C’è qualcosa che non va.
Non sto bene. Sono cambiata. Mi sento diversa.
Mi rendo conto di vedere persino le cose in modo diverso, come se i colori fossero più tenui, come tutto fosse ovattato, come se fossi dentro a uno strano sonno da cui non riesco mai completamente a svegliarmi. E poi ho caldo, ho freddo, sudo e tremo.
Lo so io cos’è. Ieri sono andata in farmacia e ho chiesto qualcosa per la menopausa. La farmacista mi ha domandato se avessi fatto le analisi, se mi avessero fatto una diagnosi, dato una ricetta. Ho detto di no e allora mi ha guardata come se fossi una pazza.
«Guardi signora che prima di prendere una medicina così dovrebbe fare degli accertamenti. Che sintomi ha?»
«Stanchezza, affaticamento, un senso di straniamento, insomma, quelle cose che cominciano a capitare alle donne della mia età » ho detto, «e come se non bastasse non mi vengono da sei giorni.»
«Ho capito, però, signora, potrebbe essere un semplice ritardo, o si potrebbe anche trattare di qualcos’altro, no?» e ha tirato fuori una scatolina da sotto al bancone. Io l’ho presa in mano.
«Ma…» ho balbettato leggendo l’etichetta.
«Sì, un test di gravidanza» mi ha preceduto lei, e a me è venuto subito da ridere.
«Guardi che ho quarantasei anni e rimanere incinta è in assoluto la cosa più improbabile che mi possa capitare.»
Ma lei ha insistito: «Per quanto sia improbabile, non si può escludere completamente. Meglio non avere dubbi». Allora ho pensato che lo dicesse più che altro per vendermelo, quel test.
E ora sono qui. Sono uscita prima dall’ufficio proprio per venire a fare questa cosa in santa pace, senza Lele in casa, un test di gravidanza a quarantasei anni chiusa nel bagno come una ragazzina.
A quarantasei anni…
Mi abbasso le mutande, mi siedo sul water, scarto lo stecco e lo metto lì sotto, ma devo aspettare un po’ finché il getto di urina non arriva. E poi aspetto, ancora.
Tre minuti da ora.
La prima volta in cui ho avuto un ritardo è stata quando avevo diciannove anni. Stavo con Andrea, il mio fidanzatino di allora, e che paura ci siamo presi. Dopo cinque giorni che non mi venivano gliene parlai, gli spiegai cosa significava, a lui che non ci capiva nulla. Gli dissi che poteva non essere niente ma poteva anche esserci il rischio che fossi rimasta incinta. Lui iniziò a sudare, diventò bianco. Disse che dovevamo trovare una soluzione, che non poteva succederci una cosa così e che dovevamo fare qualcosa.
«Cosa facciamo?» chiesi.
Allora prese il motorino e disse: «Andiamo», e mi portò a San Pietro ad accendere un cero. Questa era la sua soluzione. Arrivammo a San Pietro. Ci inginocchiammo davanti alla Madonna e iniziammo a pregare. Poi, mentre eravamo lì, aprii gli occhi e mi girai a guardarlo: aveva ancora gli occhi chiusi davanti alle candele accese, lo guardai per un momento e pensai che se fosse stato, se davvero fossi stata incinta di questo ragazzo che al massimo mi poteva suggerire di andare a pregare per scongiurare una gravidanza, forse non sarebbe andata poi così male, forse avrei anche potuto tenerlo. E allora improvvisamente cominciai a pregare di essere incinta.
Due minuti.
Se mai fosse davvero accaduto, mio padre sarebbe stato felice. Certo, inizialmente gli sarebbe venuto un colpo, ma poi sarebbe stato felice. Avrebbe avuto un nipotino, che era la cosa che desiderava di più. Poi è morto, e quando ti muore un genitore si hanno tanti sensi di colpa, li hai anche se sei stato un buon figlio e se hai cercato di comportarti bene e di non far mai mancare il tuo amore. Ma il mio senso di colpa, quello più grande, è stato sempre per l’unica cosa che non è dipesa dalla mia volontà : non avergli dato un nipote.
Mia madre invece avrebbe preferito che abortissi. Ne sono sicura. Anche se dopo, una volta sposata, desiderava che le dessi un nipotino, sono sicura che se fosse accaduto quando avevo diciannove anni avrebbe fatto di tutto perché abortissi. Avrebbe temuto che un figlio a quell’età mi avrebbe rovinato la vita, la carriera, la grande carriera che non ho mai fatto, comunque. O forse avrebbe pensato che sarebbe stata la sua carriera a rimetterci, perché avrebbe dovuto occuparsi del bambino al mio posto. Eh, mamma? Chi lo sa.
Un minuto.
Con Lele il massimo che siamo riusciti a ottenere è stato un ritardo di una decina di giorni durante il quale avevamo deciso di non fare nemmeno il test per non rovinarci la speranza. È una cosa un po’ stupida, ma noi volevamo un figlio e quel ritardo, quei pochi giorni in cui la possibilità esisteva, volevamo che durasse. In quei giorni era come se fossimo in tre, era quasi come se lui ci fosse, come se fosse già nato. Eravamo quasi tre. Poi però mi venne il ciclo e la magia svanì. Sciolta nel nulla come una bolla d’aria che ti lascia l’amaro in bocca e un buco nello stomaco.
Tempo quasi scaduto.
Cosa fa già a casa? Chiusa lì in bagno, poi… Che abbia litigato con la capa?
