su un sorrisetto da scioperato.
In effetti, non l’ho mai visto cincischiare con il telefono più dello stretto necessario. È sempre immerso nel momento presente, Dario. Lo osservo meglio alla luce della lampada che illumina il nostro tavolo: le labbra perfettamente disegnate, il naso dal dorso ampio che gli regala un profilo greco, gli occhi azzurri che si spalancano dietro ciglia foltissime. Mi piace guardare le diverse forme che prendono i suoi capelli ogni volta che ci passa una mano dentro, onde dinamiche come i suoi pensieri.
«Allora? Continua a raccontare» m’incalza, e affonda le dita in una ciotolina di olive. Sono le mani di un artista, forti e callose, hanno incisi sopra anni di lavoro con la pietra.
«Sinceramente non pensavo potesse essere così impegnativo coordinare dieci studenti alle prese con il primo restauro della loro vita.»
Da due anni insegno all’Istituto Veneto per i Beni Culturali e questo semestre accompagno i miei allievi nella loro prima esperienza sul campo.
«Ti fanno dannare i ragazzi, eh?»
«È che mi sento un po’ una di loro, mi fa ancora strano sentirmi chiamare “prof”…»
«In effetti, adesso che ci penso, io non ho mai avuto un’insegnante carina come te. Meglio così, perché di certo mi sarei messo in qualche guaio…» Attorciglia un dito in una ciocca dei miei capelli. Poi, come colto da un pensiero improvviso, estrae dalla tasca del pastrano un pacchettino rosso e lo mette sul tavolo. «Questo è per te.»
«Per me?» Sgrano gli occhi. Non me l’aspettavo. «Si era detto che non avremmo festeggiato questa festa comandata, o sbaglio?»
«Hai ragione, scusa! Se dobbiamo fare gli anticonformisti, be’, allora ridammelo» e fa per strapparmelo dalle mani.
«Giù l...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Io ti amo
  4. 1
  5. Quattro anni prima
  6. Oggi
  7. Grazie