«Benny, stai bene?»
«Sì, ora esco.»
Ma io mi devo preparare, sono tornato a casa prima da scuola proprio per rendermi presentabile e mancano solo due ore all’appuntamento. Lo sa che devo uscire! Lo sa che è importante!
Va bene, calma. Non mi devo agitare. Non mi devo arrabbiare. In fondo sta andando tutto bene, devo rimanere calmo, concentrato, perché in fondo sta filando tutto liscio. A volte bisogna dare tempo alla vita, bisogna avere pazienza perché le cose arrivino, le cose prima o poi arrivano. Se hai lavorato bene, se hai fatto le mosse giuste. Le cose arrivano.
Eccola uscire. Entro io, mi lavo. Inizio a sistemarmi la barba col rasoio elettrico.
Ma lei cosa fa? Perché è a casa? La vedo riflessa sullo specchio: è seduta lì sul letto. Si guarda le mani. Cos’è successo?
«Benny…» Si gira, mi guarda. «Cos’hai?» chiedo.
«Un ritardo…» dice.
Spengo il rasoio elettrico ma è come se continuassi a sentire questo forte ronzio, è invadente, è come se avessi un apparecchio elettrico acceso dentro nella testa.
«Cos’hai detto?»
«Ho un ritardo.»
«Ma in che senso? Un ritardo dove?»
«In che senso deve essere?! Un ritardo nel mio ciclo mestruale, Lele!»
«Un ritardo… E di quanto?»
«Sei giorni.»
«Sei giorni?»
«Sei giorni, Lele.»
Mi siedo accanto a lei.
«Ma… Voglio dire, alla tua età … Scusami se te lo dico, ma…»
«No, non è menopausa, credevo anch’io che fosse menopausa.»
«Ma come no, voglio dire, è un po’ strano… E poi scusa, da quant’è che non lo facciamo?»
«L’abbiamo fatto il giorno che ti ha telefonato Bernardoni.»
Solo ora mi accorgo che ha in mano il bastoncino del test. Me lo mostra e quel ronzio in testa aumenta, è feroce, aggressivo, incessante. Guardo la barretta di plastica: ci sono due trattini neri sopra. E allora lo chiedo.
«Sei incinta Benny?»
«Così pare…»
Respiro. Respiro profondo. Ancora. Ancora un altro. Ha detto di essere incinta. È questo che ha detto?
«E se fosse un errore?» dico.
«E se fossi un po’ più ottimista?»
«Benny, hai quarantasei anni!»
«Grazie, lo so!»
«Va bene, scusa…»
«Può essere un errore, può essere un falso positivo… Però non è proprio impossibile che sia incinta, può capitare.»
«A quarantasei anni?»
«Puoi smettere di ripeterlo?»
«Io posso anche non dirlo più, ma sappiamo tutti e due che non è possibile e che le altre volte…»
«Quali altre volte?»
«Non ti ricordi Benny?»
«Ma che cosa mi devo ricordare? Non sono mai rimasta incinta!»
«No, appunto… Quante volte… Insomma dai, lo sai.»
«Ma di cosa stai parlando?»
«Di tutte le volte in questi undici anni che improvvisamente, un paio di giorni dopo che avevamo avuto un rapporto, ti sentivi il seno gonfio, non te lo ricordi più? O di tutte le volte che credevi di avere le nausee, o di sentire gli odori…»
«Cosa stai cercando di dire?»
«Niente… Sto solo cercando di farti capire che quel test potrebbe anche non essere affidabile al cento per cento, tutto qui.»
«E che io sono una mezza matta?»
«Ma no…»
«Che sono una pazza che si convince di essere incinta? Che ho le gravidanze isteriche, Lele?»
Si alza, va in cucina. Ecco, l’ho fatto, ho detto l’unica cosa esatta che non dovevo dire, la peggiore. Ci riesco sempre con lei.
«Benny…» Non risponde. «Cosa stai facendo?»
Ha la voce rotta. «Un soufflé.»
«Benny, ti prego…»
«Va bene, il test sarà falso, sarà un’altra delle mie gravidanze isteriche, come dici tu.»
«Ma io non dico che…»
«Sappi però che non sarebbe così impossibile, i tempi sono cambiati, non è più come una volta… Un’amica di mia cugina, l’anno scorso, è rimasta incinta a quarantotto anni!» La sua voce è un po’ troppo acuta, per farsi sentire dalla cucina.
«E com’è andata?»
«L’ha perso al terzo mese, ma che c’entra?»
«Lo vedi?»
«Ma non significa che dovrebbe succedere anche a noi! Magari a noi invece andrà bene! Ci dovrà pure andare bene qualcosa nella vita, prima o poi…»
«Il mio film. Sto andando a un appuntamento importante, no?»
Lei rimane per un attimo in silenzio, poi la rivedo affacciarsi alla camera da letto.
«Va bene, ma oltre al tuo film, non potrebbe per una volta andarci bene tutto? Non potremmo essere felici nel lavoro e magari avere anche un figlio? Lo hanno tutti un figlio, cazzo! Sarebbe così impossibile? Sarebbe chiedere troppo?»
«Ma alla nostra età …»
Si siede sul letto, accanto a me. «Smettila di ripeterlo, ti supplico, ti scongiuro in ginocchio, smettila!»
«Voglio dire solo che è strano, tutto qui, che è una cosa che non succede molto spesso, solo questo…»
...